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Una donna italiana in un carcere della Baviera di Paola – Redazione di Ristretti Orizzonti della Giudecca
Un’esperienza certamente dura, durissima è stata la mia permanenza in carcere in Germania. Anzi, in Bayern. C’è una premessa da fare: il Bayern è sì in Germania, ma è "Freistaat", Stato Libero. Questo significa che sia le leggi penali che il regime carcerario sono diverse dal resto del paese. Diverse, o, meglio, più severe. Il Bayern crede nel carcere come "punizione", non certo come "rieducazione", almeno basandomi sull’esperienza della mia permanenza di due anni e cinque mesi in tre diversi carceri. Il primo anno l’ho trascorso nel carcere di Norimberga. Ero alla mia prima esperienza carceraria e il ritrovarmi in una struttura vecchia di circa 150 anni, con muri scrostati, celle di "accoglienza" da 8-10 letti, con un unico "bagno" (un water e un lavabo vecchio e sporchi, rinchiusi all’interno di un "prefabbricato" di plastica), due finestrelle, un metro e mezzo per ottanta centimetri, un senso di sporco, di abbandono, che mi ha fatto pensare a certi servizi televisivi visti sulle peggiori strutture italiane. Sì, certo, il problema del sovraffollamento è pressoché inesistente, o, almeno, io non l’ho toccato con mano, ma questo perché il "Land" abbonda di carceri! A parte il problema della lingua, che ho risolto con l’utilizzo dell’inglese, la cosa che più ho provato, è stata la sensazione di "essere prigioniera" a tutti gli effetti. Lì non si dimentica mai. L’anno trascorso a Norimberga, l’anno cioè del carcere preventivo, l’ho speso in una cella "singola", di 4 metri per 2.5, con una finestra posta a filo del soffitto, alto 4 metri, di un metro e mezzo per ottanta centimetri, con il WC e il lavabo a mezzo metro dal letto, senza neppure un tenda per "coprirlo", senza corrente elettrica, a parte un neon che rimaneva stare acceso 16 ore su 24 anche d’estate, con una radiolina a batterie che io, tra le poche fortunate, ho potuto comprarmi, senza acqua calda (alle docce si accedeva in sei persone per volta, tutti i giorni dalle 17.00 alle 19.00, tranne sabato, domenica e festivi), dove si rimaneva aperti, almeno nel mio braccio, dalle 17.00 alle 20.45, più mezz’ora a pranzo per accedere alla mensa. Non esistono sbarre sulle porte, ma solo blindi completamente chiusi, con uno spioncino di modo che gli agenti potessero guardare all’interno senza essere visti e che, nella maggior parte dei casi veniva "oscurato" dalle detenute. Con questo tipo di "porta" quando si è chiusi, e cioè quasi sempre, si è completamente isolati. Ci era concessa un’ora d’aria al giorno. Il cibo era scarso e immangiabile e per questo, durante i primi tre mesi, ho perso 16 kg. La spesa, in regime di "preventivo", si può fare due volte al mese, per una somma massima di 160 euro. Ho imparato a sopravvivere acquistando dolci e cioccolata e cucinando ogni tanto qualche pastasciutta al pomodoro nel cucinino con due piastre che avevamo nel corridoio, fuori dalla cella. La posta, sia in entrata che in uscita, passava per l’Ufficio del Procuratore, veniva tradotta e letta, e, per questo, impiegava anche un mese per giungere a destinazione. Per comprendere però la vera essenza del sistema Bavarese, devo parlare del carcere definitivo di Aichach, carcere dove sono stata un anno e mezzo. Aichach è un carcere femminile che ospita circa 450 donne, la maggioranza con pene definitive, più, circa, un centinaio di uomini con condanna al di sotto di due anni. è una struttura dei primi anni del ‘900, dove, però, la ristrutturazione è ottima e continua. Il carcere, al primo impatto, è quasi "bello" da vedere. C’è una struttura circolare, al centro, dove è posto un grande ufficio, sempre circolare, tutto di vetro, con strutture portanti in ferro, dove vi è un numero enorme di monitor attraverso i quali si controlla tutto il