Dal carcere alla comunità

 

Tossicodipendenti, dal carcere alla comunità

 

Toscana Oggi, 28 marzo 2004

 

 

Premessa

La scheda

Un’intesa per il lavoro dei detenuti

Relazione Introduttiva di don Nilo Nannini

Premessa

 

Un tema che catalizza l’attenzione di tutti i mezzi di comunicazione di massa e che ricopre assoluta preminenza nel dibattito nazionale: è il disegno di legge di revisione della normativa sulle sostanze stupefacenti. I motivi di questa centralità sono molteplici e producono senza dubbio pareri non solo diversi ma anche contrastanti. Per questo motivo e soprattutto per avere un momento di confronto tra tutti i soggetti impegnati nella lotta contro la droga e nel recupero dei tossicodipendenti, questa settimana nella Sala del Gonfalone del Consiglio regionale della Toscana si è svolto il convegno"Luci sul carcere", organizzato dallo stesso Consiglio regionale, in collaborazione con la comunità montana del Mugello, il comune di Marradi e la Comunità Sasso–Montegianni di don Nilo Nannini. Slogan dell’incontro"Se non possiamo depenalizzare la droga, dobbiamo almeno decarcerare la tossicodipendenza".

Molto interessante, tra tutte le testimonianze, il racconto di don Nilo e di come la sua comunità abbia affrontato il difficile rapporto di carcere/droga, attraverso un itinerario maturato nella gestione dei percorsi alternativi al carcere e soprattutto nelle attività di recupero e reinserimento dei tossicodipendenti. La comunità di don Nilo ha la sede principale a Popolano di Marradi presso il podere il"Sasso" attorno alla quale viene coordinata l’intera azione di recupero delle persone che hanno la dipendenza da droghe vecchie o nuove. Tutte le attività vengono svolte in abitazioni, fabbricati e laboratori artigianali sparsi nei comuni di Marradi, Borgo San Lorenzo, Faenza e Bagnocavallo. L’esperienza e l’attività di don Nilo è iniziata il 4 ottobre 1980, e in tutti questi anni oltre 600 ragazzi sono stati accolti e aiutati ad uscire dalla tossicodipendenza.
Questo grazie ad una sempre più efficiente e puntale collaborazione che la Comunità ha avuto con i Sert ed il Tribunale di sorveglianza. Un modo di vivere ispirato ai valori cristiani ed ai principi fondamentali della vita comunitaria, dove il lavoro ricopre una parte integrante del programma di recupero di tutti gli ospiti. Inoltre le attività di tutte le sedi sono seguite da operatori qualificati, alcuni dei quali sono ragazzi che hanno seguito il percorso di recupero e poi hanno deciso di restare per offrire a chi veniva dopo di loro una testimonianza preziosa. Questo ha permesso che all’interno della comunità si creasse un nucleo operativo prezioso sia allo svolgimento delle attività che alla stessa presenza degli ospiti.

Un approccio che vuole cercare di capire i motivi più profondi della tossicodipendenza e che non vuole penalizzare o peggio criminalizzare tutti coloro che hanno commesso questo terribile sbaglio."La sofferenza della tossicodipendenza veniva male interpretata – commenta don Nilo Nannini fondatore della Comunità Sasso-Montegianni di Marradi – ed il carcere non è una terra di tossicodipendenti. Bisogna pensare che solo in Italia ci sono 10 milioni di persone che soffrono di male di vivere, di una profonda angoscia ed ansia che poi si trasforma in disagio. La droga è in un certo senso la prima risposta a questa grande sofferenza. È per questo che nei carceri siamo ai limiti di questo patire.

Il messaggio che arriva è repressivo, mentre in queste situazioni serve tenerezza, anche un po’ anima, per arrivare al vero recupero del tossicomane". Oggi nella comunità sono ospiti 88 persone, di cui 86 tossicodipendenti, un alcolista ed un autistico. Di tutti gli ospiti ben 25 sono in affidamento sociale, 4 agli arresti domiciliari. Inoltre sono accompagnati nel reinserimento socio–lavorativo 26 ragazzi di cui 8 in affidamento sociale.


