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Sorvegliare e punire nel XXI secolo: il significato della pena di Nicolas Frize
Le Monde Diplomatique, 16 giugno 2003
Gli scritti di Michael Foucault ci ricordano che il significato della pena, che ha quasi preceduto la pena stessa, è stato la forza motrice del controllo comportamentale, morale e sociale dei carcerati: "Si trattava di disciplinare i loro corpi, codificare il loro comportamento continuo, mantenerli in una visibilità senza lacune, costruire attorno a loro tutto un apparato di osservazione, registrazione e notazioni,fare di loro un sapere che si accumula e si accentra"... Si è introdotto il lavoro in carcere per motivi di ordine e di regolarità, in quanto "esso veicola in maniera insensibile le forme di un potere rigoroso; piega i corpi a movimenti regolari, esclude l'agitazione e la distrazione, impone una gerarchia e una sorveglianza... È un rimedio sicuro contro la fuga dell'immaginazione". Questi valori adesso hanno una veste ben diversa: sorvegliare non serve più (esclusivamente) ad esercitare un controllo comportamentale globalizzante sull'individuo, bensì a controllarne i movimenti all'interno del carcere, soltanto questo, nell'intento di prevenire disordini, adunate, traffici vari, suicidi... e ridurre le evasioni! Sono ragioni congiunturali che hanno rilanciato il dibattito. La prima è una presa di coscienza graduale, da due anni a questa parte, in seguito alla pubblicazione dell'opera del primario del carcere parigino della Santè, a un'inflazione dell'impatto mediatico delle vicende private con una forte carica emotiva (affari politici. assassini, stupri, che ben si prestano alla spettacolarizzazione), alla elaborazione e diffusione dei rapporti dell' Assemblea nazionale e del Senato francese, all’aborto di una fantomatica legge penitenziaria, a una mobilitazione crescente del personale sociale e delle associazioni o organizzazioni non governative interessate. La seconda ragione è legata alle statistiche sfavorevoli, da cui si evince un'inflazione carceraria in costante evoluzione, per il fatto che le pene si allungano continuamente, provocando un sovraffollamento intollerabile per svariati motivi, e rivelando una struttura penitenziaria vetusta e inadeguata. Il terzo motivo (non ultimo in ordine d'importanza) è il più recente; legato all’ascesa al governo di ministri e di responsabili eletti "partiti lancia in resta", che premono per nuove penalizzazioni e aumenti di pena (riguardo incidenti stradali, consumo di stupefacenti, criminalizzazione dei sans papiers, lotte sindacali, prostitute, persone senza fissa dimora). Tale politica mette le ali ai piedi ai poliziotti, ai giudici e ai giurati, spingendoli ad impegnarsi per attuare la tolleranza zero, con nuovi "attacchi mirati" a tutto campo (abuso della detenzione preventiva, prolungamento delle pene già lunghe, creazione di centri chiusi per i minorenni, politiche repressive che trovano la loro giustificazione nella lotta contro il terrorismo individuale o dei gruppuscoli). In questo ritorno in auge, da qualche anno a questa parte, della causa giudiziaria, la morale e l’ordine pubblico, appare alla superficie un prudente interrogativo. quello del significato delle pene. La giustizia fa il suo lavoro, si sforza di farlo al meglio, mentre nella società nasce spontaneamente un interrogativo: quali sono gli obiettivi? Alcuni detenuti si interrogano sulla giustizia e, soprattutto, sulla sua equità. "Perché una pena prima del processo?" La detenzione preventiva avvolge le conclusioni future dell’istruttoria in un formidabile pregiudizio, negando il lavoro di indagine dei t giudici istruttori, lo basa su un rapporto di forza e alimenta nell'imputato in carcere un senso di vittimismo: sconta di fatto una pena che non è stata ancora pronunziata. In questo scontro frontale preliminare, violento e illegittimo con l'istituzione, l'imputato non ha la possibilità di assumersi la responsabilità del suo delitto, di seguire il corso dell'istruttoria, di adottare un atteggiamento costruttivo con il giudice; gli è inoltre impossibile gestire la sua detenzione, iscriversi a corsi scolastici, intraprendere una formazione professionale, un lavoro. Al momento