carcere. Da lì si snodano quattro bracci di quattro piani l’uno (compreso il piano terra), dove sono posizionate le celle, in una struttura "a terrazza" (come quelle di Rebibbia, per intenderci) dove tutto è molto "pulito" e "silenzioso". Anche lì l’interno delle celle non si può vedere. I "blindi" sono, nella parte esterna, ricoperti di legno di abete (di modo che il risultato "visivo" risulta molto piacevole), e sono completamente chiusi. Dai quattro bracci, inoltre, si snodano altri bracci minori, dove vi sono le "stanze di lavoro", l’infermeria, il panificio (che produce oltre che per il fabbisogno interno, anche per l’esterno), la cucina, gli uffici, etc. In ogni cella vi è un interfono con il quale si può comunicare con l’ufficio degli agenti di sezione. Tutto molto ordinato e burocratizzato! Ma veniamo alle regole, molte e ferree. Gli orari sono: sveglia alle 6.00, durante la settimana e alle 8.00 il sabato, la domenica e i festivi. Alle 6.00 le celle vengono aperte per un’ora, per dare modo a coloro che lavorano (la maggioranza, visto che il lavoro è obbligatorio per i "definitivi") di prepararsi, di far colazione, di andare in doccia per essere al lavoro alle 7.00. Nel week-end e nei giorni festivi le celle non vengono aperte, la mattina. Poi si viene rinchiusi fino alle 11.20 (nei week-end fino alle 10.45), orario in cui si scende al piano terra per prendere il pranzo che si consuma poi in cella. Il "capitolo cibo" lo affronterò più avanti. Alle 12.00 – nei fine settimana alle 11.30 - si viene richiusi (o rinchiusi, che dir si voglia!) fino alle 15.30, ora in cui c’è l'ora di "aria". La chiusura definitiva avviene alle 19.30. Questo dal lunedì al giovedì. Il venerdì l’apertura è dalle 14.00 alle 16.30 e il sabato e la domenica dalle 13.00 alle 16.00. Quindi chi lavora, quando lavora, perché anche lì ci sono problemi di "scarsità" di "commesse", durante la settimana rimane fuori cella praticamente tutto il giorno, ma si ritrova, nel lungo fine settimana, a dover rimanere chiuso quasi tutto il giorno: secondo quanto mi è stato spiegato da un agente, per aver modo di riflettere sui propri "errori"! Arbeit mach frei! Un capitolo a parte è quello del lavoro. Lì, come dicevo, è obbligatorio, (se ci si rifiuta, la prima punizione è la sospensione del permesso di fare la spesa per tre mesi!). Si lavora per 7 ore e mezza tutti i giorni fuorché il venerdì, giorno in cui si lavora 5 ore e mezza. La cucina e il panificio hanno orari e giorni diversi, ma non mi dilungherò su questo. Il salario è di 1 euro e 32 centesimi all’ora (fino al gennaio 2003 era di un euro e venticinque centesimi) per ogni ora effettivamente lavorata. Se ci si assenta, anche solo per dieci minuti per qualsiasi motivo, per esempio per andare dal medico, o perché si viene chiamati in qualche ufficio, i dieci minuti d’assenza vengono decurtati. Se ti spediscono in cella, perché non c’è lavoro, non pagano. Questo significa che, quando va benissimo (a me non è mai capitato, in un anno e mezzo) si svolgono circa 140 ore di lavoro mensile (sempre che non ci sia qualche festa infrasettimanale, il che in Bavaria capita spesso!), e si ottiene uno stipendio di circa 190 euro. Ripeto, né a me, né alle mie colleghe della sartoria è mai capitato di guadagnare 190 euro! Da questa cifra viene poi tolto il 3.5% per l’assicurazione sul lavoro. Di questa cifra si può utilizzare, per la spesa mensile una parte pari ai 3/7 del totale, mentre i 4/7 viene messa in un conto "bloccato" e vengono "liberati" al momento del rilascio (o del trasferimento in un altro paese, come nel mio caso). Come ho accennato prima, la spesa era mensile, si faceva cioè una sola volta al mese e a volte potevano passare anche sei settimane tra una spesa e l’altra. Si può ben capire cosa si possa acquistare con circa 60 - 70 euro, una sola volta al mese. Ma spesso capitava che gli euro a disposizione