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Brasile: intervista a un ex detenuto del carcere di Silvio Porto
Unimondo, 10 febbraio 2006
Intervista ad un ex-detenuto del carcere Silvio Porto, che ha scontato per 4 anni la sua pena all’interno dell’istituto penitenziario; da 3 anni è uscito dal carcere. Su richiesta dello stesso, l’intervista rimarrà anonima. Autori di questa intervista sono Letizia Bartocci ed Erica Scalfi, "caschi bianchi" con la Comunità Papa Giovanni XXIII a João Pessoa dove seguono la situazione nel carcere maschile e femminile a lunga detenzione di Silvio Porto.
Potrebbe descrivere come era la situazione all’interno dei padiglioni e delle celle durante il periodo che passò all’interno dell’istituto penitenziario Silvio Porto? La mia situazione era particolare: io, provenendo da una situazione privilegiata, disponevo di una cella individuale e avevo la possibilità di lavorare all’interno del carcere. C’é da precisare però che nel Silvio Porto allora i detenuti erano circa 500, mentre oggi sono più di 900. Oggi non ci sono più le celle individuali e i padiglioni sono sovraffollati.
C’era la possibilità per lei e per gli altri detenuti di usare altri spazi all’interno del carcere? Io lavorando potevo uscire dalla cella per svolgere le mie attività, ma per la maggioranza dei detenuti l’unico spazio previsto fuori dal padiglione era il cortile dove potevano passare un’ora al giorno per il banho de sol.
Può fare l’identikit di un detenuto-tipo all’interno del Silvio Porto? Il 99% dei detenuti sono poveri e provengono da una condizione socio/economica ma anche familiare precaria. Ho conosciuto uomini che per un anno intero non hanno ricevuto visite sia per le difficoltà della famiglia di raggiungere l’istituto, sia perché erano stati abbandonati dai parenti. L’80% di loro sono semianalfabeti, senza assistenza sanitaria e provengono dalla capitale. 4 anni fa quando io ero detenuto, l’età media era di 30-32 anni, oggi si è abbassata a 20-23. Entrando oggi in un carcere, si ha l’impressione di trovarsi in un istituto per minori.
Com’era organizzata la sua giornata? Come dicevo prima la mia situazione era differente, così come era differente la condizione di ex-militari, avvocati, persone che potevano contare sull’appoggio familiare o su conoscenze. Io ho avuto il privilegio di poter lavorare sia all’interno del progetto della grafica, sia come insegnante per i compagni analfabeti.
Considerando che la sua giornata era particolare, potrebbe raccontarci invece come si svolgeva la giornata degli altri detenuti? Nelle celle alcuni facevano dell’artigianato o studiavano. Oppure non avevano altro da fare se non dormire, fumare hashish o crack, farsi di coca, litigare.
C’erano attività a cui i detenuti potevano partecipare? C’erano progetti d’artigianato, recupero cartucce per stampanti, grafica, realizzazione di protesi dentarie, corsi di alfabetizzazione e di risocializzazione e lavori all’interno del progetto "trabalho liberta" (n.d. lavori di cucitura palloni in cella). Queste attività però venivano bloccate in seguito a ribellioni. Poi c’erano lavori che si svolgevano all’interno del padiglione di pulizia, distribuzione cibo. Comunque nel mio padiglione dove erano presenti 45 detenuti, solo 3 potevano lavorare. Oggi contando che ci sono 950 detenuti, non credo che si possa dire che siano più di 50 gli uomini che lavorino.
Era prevista una remunerazione? La Lei de Execução Penal (n.d.Codice Penale) prevede una remunerazione per chi lavora pari a due terzi del salario minimo. Ma nel carcere a regime chiuso succede che pochi ricevono l’intera somma: per esempio, tra il personale che lavora in cucina, solo il capo prende ciò che gli spetta, gli altri solo una parte. Inoltre succede che in diversi istituti penitenziari, le stesse mansioni siano remunerate in modo differente.
Come erano scelti i detenuti che avevano la possibilità di lavorare? Direi in base al grado di istruzione, in quanto per alcune officine come la grafica serve saper leggere e scrivere, e al comportamento, su indicazione di un agente che sta a capo di ogni padiglione, chiamato chefe de disciplina.
