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La libertà vigilata e il controllo sociale in Francia
Liberazione, 15 giugno 2002
La crisi del binomio carcere e riabilitazione sotto l’incalzare delle campagne mediatiche sull’aumento della criminalità. "Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale", l’ultimo libro dello studioso francese Loic Wacquant sulla costituzione di un nuovo sistema di controllo sociale basato sulle politiche di segregazione per i "soggetti potenzialmente a rischio". Facciamo parlare alcuni dei molti dati, riportati da Loic Wacquant, uno dei principali studiosi dei sistemi penali in occidente, nella raccolta Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale, in uscita per Ombrecorte (pp. 138, Euro 12.00). Nel 1997 albergavano nelle carceri americane un milione 731.500 persone. Trent’anni prima la popolazione carceraria contava 425mila detenuti. Nel 1973 il tasso di incarcerazione negli states era inferiore a 100 persone per ogni 100mila abitanti. A metà degli anni ‘90 era salito di oltre sei volte. Se ai condannati in carcere si aggiungono quelli in libertà vigilata o condizionata si arriva alla bella cifra di 5,4 milioni di americani. La città pilota in questa edificazione di una sinistra civiltà carceraria è naturalmente Los Angeles, con le sue sette gigantesche galere, dove sono ingabbiate 23mila persone. In California il budget per l’amministrazione penitenziaria è passato dai 200 milioni di dollari del `75 ai 4 miliardi e 300 milioni del `98. Il numero dei secondini è lievitato da 6mila nel 1978 a oltre 40mila nel `98. Senza bisogno di scomodare ulteriormente le tabelle fornite da Wacquant, ce n’è abbastanza per delineare la nascita di una società che trova nella carcerazione di massa una delle sue fondamenta. Questa ipertrofia carceraria, dimostra l’autore, non deriva affatto da un’impennata nel tasso di criminalità. Al contrario, negli stessi decenni che hanno visto il fiorire della carcerazione di massa, la criminalità è diminuita o è rimasta stagnante. A determinare la moltiplicazione delle detenzioni è stato l’ampliamento dei crimini puniti con l’imprigionamento. La grande maggioranza dei detenuti americani è oggi condannata per reati che non comportano violenza contro le persone, in particolare detenzione e trasporto di droghe. E’ opportuno domandarsi sino a che punto il caso americano interessi anche l’Italia e l’Europa. Per quanto riguarda la penisola, due identità precise risaltano immediatamente. Anche qui la popolazione carceraria si è moltiplicata negli ultimi anni a fronte non di una crescita ma di una diminuzione del tasso di criminalità, e in particolare dei delitti contro la persona. Anche in Italia a determinare l’ipetrofia carceraria sono state le campagne emergenziali contro la microcriminalità. Delle tre ragioni esposte da Wacquant per spiegare la fondazione della società carceraria, almeno due si attagliano perfettamente anche al caso italiano ed europeo in generale. La prima è quella che Wacquant definisce "il mutamento degli indirizzi politico-mediatici della criminalità", alludendo appunto alle continue campagne emergenziali allestite dal circolo vizioso formato dai media e dalle forze politiche. La seconda è descritta dall’autore come "una serie di cambiamenti interni al sistema giudiziario, legati al declino dell’ideale della riabilitazione". E’ noto che, pur non essendo ancora riuscita a sfondare completamente, anche da noi è in atto da anni un’offensiva martellante contro il principio, formalizzato in Italia dalla Costituzione, che fa della risocializzazione e non della vendetta l’obiettivo della pena. Diverso il caso per quanto riguarda la terza spiegazione addotta da Wacquant, a prima vista limitata ai soli Stati uniti. Si tratta infatti dell’ondata di arresti che ha colpito negli ultimi decenni la popolazione nera e latina negli states. Già all’inizio dei `90, il tasso di incarcerazione tra i neri era sei volte superiore a quello dei bianchi. Oggi, per la prima volta, i neri costituiscono la maggioranza della popolazione carceraria (55%), pur rappresentando solo il 7% della popolazione complessiva. E’ a questo argomento che Wacquant dedica il saggio centrale del libro, e dalla semplice raccolta di dati passa a una interpretazione del fenomeno. Sottolinea prima di tutto la stretta coincidenza tra lussureggiante estate della galera e mesto autunno del ghetto. Quest’ultimo ha infatti perso tutte le caratteristiche comunitarie che gli permettevano di svolgere un ruolo di coesione sociale e identitaria. Negli ultimi decenni si è trasformato in un "iperghetto", che sempre più somiglia a una gigantesca prigione a cielo aperto. Allo stesso tempo, le nuove regole feroci della strada