La scheda


Sono 40 i Sert che operano in Toscana distribuiti su 12 aziende sanitarie locali, in cui lavorano 532 persone circa. Inoltre i servizi pubblici gestiscono 13 comunità terapeutiche di cui 9 sono residenziali e 4 sono diurne, per un totale di 172 posti letto. Per quanto riguarda, invece il panorama degli enti ausiliari, nella nostra regione ci sono 19 istituti con 1368 posti letto, che sommate a quelli precedenti si arriva ad un totale di circa 1490 posti letto. Tutti questi dati rappresentano quello che in Toscana si sta facendo per combattere la droga da una parte e recuperare le persone e reinserile nella società dall’altra. Un compito non facile ma che vede impegnati unitariamente, non senza difficoltà, le istituzioni pubbliche, il volontariato pubblico e privato nonché quello cattolico e laico.

Nel 2003 la Regione Toscana ha stanziato 6 miliardi e 500 milioni delle vecchie lire, pari a euro 3.359.000 circa per la lotta alla tossicodipendenza. Prevenzione del disagio, potenziare l’attività dei Sert, intensificare la collaborazione tra enti pubblici e privati nonché tra Asl e comuni, questi sono gli obiettivi principali dell’intervento regionale. Un intervento che risale al 1998 quando la Regione Toscana firmò un protocollo d’intesa con il Coordinamento degli enti ausiliari. Accordo che da allora si è trasformato in interventi concreti e mirati sul territorio, vedi per esempio la campagna di prevenzione droga nelle discoteche.
Ad oggi la Toscana è il capofila di due progetti nazionali. Uno volto a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’abuso dell’alcool nei luoghi di lavoro e l’altro è una sperimentazione delle problematiche sanitarie in ambito carcerario. I primi passi sono stati fatti, ma la strada da fare è ancora molta, specialmente se si prendono in considerazione i dati del rapporto del Ministero dell’Interno, presentato a febbraio 2004, su i tossicodipendenti in trattamento presso le strutture socio sanitarie dal 31 marzo al 30 giungo 2003 e i decessi avvenuti per droga nei primi 6 mesi dell’anno scorso.

Da questo rapporto viene fuori come nelle 104 strutture socio riabilitative della Toscana, divise in residenziali, semiresidenziali e ambulatoriali, siano in trattamento 1393 persone (1119 maschi e 274 donne). Pistoia è la città che ha il maggior numero di tossicodipendenti in trattamento nelle strutture ben 293, seguita a breve distanza da Lucca con 247, Arezzo con 207 e Firenze con 201. Il capoluogo che ha meno casi è Prato con 35, seguito da Pisa con 43 e Grosseto con 50. I dati che emergono da questa relazione ci dicono anche che rispetto al primo semestre del 2002, nello stesso periodo nel 2003 in Toscana ci sono stati 10 decessi in meno (da 19 del 2002 a 9 del 2003). Meglio della nostra regione solo il Lazio con 31 casi in meno.


Un’intesa per il lavoro dei detenuti


Il recupero e il reinserimento sociale dei detenuti attraverso il lavoro, dentro e fuori dal carcere. Questo l’obiettivo del protocollo d’intesa firmato dal provveditorato dell’amministrazione penitenziaria toscana e dalle associazioni Agci-Solidarietà, Arcst-Legacoop, Federsolidarietà-Confcooperative. A questo accordo la Regione Toscana dà il suo sostegno e assicura la sua collaborazione, nel quadro di un’azione comune fra tutti i soggetti interessati. L’accordo permette di coordinare al meglio gli sforzi per promuovere, ampliare e razionalizzare i processi di inserimento sociale e lavorativo dei detenuti nelle carceri toscane. Un impegno che vede già numerose iniziative in corso di svolgimento in Toscana. Iniziative alle quali, grazie a questa intesa, sarà possibile dare maggiore organicità e continuità. Sia la Regione che l’amministrazione penitenziaria hanno espresso soddisfazione per l’intesa raggiunta.