Era prevista la partecipazione da parte dei detenuti a corsi di alfabetizzazione o insegnamento basico? In teoria ogni detenuto potrebbe partecipare a corsi di scolarizzazione, ma la realtà é diversa. Si dovrebbero trovare volontari all’interno dei padiglioni che siano in grado e abbiano l’opportunità di dare lezioni. Io stesso sono stato un insegnante, ho lavorato per un anno con due gruppi di 25 alunni l’uno. Si tenevano lezioni di due ore ciascuna per quattro giorni alla settimana. C’era poi una Ong americana chiamata "Alfaliti" che tentò di iniziare un progetto di alfabetizzazione volontaria. Il Governo infatti ha aperto a questo insegnamento volontario che viene dall’esterno, in cui comunque i professori vengono remunerati. Comunque oggi in carceri come il Silvio Porto queste attività sono considerate scomode, viste come difficoltà: per permettere ad un detenuto di partecipare alle lezioni, ci devono essere agenti che vanno nei padiglioni, aprono le celle, perquisiscono chi esce, li accompagnano in aula. Questo è lavoro in più che loro non vogliono fare. È un lavoro che li scomoda.
C’era la possibilità all’interno della struttura di ricevere assistenza medica, o incontrare psicologi o assistenti sociali? Nella realtà dovrebbe essere data questa possibilità, in quanto è prevista una commissione formata da questo personale medico e assistenziale. Ma arrivare a loro è una scommessa.
Come si svolgevano le visite intime e quelle familiari? Sia la visita intima del mercoledì che quella familiare della domenica si svolgevano all’interno delle celle e si usava un lenzuolo come unica misura di intimità per separarsi dagli altri. Comunque tutto si svolgeva in un’atmosfera di solidarietà e c’era un codice di rispetto che chiamavamo "etica". Ogni detenuto sa che la visita va rispettata, qualora questo non succedesse la comunità carceraria si rivolta contro l’infrattore di tale regola, e allora iniziano i problemi e di conseguenza pestaggi e ritorsioni.
C’era la possibilità di scrivere lettere e se sì, venivano controllate? Questo è stato uno dei miei grandi problemi: io conoscevo i miei diritti e sapevo di poter scrivere lettere, passarle all’assistente sociale che le avrebbe spedite. A volte però mi accorgevo che queste non arrivavano a destinazione. Una volta feci una grande battaglia, portando gli articoli della legge che parlano di questo argomento al direttore e chiedendo spiegazioni. Già il giorno seguente la lettera mi veniva consegnata. Comunque so di molti casi in cui le assistenti sociali strappavano le lettere o non le inviavano. Il servizio di assistenza sociale nelle carceri è molto debole, si adagiano, si accontentano di ricevere il loro stipendio e non si impegnano per svolgere il loro ruolo.
Era permesso fare telefonate alla famiglia o all’avvocato? No. Comunque all’interno dei padiglioni spesso c’erano cellulari. Si poteva comunque chiedere a qualcuno di portare un messaggio, fare telefonate. Per esempio la Pastorale Carceraria ha spesso coperto questo ruolo e tra di loro c’era un angelo chiamato Padre Guido che faceva telefonate, manteneva i contatti con le famiglie e spesso litigava con la direzione per poterci aiutare.
Era attuata l’assistenza legale e la possibilità di essere in contatto con un avvocato? Chi non ha un avvocato avrebbe diritto ad un assistenza d’ufficio che é prevista in ogni istituto penitenziario. Ma questo gruppo di legali è inoperante, a volte la colpa è anche degli stessi detenuti, che non sanno trattare, conversare e non conoscono la loro situazione penale. Conoscevo un uomo condannato a 6 anni per aver rubato della manioca (n.d. tubero con cui si cucinano piatti base) per sfamare i figli, che rimase in carcere 7 anni e uscì solamente dopo che la pastorale si interessò al suo caso. C’era poi un altro che chiamavamo "Gallo" che aveva rubato il gallo da combattimento di un giudice, al quale era molto affezionato. Fu condannato a 8 anni e ancora adesso sta scontando la pena in regime di semi-libertà. Dov’è quindi la difesa pubblica?