hanno rimpiazzato le antiche leggi non scritte del carcere, rendendo le prigioni quasi identiche al ghetto. Nuovo ghetto e carcere formano così un complesso integrato a cui è demandato, nella "società postindustriale", il compito che in passato era stato svolto prima dallo schiavismo, poi dalla segregazione razziale nel sud e dal ghetto classico nelle metropoli industriali del nord. Ciascuno di questi modelli assolveva al medesimo scopo: "assoldare, organizzare ed espropriare il lavoro degli afroamericani" ma allo stesso tempo "isolarli e segregarli affinché non potessero "contaminare" la società bianca". Il problema è che, nell’analisi di Wacquant, il complesso ghetto-carcere sembra invece scartare rispetto a questa genealogia in un punto determinante. La descrizione proposta dall’autore si sofferma sulla seconda dinamica, la funzione segregazionista dell’apparato carcerario, e sorvola invece completamente sulla prima, l’organizzazione dello sfruttamento, la "messa a profitto" della popolazione segregata. Qui, si direbbe, non si tratta più di "assoldare, organizzare ed esprorpiare" alcun lavoro, ma semplicemente di liberarsi di una gigantesca quantità di popolazione resa improduttiva dalla riconversione post-fordista. La coppia "iperghetto-galera" sembra formare una immensa pattumiera destinata a essere riempita non solo da neri e latini, ma sempre più anche dai bianchi poveri. La stessa ombra di riprovazione morale, di inferiorità lombrosiana, che la cultura dominante getta sui neri, grava, come Wacquant del resto puntualizza, su tutti i "poveri", obiettivo numero uno della guerra scatenata con la criminalizzazione e la carcerazione endemica. Questa funzione puramente segregazionista è confermata, si potrebbe aggiungere, dalle radicali modifiche del sistema di controllo rispetto al modello egemone negli ultimi tre secoli. Non si tratta più di "sorvegliare e punire", di esercitare una presa minuziosa sui corpi, di inglobare, catalogare, spiare, conoscere, controllare capillarmente. Si tratta, assai più brutalmente, di escludere e scacciare, di allontanare e rendere invisibili, affidando alla legge della giungla del carcere-ghetto l’incarico di affrettare il genocidio della popolazione improduttiva, dunque inutile, anzi tarata e inferiore. Ed è qui che i colpi di maglio sferrati negli Usa contro neri e latini rischiano di rivelarsi il banco di prova di una strategia genocida assai più complessiva, destinata ad approdare presto anche da questo lato dell’Atlantico. Resta però da chiarire l’aspetto trascurato da Wacquant in questi saggi: la funzione del complesso carcerario per quanto riguarda l’organizzazione della forza lavoro. Senza dubbio, almeno a prima vista, questo versante è fortemente secondario (e qui, visto il ruolo dell’immigrazione nell’economia europea, si profilerebbe una distinzione netta rispetto alla situazione degli immigrati in Europa, che corrisponde invece perfettamente alla doppia necessità indicata dall’autore: segregare e sfruttare). E’ tuttavia possibile ipotizzare che anche quando il ghetto e la galera sembrano assolvere solo a una funzione di "discarica sociale", sia invece operativa una forma inedita, e proprio per questo difficilmente riconoscibile, di "organizzazione ed espropriazione" della forza lavoro. Se è vero che nella produzione contemporanea i meccanismi culturali e linguistici hanno acquisito lo stesso ruolo svolto nella società industriale dal vapore, è certo che in nessun altro luogo quei meccanismi sono attivi e dinamici quanto nelle aree ghettizzate. E questo proprio in virtù della relativa anarchia che regna al loro interno. Lo stesso Wacquant segnala di sfuggita che la moda dei pantaloni larghissimi col cavallo a mezza coscia viene dal carcere. "Esportata" nel ghetto dagli ex detenuti, è poi dilagata tra i teen agers di tutto il mondo. Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito: come si spiegherebbe altrimenti la lucrosa attività dei "cacciatori di stile", descritta da Naomi Klein nel suo No Logo? Nonostante le apparenze, è possibile che l’espulsione di massa dei neri (e dei latini, degli immigrati, dei poveri, dei perdenti...) verso un universo segregato non serva solo a liberarsi di una popolazione resa inutile dal tramonto dell’industria, ma sia invece funzionale alla creazione di un laboratorio permanente di innovazione culturale e linguistica da sfruttare e depredare. E’ indicativo che, all’inizio del saggio sui neri, Wacquant abbia messo una citazione di Tupac Shakur, stella del gangsta rap uccisa in una tipica sparatoria da ghetto. Un modello di quella sintesi tra sfruttamento e genocidio rappresentato dall’universo concentrazionario moderno.
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