fossero molti meno, come mi è successo più di una volta, quando mi sono arrangiata con 40 euro. 40 euro è, poi, la cifra massima di spesa a disposizione di coloro che non lavorano. Da contare che se uno ha la TV deve pagare 16 euro mensili per l’affitto dell’apparecchio e il canone. Qui, però, c’è da fare un appunto sull’organizzazione dei conti correnti. Ogni detenuta ne ha ben 4! Uno per i soldi "risparmiati", uno per quelli a disposizione della spesa, (entrambi "riempiti" con il denaro guadagnato col lavoro in carcere), un altro per quello che una persona si porta "dietro" (o perché entra con qualcosa, o perché gli vengono mandati, oppure perché proviene da un altro carcere, dove aveva del denaro), che è diviso in due parti distinte: una parte è vincolata, non si può cioè toccare, e una parte è a disposizione per comprare francobolli (per non più di venti euro al mese), per pagare la TV, e per acquistare scarpe (anche per questo c’è un "mercatino" interno mensile, dove si è costretti ad acquistare, vista l’impossibilità di ricevere pacchi dall’esterno. Stendo un "velo pietoso" sul tipo di calzature e sul prezzo esagerato del prodotto, anzi, del sottoprodotto! Se qualcuno da fuori manda dei soldi al detenuto, e nel biglietto che accompagna il denaro non è specificato il termine Zweckbindung 1, questi soldi non si possono toccare. Vengono vincolati fino al momento del rilascio. A me è capitato più di una volta che mi venissero spediti dei danari ed io li ho avuti a disposizione solo quando sono rientrata in Italia. Da quest’ultimo conto, poi, si potevano fare tre spese annuali: una a Natale, una a Pasqua, ed una a proprio piacere, previa richiesta fatta con circa due settimane d’anticipo, di 91 euro l’una e di 70 euro le altre due. Per la spesa di Natale e di Pasqua, come si suole dire, "passato il Santo, passato il miracolo"! Se alla data prefissata per tali spese, per un qualsiasi motivo, i soldi non erano a disposizione (e vi assicuro che i motivi c’erano, e spessissimo!) si perdeva la chance. Naturalmente il problema era molto grosso, dal momento che non si poteva ricevere alcun pacco dall’esterno. Di nessun tipo. Gli unici pacchi che si ricevevano erano quelli di un’associazione cattolica, Skf, uno ogni sei mesi, con all’interno biancheria intima, 2 paia di fuseaux, qualche t-shirt o maglione, a seconda della stagione, qualche paio di calzini e quattro asciugamani. In cella, infatti, erano permessi due paia di jeans, che il carcere ti dava al momento del tuo arrivo, segnati da un numero di riconoscimento, di modo che al momento di andarsene di restituissero, sette maglie, quindici paia di slip, sette paia di calzini, una camicia a scacchi, sempre data dal carcere, non più di quattro paia tra scarpe e ciabatte, quattro asciugamani, niente accappatoio, niente lenzuola private, né camicie da notte, private. La femminilità, la cura della propria persona, la vanità, non erano "contemplate nel regolamento". Tanti bei soldatini, tutti uguali, senza individualità. C’era, e c’è, il tentativo costante di soffocare la personalità. La burocrazia è spaventosa. Un esempio minimo è quello dei conti correnti, che neppure dopo un anno di permanenza lì uno riesce a capire bene, per cui è molto facile sbagliare e ritrovarsi a fare "la fame", in senso non metaforico! La cella è un "bene pubblico", anche se uno ci deve stare 15 anni. Piccolissima e singola, con una finestrella da cui si vede solo il cielo e che per aprire e chiudere bisogna salire su di una sedia, (io non sono bassa, sono un metro e settantatre centimetri!), con tazza WC e lavabo attaccati al letto, un tavolino, una sedia, due mobiletti per tenerci la spesa, un armadietto per il vestiario, e che non si può "arredare". Vietato appendere ai muri o ai mobiletti qualche foto o qualcosa di allegro (per non parlare poi di foto un po’ "osé"); c’è un’unica stecca di legno, lunga come