del giudizio, la pena detentiva pronunziata sarà inglobata nella carcerazione già scontata illegittimamente, e quindi avrà perduto qualsiasi speranza di avere un significato! "Una pena troppo pesante diffonde una sensazione di errore giudiziario!"; "La giustizia non si applica allo stesso modo per tutti"; "Perché una condanna a dieci anni anziché a diciotto?". Questi sentimenti d’ingiustizia, di rivolta, minano contemporaneamente qualsiasi capacità di riconoscere un senso alla propria pena: questa è a sua volta condannata all' incomprensione. Sentenze astratte, non spiegate e inesplicabili, percepite come arbitrarie e irrazionali, destabilizzano l'analisi: è un periodo di allontanamento della pericolosità, un periodo di riparazione, un periodo immaginario necessario a una riflessione? La vendetta è proporzionale alla durata della sofferenza provocata, l'uomo sarà meno pericoloso dopo un lungo periodo anziché dopo un breve periodo di detenzione, la durata sproporzionata del carcere deve trovare la sua giustificazione nell'assenza di contenuto manifesto della detenzione? "Cosa mi vogliono dire? Che si aspettano da me?" Questi grandi interrogativi a volte rivaleggiano con l'assurdo del quotidiano: " Vogliono che mettiamo fuori la pattumiera pulita"; "Non so in che corso sto"; "Ho saltato il corso di cucina, ho fatto pittura (17 anni - plurirecidiva), oggi non ho più niente". Un minorenne a proposito di un trasferimento: "Gli ho chiesto dove andavamo... non si è neanche sprecato a rispondermi", "Volevo mettermi il cappuccio, per non farmi riconoscere... mi ha costretto a toglierlo, per farmi vergognare!". I detenuti "di lungo corso" si chiedono: "Come possiamo vivere, giorno per giorno? Ci sono troppi ostacoli per avere progetti. Nessuna continuità". Allorché per sopravvivere è necessario non soccombere più un giorno dopo l'altro al dolore e all'abbandono, e non si è mai avuta nessuna ragione di essere, si cerca la soluzione nella negazione delle voglie, delle necessità, fonti principali della sofferenza, segnali di tutto ciò di cui si è privi. Allora "si può stare bene". "Se faccio a meno di tutto, non sento più la privazione, la sfuggo! Non ho più bisogni, non ho più desideri, divento un essere che vive nel presente, completamente separato dal tempo e dalle cause". In queste condizioni di profonda solitudine, in un se fuori di se, la pena non è soltanto indolore, ma non si presenta più come risposta o come eco a chicchessia. È priva di oggetto e di avvenimento, senza alcuna continuità o rottura, senza soggetto né costruzione, senza nutrimento né defezione, profondamente distruttrice, senza dolore o quasi, al di là del significato! Nel corso de processo, numerosi fattori influenzano e orientano la percezione del giudizio, favoriscono o bloccano i rapporti con l'imputato. La sua timidezza, le sue difficoltà di elocuzione, il suo modo di esprimersi, il suo accento, i suoi problemi di formalizzazione, o al contrario il suo carisma, la sua sicurezza non arrogante, la sua semplicità, la sua "buona fede" hanno un ruolo incontestabile nell'equivalenza che il giudice dovrà stabilire con la condanna che si accinge a pronunziare. Analogamente, il comportamento durante la detenzione preventiva, incluso in un rapporto d'osservazione, completerà la percezione del giudice. E così le reazioni dell'imputato alla privazione di libertà saranno percepite, nella gestione penitenziaria, come preponderanti: se è ribelle saranno negative, se è silenzioso, prostrato o riflessivo, poco importa, saranno ininfluenti. In questo intreccio di interrogativi, di attese e di voyeurismo reciproco, il significato della pena, tralasciato negli effetti stigmatizzanti o strumentalizzati di questa relazione superficiale fra l'imputato e l'istituzione autoritaria, perde inesorabilmente valore. L'esito del processo non lascia spazio a nessun'altra domanda: il significato della pena è di essere pronunziata! Quel che viene in seguito non è ne un problema ne una preoccupazione per la giustizia: gestirlo, spetta all'amministrazione carceraria. Spazio o non spazio, questo luogo di pena non può essere confuso con la pena, questa è soprattutto un simbolo pubblico, un enunciato sotto forma di arbitrio e di norme. D'altro