L’amministrazione carceraria, da parte sua, si è impegnata a effettuare un monitoraggio delle realtà delle carceri toscane per capire come e dove sia possibile organizzare le attività lavorative dei detenuti previste dall’intesa. La Toscana è una delle regioni italiane a maggiore concentrazione di istituti penitenziari, con 12 case circondariali, 5 case di reclusione, 1 ospedale psichiatrico giudiziario, 2 case mandamentali. Elevata anche la concentrazione di detenuti con una presenza rilevata dalla Fondazione Michelucci, al giugno 2003, di oltre 4000 detenuti, di cui 3.843 uomini e 185 donne, a fronte di una capienza prevista di 2.900 posti. Forte anche la presenza di immigrati: al giugno 2003 gli stranieri nelle carceri toscane erano il 39 per cento del totale, contro il 29,7 per cento rilevato alla fine del 1997.

 

Relazione Introduttiva (don Nilo Nannini – Fondatore Comunità Sasso-Montegianni)

 

É davvero sorprendente poter raccontare il percorso faticato e gioiosamente vissuto dalla nostra Comunità dal lontano 1980, anno in cui è nata, in una occasione costruita e organizzata con la collaborazione e il sostegno del Consiglio Regionale della Toscana e del suo Presidente, Riccardo Nencini, che ringraziamo due volte: per l’ospitalità e per aver dato un contributo concreto ai nostri lavori con la presentazione di una proposta di legge che sarà di aiuto e sostegno a chi deve superare le sofferenze del reinserimento in società successivo ad una detenzione.

Una Comunità, la nostra, che non nasceva certo paludata. Era una di quelle che fanno arricciare il naso agli aristocratici di oggi, ai patiti delle metodologie e dei programmi circostanziati che pensano sia necessario armarsi di molte armi raffinate e di ambienti anche raffinati per essere in grado di affrontare decentemente, con strumenti adeguati, questo irriducibile nemico che è la tossicodipendenza.

Sulla trama delle nostre giornate fatte di entusiasmo e di silenziosa dedizione non era ancora scesa la vischiosa valanga di norme e di regole e di circolari che – lasciatemelo dire – spinge talvolta a chiederci se tutto questo funzioni da lubrificante o sia invece l’espansione di diffidenze dai significati reconditi che, più che altro, affaticano.

Erano passati pochi anni dalla chiusura dei manicomi e ne avevamo sposato con entusiasmo il messaggio, per questo eravamo intenzionati a resistere alle logiche della separazione, della chiusura, della segregazione.

La nostra Comunità non doveva correre il pericolo di essere un luogo emarginato per emarginati. Non volevamo definirci Comunità terapeutica perché non ci scambiassero con un reparto ospedaliero e preferimmo essere e dirci Comunità di Vita, aperti alla ricerca attenta di un forte legame con il paese che ci accoglie e all’accoglienza.

Quanta fatica, quanta resistenza ci veniva da una cittadinanza spaventata dall’etichetta stampata dall’immaginario popolare sulla pelle del tossicodipendente. I marradesi non rifiutavano la Comunità, la sua presenza sul territorio, ma i ragazzi, se pur accompagnati, non avrebbero dovuto circolare per le vie del paese. Non ci siamo costruiti la palestra, non il campo sportivo o le attrezzature per altri sport. Intedevamo vivere come una famiglia che utilizza i servizi comuni e la sfida era riuscire a convivere con il paese senza cedere a comportamenti che lacerassero il tessuto della convivenza.

Nei casi in cui la sfida non ha retto e sono affiorati comportamenti conflittuali, la popolazione è insorta e ne sanno qualcosa il Presidente Margara e il dottor Rossi Prodi quando hanno potuto constatare quanta voglia di carcere animasse la protesta della popolazione.