il letto, a cui attaccare i propri "ricordi". Non si può tenere in cella troppa posta o troppe foto. Bisogna depositare tutto in magazzino. Tutta la propria vita dev’essere "custodita" in pochi metri quadri. Il non poter consegnare o ricevere pacchi rende impossibile qualsiasi tipo di "contatto" col mondo reale. Non si possono ricevere riviste, a meno che non ci si faccia, da soli, l’abbonamento, il cui costo rende quasi impossibile averne. A me venivano spediti tutti i numeri di Ristretti Orizzonti, ma ne ho letti solo due, che sono riuscita ad avere per l’intercessione di un agente, l’unica, un po’ "umana". La privacy non esiste! La posta, in entrata ed in uscita, viene letta da un’apposita commissione. Le lettere si devono spedire aperte e si ricevono altrettanto aperte. Non si possono scrivere critiche al carcere o agli agenti, non si può parlare di ciò che succede all’interno del carcere. Io, per scrivere questo, ho atteso di rientrare in Italia. Mi era stato chiesto di mandare qualcosa sulla mia esperienza "tedesca" all’epoca in cui ero lì, ma non mi sono fidata a scrivere nulla: sarebbe stato censurato. Lì non esistono "discussioni" sulla situazione carceraria; il mondo esterno non sa e non deve sapere; una raccolta di firme, una "riunione" di detenute, una protesta di qualsiasi tipo, vengono punite severamente. I divieti sono "milioni". Non esiste "rieducazione". Non esistono corsi o attività ricreative. Esiste solo il lavoro e la cella. Non c’è palestra (solo una cyclette per 120 persone, circa); c’è un misero corso di computer, a cui possono accedere solo cittadine tedesche in procinto di uscire. Non esiste un corso di tedesco per stranieri, non esistono volontari che possano entrare; esiste solo un gruppo teatrale, di circa una decina di detenute (su 450!), di lingua tedesca, che organizza due spettacoli all’anno. E poi... c’è la Chiesa. Tutti i giorni si può andare a pregare (tutti i giorni tranne il lunedì, giorno in cui l’unico prete fa riposo!). Vorrei ora affrontare il problema del cibo. Non voglio soffermarmi sulla "cultura culinaria" teutonica, poiché c’è ben poco da dire. Vorrei, però, dare un’idea del trattamento che si riserva ai detenuti per quanto concerne il cibo. Innanzitutto parliamo del quantitativo di vitamine settimanale: 300 gr. di frutta, circa due mele piccole, alla settimana; poi, 500 gr. di latte, sempre alla settimana, 250 il martedì e 250 il giovedì, giorni in cui viene consegnata anche la mela. Un pranzo tipo consiste in due cucchiai di riso bollito, un mestolino di salsa rossa, completamente liquida, al gusto di "pomodoro", due o tre foglie di insalata scondita e un "medaglione", fritto nella margarina, fatto di pane raffermo, impastato con qualche erba o droga, dove le calorie derivavano dai grassi contenuti nella margarina fritta e bruciata! A volte un pezzo di "apfel-strudel" con salsa al gusto di vaniglia (acqua giallastra), e… basta. Spesso al posto del riso, patate o insalata di patate (sempre un mestolino), e, nel caso di persone che mangiavano carne, wurstel fritto o una coscia di pollo o tacchino, ma solo due volte al mese, cotte al forno, con le penne ancora attaccate! La cena, poi, consegnata intorno alle 16.00, poteva essere 4 o 5 fette di formaggio da toast, oppure 2 uova sode e un formaggino, o un mestolino di pudding annacquato, oppure uno yogurt da 125 gr. con un pomodoro della grandezza di una pallina da ping-pong, per i vegetariani, e per i non vegetariani c’era quasi sempre… wurst. Cinque o sei fettine di affettato di pasta di wurstel, di gusto indefinito. Poi, una volta alla settimana, 250 gr. di margarina e una volta ogni due settimane 400 gr. di confettura. Sono ancora viva, e, soprattutto non mi sono "rovinata", anche se la mia sopravvivenza è dovuta al fatto che riuscivo a prepararmi e mangiarmi una torta intera ogni due giorni. Sicuramente ho imparato "l’economia