canto, un'idea si è fatta largo a poco a poco nella mente dei giudici istruttori, che affidano il significato della pena non più all'istituzione bensì al condannato stesso! Che sconti la pena, che l'inventi, l'abiti, la vuoti o la riempia, la rifiuti (suicidio o evasione) o vi soccomba (introversione nevrotica o rifugio definitivo nell'autismo), spetta a lui sapere come conviverci, come appropriarsi della propria perplessità, della propria sofferenza, della propria nuova impotenza (oggetto stesso della punizione)! L'evoluzione delle coscienze sul modo di trattare i reati non è lineare, fluttua in sintonia con la cecità o la visione politica. A voler giudicare troppo bene, può capitare di trovarsi in contraddizione, su posizioni opposte alle proprie finalità di giustizia: la legge è fatta per pacificare, per regolare o armonizzare gli interessi individuali nell'ambito degli interessi collettivi. In tale ipotesi, il senso della giustizia si colloca nella sua realizzazione, nelle sue conclusioni. Quando si fa appello alla giustizia, è troppo tardi, perché l'integrazione della legge non ha funzionato, non ha saputo assicurare la costruzione e la coesione sociale: le idee di repressione, di giusta retribuzione, di educazione, di responsabilizzazione, di avvertimento, di riparazione, di eliminazione... si mettono in moto, secondo una ridda di criteri in cui nessuno può sapere che cosa pensa ciascuno degli altri! Ogni decisione è un episodio a se stante. Avremo quindi il diritto di aspettarci che i rischi inerenti all'esecuzione di una punizione siano misurati, compensati. che non facciano correre alla società altri pericoli (diretti o indiretti), che non generino negli atti, le idee o i segnali, altra intolleranza, altro odio, altra violenza... Ma la società non la vede così, e si sente tambureggiare di continuo alle finestre delle case, nei palazzi di giustizia, nei telegiornali e sulla stampa: capita che la mancanza di recidiva, la socializzazione, la normalità in qualche modo provochino una noia silenziosa, che una condanna con la condizionale scontata nelle condizioni migliori non susciti grandi emozioni. A mettere in moto l'evento sarà quindi il fallimento, e più grande sarà il fallimento, più grande sarà "l'intimazione" che l'opinione pubblica fa nei confronti della giustizia, anche se da nessuna parte c'è stato un dibattito o una manifestazione! Il fallimento della giustizia è il suo fantasma (come la caduta del trapezista), e allora la società coglie i suoi limiti per irrigidirsi da sola. Come nella tragicommedia, è tenuta a restituire gli insulti che subisce, e a irritarsi, secondo i casi: e così la collera politica che nel 1980 spingeva a condannare 5.156 persone a pene superiori ai 5 anni (tra tribunali minorili e corti d' assise), nel 2000 è arrivata a 12.841 condanne a tali pene. Più del doppio! E allora chi è responsabile di questa escalation frenetica di severità e di fallimenti? Chi diffonde il veleno di una pretesa aspettativa popolare, chi eccita i magistrati e i giurati? Chi ha messo in moto questa macchina di propaganda e introdotto questo concetto, immaginario e fantoccio, di "opinione pubblica"? Naturalmente l’opinione pubblica non esiste, esiste invece un veleno che ognuno di noi può procurarsi - e che dunque potenzialmente tutti noi ingeriamo - che fabbrica l'ideologia, non perde tempo nei dibattiti, lavora secondo la modalità della propaganda (nel senso che la sua forza si basa sulla sua diversità) e controlla la comunicazione dei fatti. Questo veleno spaventa per alleviare, allevia per spaventare, vuole essere una medicina contro l’ignoranza: si chiama mass media. Un’infrazione, una risposta: ecco i due termini fondamentali di un libretto di strepitoso successo. Se ne trarrà un bel dramma, semplice e offensivo, proprio quel che ci vuole per risvegliare le coscienze e le passioni, i cultori della tragedia classica e quelli dei film dell'orrore di serie B, incitando alla guerra dei ricchi contro i poveri, alla guerra del bene e del male, dei ribelli e dei borghesi, dei lavoratori e dei dilettanti. "Sono in un altro secolo, in un'altra epoca", diceva un detenuto. Che lezione di nonsenso!
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