La forza del dialogo nel concreto sviluppo dei rapporti umani si rivelò nuovamente la carta vincente. Con l’allora Sindaco di Marradi dott. Matulli, oggi vice-sindaco di Firenze, costituimmo un Forum con gli amministratori, i rappresentanti della comunità e le Associazioni locali, piazza ideale per un un dialogo rispettoso, leale e libero, che si rivelò forma magica e raccomandabile per superare le difficoltà sorte dalla convivenza. Il duro quotidiano e il tempo ci avrebbero raccontato che, nonostante alcune dolorose selezioni, la strada intrapresa era possibile e liberante.

Liberante perché al tossicodipendente devono essere offerti gli spazi per gestire e superare i particolari problemi che hanno radice nascosta nel patire delle solitudini e nessuna struttura che si ponga nel suo dinamismo al di sopra del rispetto dei diritti fondamentali può essere forza liberante.

Dal mondo della tossicodipendenza dovrebbe levarsi sempre un no secco ai criteri d’intervento repressivi legati all’illusione di promuovere la capacità di relazioni interpersonali equilibrate e di promuovere processi di liberazione o di libertà vera con metodi più o meno affidati alla violenza, sperando una persuasione più facile.

Mi sembra ingenuo quanto avvilente il risorgente tam-tam che presume di affrontare il problema delle droghe sull’onda dello spirito devastante dell’onnipotenza e intende attribuire efficacia redentiva alla pena.

"Tolleranza zero" sull’universo droga senza fare alcuna distinzione sul tipo di sostanza getta un’ombra oscura sulla comprensione della tossicodipendenza ed anche sulle Comunità. Questa impostazione ci mette a disagio sia nell’approccio con il tossicodipendente sia perché altera l’equilibrio e la coerenza interna ad ogni proposta educativa.

Siamo dispiaciuti e irrigiditi perché si vuole imporre un ordinamento giuridico che tende ad offrire alla società una falsa sicurezza, falsa perché genera discriminazione e non condizioni di dialogo, falsamente efficiente perché è una impostazione che si perde nella carne viva di una esperienza che non sopporta imposizioni. Così si apre davvero una strada allargata tra comunità e carcere.

La comunità non può essere una proposta generalizzata, obbligatoria ed unica, presentata con il profilo e il sapore del carcere. Abbiamo più di vent’anni di vita. Vi confesso che non vorrei apparire prigioniero del mio "mestiere" appassionato, calato in una realtà che accoglie un centinaio di tossicodipendenti. Ma da sempre abbiamo capito che non è davvero intelligente né puntuale avvicinarsi alla tossicodipendenza con lo sguardo truce della condanna, con l’animo risentito di chi giudica, ma occorre accostarci a questo soffrire disarmati di ogni valenza legata alla condanna o alla punizione, palese o nascosta.

E sotto questo profilo, dalle Comunità ai Ser.T, dai molteplici organismi dello Stato alla Chiesa stessa, dobbiamo tutti chiedere perdono ai tossicodipendenti per non aver compreso appieno la loro sofferenza, e per non aver fatto del loro soffrire l’unica chiave interpretativa di ogni rapporto con loro, noi che siamo sempre troppo legati a pregiudizi e a rigidità formali che anche oggi purtroppo persistono e sono largamente diffuse.

In quei momenti lontani – siamo agli inizi degli anni ottanta – di fronte allo Stato e ad una Società quasi latitanti sul problema della tossicodipendenza, sui nostri monti cercavano rifugio giovani tossicodipendenti in fuga prevalentemente dalle zone di Milano-Varese; nelle case abbandonate e fatiscenti cercavano un posto e una storia nuova costruita sull’essenziale, talvolta anche per eludere provocazioni e mandati di cattura.

Ebbero vita così le cooperative denominate "Zappatori senza padroni", luoghi di liberazione, neonate realtà capaci di sostenere sofferenze e nutrire speranze e liberazione dalle droghe pesanti, perché la Marijuana era liberalizzata tra loro come una sorta di metadone autogestito. La coltivavano e sembrava davvero la nostra una terra fertile, anche troppo.