Si ricorda se, quando avvenivano trasferimenti dal Silvio Porto verso altri carceri, questo veniva comunicato alla famiglia? Non è mai successo. Vidi molte madri piangere e mogli disperate, che arrivavano la mattina presto, verso le quattro o le cinque, portando delle borse con viveri per i familiari in carcere, entrare alle otto o nove, passare la perquisizione e scoprire solo allora del trasferimento avvenuto. Che cosa triste... Questa è mancanza di rispetto nei confronti delle visite. È anche per questo che avvengono ribellioni.
Ci sono stati casi di ribellione quando lei era detenuto? Sì, uno. I detenuti hanno rotto tutto. Furono individuati i responsabili, furono trasferiti e molti furono picchiati. Non ci furono morti. In questi casi interviene la Choque (corpo speciale in tenuta antisommossa), ma solo per reprimere i disordini. Chi si occupa dei pestaggi punitivi normalmente sono le guardie carcerarie. Comunque le cause scatenanti generalmente si possono ritrovare nell’insoddisfazione.
Quali erano le punizione previste in questi casi? La legge prevede l’isolamento fino a trenta giorni, nei casi più gravi si provvede con il trasferimento; il carcerato che subisce tali punizioni perde il lavoro, nei casi in cui svolgeva un’attività all’interno della struttura e gli viene negata la possibilità di ricevere visite. La legge però non prevede pestaggi punitivi, cosa che invece succedeva di frequente e avveniva inoltre che l’isolamento si prolungasse anche per un anno. Esistevano poi punizioni collettive, quando non veniva trovato un responsabile. Erano presi alcuni sospettati di essere coinvolti nei disordini e puniti.
Qual è la sua considerazione personale riguardo ai motivi scatenanti le ribellioni? Credo si debbano attribuire alla precarietà degli alloggi, alla mancata assistenza medica e giuridica, alla non applicazione della progressione di regime e alla situazione socio-familire spesso disagiata della maggior parte dei detenuti, analfabeti, in molti casi con problemi di tossicodipendenza, che non conoscono i propri diritti.
Come giudicherebbe il sistema carcerario paraibano? Ci sono degli sforzi da parte della Pastorale Carceraria e di alcuni difensori pubblici, ma la commissione di tecnici che dovrebbe occuparsi di passare le informazioni al Forum (n.d. Tribunale Penale) è lento e inefficace. Il sistema penitenziario è debole, non reintegra e risocializza nessuno. Inoltre chi lavora all’interno del carcere è inadeguato. Vi lavorano agenti penitenziari semi-analfabeti, che spesso bevono, provenienti dagli strati più disagiati e poveri della società, che però poi ricoprono ruoli di responsabilità e comando. La maggior parte di loro sono pro-tempore e guadagnano meno della metà degli agenti con contratto a tempo indeterminato. È quindi facile che essi cadano in un circuito di corruzione.
C’è la possibilità di reintegrazione per un ex-detenuto una volta uscito dal carcere? La reintegrazione può avvenire ma certo non dipende dal sistema. Ci deve essere una famiglia alle spalle che ti supporti. Molti escono, non hanno più rapporti con la famiglia, allora l’unica alternativa è la strada, finiscono per commettere altri crimini, spesso più gravi del precedente. Il carcere può essere una scuola in cui apprendere nuove forme di criminalità. È un circolo vizioso. Una volta fuori quelli che ritenevi amici si avvicinano solo per chiederti con curiosità com’è stata la tua esperienza in carcere, senza mai esserti venuti a trovare o aver chiesto notizie su di te. Non c’è situazione peggiore di quella di voler uscire e non potere. Io riuscivo ad evadere leggendo, scrivendo. Vidi persone la cui unica via d’uscita è stata iniziare a drogarsi. Una volta dentro si affonda poco a poco. Quando esci poi ti accorgi che c’è discriminazione: la gente non ti guarda più con gli stessi occhi.
Trova che la società civile sia pronta a riaccogliere chi esce dal carcere? No. Oggi ci sono solo alcuni movimenti che stanno iniziando ad interrogarsi sul significato di reintegrazione, ma la maggior parte delle persone rifiuta gli ex-detenuti.
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