domestica", materia che una volta si insegnava a scuola! Ogni piano aveva, infatti, una cucina, completa di piccolo frigorifero, quattro piastre elettriche e un forno, a disposizione di, circa, quaranta persone. Con i miei 50-60 euro mensili (più le tre spese annuali) riuscivo ad acquistare il caffè solubile, il tabacco, le cartine per fumare, il materiale per i dolci, il latte con cui mi preparavo lo yogurt. Riuscivo ad acquistare i prodotti per l’igiene personale – tutti prodotti economici! -, l’olio di oliva e due kg. Di carote, unica verdura accessibile e che si manteneva per un mese, fino cioè alla spesa successiva. Ah, dimenticavo. Potevamo avere 4 fettine di pane bianco e 4 di pane nero al giorno. Pane che rimaneva sullo stomaco un mese, dopo averlo mangiato. Pane che preparavano una volta alla settimana e che affettavano giorno per giorno. Ora capisco anche una frase che mi disse il mio avvocato tedesco ad una mia provocazione: "Si ricordi – mi disse – che lo Stato Bavarese può permettersi di mantenere in carcere tutti gli stranieri che vuole!". Ed io aggiungo che la Bavaria può pagare gli agenti salatamene; può ristrutturare gli edifici (anche se sia nel carcere di Norimberga che in quello di Monaco, dove sono stata in transito per due volte, cinque giorni ogni volta e che è, a dir poco, indescrivibile, non si direbbe!); può costruire carceri, visto poi ciò che spendono per il mantenimento dei detenuti! E posso aggiungere anche che, non solo la scarsità era scandalosa, ma anche la qualità. Ho visto persone con problemi allo stomaco, al fegato, all’intestino, per il cibo che ci veniva dato. Io, comunque, selezionavo. Tenevo e usavo solo ciò che non poteva essere stato manipolato: il riso bollito, le patate bollite, l’insalata, il formaggio confezionato. Naturalmente non si potevano acquistare né patate, né succhi di frutta, né frutta sciroppata, per non dare la possibilità ai detenuti di prepararsi bevande alcoliche che sono severamente vietate e altrettanto severamente punite. Non si può avere neppure un profumo, perché i profumi contengono alcol! A proposito di punizioni vorrei, a questo punto, parlare della facilità con cui si prendevano e del tipo di punizioni che venivano inflitte. Lì non si dà confidenza agli agenti; non ci si può arrabbiare, né alzare la voce. Si rischia di essere chiuse in cella, senza possibilità di uscire nelle ore di apertura, per una o due settimane, a discrezione del capo sezione, senza TV. Se poi si viene scoperte alla finestra a parlare con qualcuno del maschile, nelle ore in cui gli uomini erano all’aria, la prima volta si ha la chiusura in cella, la seconda volta c’è il bunker. E qui vorrei spendere due parole sul bunker. è una punizione che decide il direttore per i motivi un po’ più gravi (la recidività a parlare con gli uomini era uno di questi!) come la positività alla droga o all’alcol, o il ritrovamento, da parte degli agenti di pastiglie prescritte dal medico ma non ingerite quando si doveva (quello che si chiama "accumulo"), o come liti tra detenute, ecc. Il bunker è una cella sotterranea con una grata sul soffitto come finestra. Una cella dove la luce del neon è accesa 24 ore su 24; dove c’è una telecamera, collegata ad un monitor che sta in "Centrale", che spia giorno e notte ciò che la detenuta fa. Compresi i bisogni corporali! In bunker si può avere il caffè, il tabacco e la Bibbia. Si rimane con la camicia da notte, poiché è l’unico indumento concesso; non si può scrivere né ricevere posta, non si possono avere i colloqui. L’unica cosa che è concessa è l’ora d’aria da passare in un cortiletto a parte. Questa punizione può durare da una a tre settimane (almeno io non sono stata testimone, nel periodo trascorso lì, di punizioni più lunghe). Questo è il regime di un carcere che sorge a 10-15 km da Dachau, nome che evoca ricordi storicamente "forti" e non piacevoli! Che sia un