Cominciavano a parlare di "qualità della vita" cui era sottesa la ricerca della felicità, di affermazione individuale, di ampliamento e difesa delle libertà e quindi di una identità soggettiva autonoma minacciata da due fronti, sia dall’autoritarismo sempre presente, sia dalla spersonalizzazione prodotta dalla diffusione della società di massa entro la quale vedevano morire le speranze del ’68.

Li legava comunque una dinamica profonda di solidarietà per costruire una storia di vita comune che con tutte le contraddizioni e le difficoltà prodotte da uno spontaneismo estremo, riusciva comunque a conservare e promuovere speranza e coraggio e s’affacciavano bisogni che potremmo definire "post-materialisti".

Forse potremmo sintetizzare questa esperienza e questa nuova costellazione di bisogni come un balbettio della "cultura radicale" dove convivevano le richieste di partecipazione,di rinnovamento e di comunità con quelle delle libertà individuali.

Erano giovani che provenivano dalle aree metropolitane, dotati di grandi attese e di spessore culturale e incontrarli, conoscerli ci fece un gran bene.

Li apprezzammo come si apprezzano gli amici che condividono una storia comune e si ritrovano nella stessa frontiera. Ci fu dato di essere loro di aiuto anche sul piano sanitario e giudiziario.

Ci facemmo un gran bene reciprocamente. Da loro imparammo i dinamismi della libertà ad ascoltare come interlocutore protagonista il tossicodipendente. Soprattutto imparammo che il nuovo non poteva e non può essere affidato alla burocrazia né a interventi pedanti e garantisti perché così troppe volte si rischia di affaticare il flusso creativo della vita. Non è per rimandare a giudizi moralistici ma semplicemente un constatare che se sei un intollerante cerebrale ti rapporti al tossicodipendente in maniera impropria, rigida e intollerante. Sulla matrice culturale che ci anima dobbiamo vigilare sui nostri orientamenti ed operare le nostre scelte concrete perché questo è determinante per definire, puntuali o meno, il nostro rapporto con il mistero e l’irrazionale della dipendenza.

Sui nostri monti erano approdati per vivere insieme giovani tossicodipendenti spogli di ogni sovrastruttura metodologica, morsi nella carne dalle piaghe degli errori commessi, dalla rabbia e dai tabù per le mortificazioni subite, per questo non troppo lontani dal profilo dei tossicodipendenti di oggi.

La bellezza nascosta del cuore e del sentimento si rivelò allora come via efficace per arrivare all’intelletto e alla loro ragione. Smantellò pian piano le diffidenze e fu per tutti una gioiosa scoperta. Era meno utile e proficua la ricerca di uno specialismo sempre più esasperato ed ammantato di regole e di norme per dare un’anima e un profilo alla Comunità. Liberata così da ogni contrapposto schematismo offriva spazio e vita ad altre dinamiche più vicine alle attese del cuore.

Ci fu dato di riaffermare il primato della persona contro ogni forma di astrazione concettuale.

Fu così che arrivammo ad essere certi che la tenerezza che si sviluppa dalla cultura del "perdono", splendido frutto dell’umiltà, ci avrebbe dato la possibilità di reinventare i rapporti su un collante capace di donare alla persona l’equilibrio sufficiente per riconciliare il passato con il presente vivibile al di là dei condizionamenti di ieri.

Il "perdono" custodisce la speranza perché non inchioda l’uomo ai suoi errori identificandolo con il negativo della sua vita da pagare e da riscattare. Il perdono, come forza vitale, rilancia nella riconciliazione interiore e nella speranza che tutto è possibile per chi ha scoperto la forza liberante dell’amore e, giorno dopo giorno, è sostenuto nel cammino verso questa realtà.

Il segreto del perdono, che non è perdonismo né faciloneria, sta nella sapienza del cuore che sperimenta e vede che la tossicodipendenza è continua e devastante lacerazione dei rapporti e fonte amara di disagio e di dolore. Sarà sempre più chiaro che il riscatto interiore per una vita libera dalle droghe sarà da ricercarsi sulla frontiera del dono di sé, entro il quale scoprire il gusto pieno di vivere piuttosto che ricercarlo nell’angusta frontiera del pretendere.