caso? Un’ultima parte la voglio dedicare alla possibilità che si ha di mantenere i contatti con la famiglia e soprattutto con i figli. I colloqui sono permessi per due ore al mese, mezz’ora alla settimana, oppure un’ora ogni due. Per gli stranieri, naturalmente, non si fanno eccezioni, neppure se una persona a un colloquio ogni sei mesi. Come nel caso mio. Sono riuscita ad avere il permesso dal direttore per poter avere i colloqui di due ore, previa "prenotazione" con due settimane di anticipo, e, comunque, solo se non ci fosse stata troppa gente. Infatti, in un caso, quando degli amici avevano fatto un viaggio dall’Italia per venire a visitarmi, impiegando sette ore circa, l’agente di turno alla sala colloqui mi ha concesso solo un’ora, perché: "non era interessata al fatto che queste persone affrontassero 14 ore di auto per potermi vedere, e che il regolamento prevedeva una sola ora per volta di colloquio" e questo sebbene avessi il permesso del direttore per le due ore. Il Regolamento! L’incubo del carcere Bavarese. Non esistono eccezioni. La sala colloqui è una sola, con tavolini uno vicino all’altro, dove è impossibile parlare con un po’ di "pace". Bambini piccoli che strillano (non esiste una sala per i "colloqui speciali"). Ai colloqui non si può introdurre alcunché. Neppure un biberon o qualche biscottino, nel caso si tratti di bambini piccolissimi che vengono a trovare la madre detenuta. Unica concessione, una volta al mese, chi viene a trovarti, può acquistare all’interno del carcere, un pacchetto di sigarette e una tavoletta di cioccolato. Regolamento: parola "incubo". Una delle ultime regole che ho scoperto (tanto per dare l’esempio della volontà di complicare la vita a noi detenute) è la seguente: non si potevano mandare nella medesima busta denaro e francobolli. La mia famiglia, in occasione dell’ultimo colloquio avuto, aveva imbucato in un’unica busta, pochi euro e 10 francobolli. Non potendo spedirmeli dall’Italia, visto che i bolli italiani non avrei potuto utilizzarli, le poche volte che sono venuti cercavano di comprarne e spedirmene un pochi (come già detto, nulla passava al colloquio). Per farla breve, i soldi mi sono stati caricati nel conto, i bolli se li sono tenuti dicendomi che me li avrebbero consegnati quando me ne fossi andata! Naturalmente non li ho più visti. Piccoli esempi di come le "cose semplici" possono diventare "questioni impossibili". Piccoli esempi di come la "burocrazia" può complicare la vita. In Germania più che qui da noi. Legato strettamente al problema dei colloqui, unico momento di "contatto" con la famiglia, c’è quello delle telefonate. Solo che in Bavaria non c’è il diritto alle telefonate. Solo il "buon cuore" dell’unica assistente sociale, che si occupava di più di 100 persone (compresi i 7-8 bambini del nido), tutte con pene superiori ai 5 anni, e che aveva un ruolo simile (simile per modo di dire) a quello che qui hanno gli educatori, mi permetteva di chiamare a casa una volta ogni due mesi circa. La cosa era a sua discrezione, per cui è successo più di una volta, o perché la signora era in vacanza, o perché aveva una "brutta giornata", che le telefonate saltassero. Ho cercato, a grandi linee, di dare un’idea della situazione carceraria di un paese dell’Unione europea, nostro vicino, che si ritiene molto più civile dell’Italia. Ho cercato di dare un’idea, attraverso delle cose reali, senza descrivere i sentimenti che può provare una persona in quelle condizioni. Ho cercato di essere obiettiva. Sicuramente non ho esagerato la situazione. Vi sarebbero molte altre cose da descrivere, ma il solo ricordare mi fa male. Ho faticato molto a buttare giù questo pezzo poiché certe esperienze è meglio dimenticarle. è più "salutare". Io ho "retto" perché sono comunque una persona forte, ma, vi assicuro, io sto meglio in carcere in Italia!
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