Il "perdono", il "vivere per essere un dono" nell’esercizio di scelte libere, custodite nell’esperienza di un cammino comune, sembra davvero una realtà irrinunciabile per un riscatto dalle culture radicate nella tossicodipendenza.Questo doloroso condizionamento sarà sempre una fragilità presente se non si impara a controllarne le radici.

È per tutte queste considerazioni che diciamo ancora una volta: "Se non si può depenalizzare la droga, decarcerizziamo la tossicodipendenza"; eviteremo il doloroso ping-pong carcere-strada, strada-carcere che denuncia la nostra mancanza di fantasia e di coraggio.

È comunque doveroso a questo punto sottolineare ancora una volta ciò che appare ovvio.

Il comportamento eversivo e criminaloide del tossicodipendente da annoverare alla folta schiera dei tossicodipendenti in carcere in molta parte è legato al proibizionismo che spinge nel circuito cieco: "spaccio per farmi".

Al di là di questa quotidiana spirale, lo spaccio resta davvero il nemico mortale della nostra speranza e della nostra fatica. Questa piovra dai mille tentacoli, come si suol dire, è la sfida che incombe sul mondo sfuggevole delle droghe e delle nostre istituzioni.

Abbiamo tutti conosciuto il furbastro che spaccia e non si droga. È il figlio della mafia che, per essere efficiente e sicuro, non può far uso di droga, non sarebbe affidabile. Non vuole drogarsi, ma neppure smettere di spacciare. Si fa trovare positivo alle droghe dagli operatori del Ser.T. e scompare. Se il carcere lo trova si è garantito la certificazione del Ser.T. e si affaccia subito alla pretesa delle misure alternative.

Non è per questo tipo di persone che noi invochiamo l’applicazione seria e costruttiva delle misure alternative al carcere. Per altri motivi ed altre considerazioni potremmo, anche in casi come questi, pensare al carcere come ad un momento estremamente negativo per le raffinate acquisizioni di nozioni per gestire meglio il già conosciuto e potenziare l’attività sulle nuove piste di alleanze scoperte in carcere.

Sono questi i personaggi che alle spalle hanno un avvocato o qualche faccendiere che telefona e insiste per l’ingresso del suo cliente in Comunità. Di contro a questi stanno in carcere decine e decine di tossicodipendenti che, rassegnati e senza grinta, senza una reale guida non trovano vie possibili alla loro scarcerazione.

Davvero è un non senso e una grave ingiustizia da mettere in evidenza che un detenuto al quale di fatto è offerta la possibilità di uscire dal carcere, debba continuare a vivere una realtà che per diritto è stata giudicata per lui impropria e la carcerazione considerata superata in favore di una pena alternativa destinata a rimanere un sogno irrealizzabile.

A questo punto credo che la Comunità, il Carcere, il Tribunale di Sorveglianza, il C.S.S.A., il Ser.T., il volontariato s’impegnino perché la Magistratura che applica la carcerazione come pena e la riconosce, per motivi contingenti, sostituibile con la possibilità di una pena alternativa, non debba diventare occasione di un teatrino assai tragico, destinato a suscitare grande rabbia perché il carcere resta, infine per troppi, l’unico approdo possibile di espiazione e s’impone come necessario, anche se potremmo ricordare che la gestione di un trattamento penale può essere affidata a privati. In questo senso decarcerizzare la tossicodipendenza ci investe tutti di una comune e delicata responsabilità.

Innanzitutto si avverte l’esigenza di una struttura d’intesa capace di individuare all’interno del carcere tutti i detenuti che hanno diritto alle pene alternative per elaborare poi concrete e possibili soluzioni.

Se la proposta di legge Fini finisce col costringere all’ingresso in Comunità, noi dobbiamo impedire l’immagine della Comunità snaturata da un ruolo coercitivo quasi fosse un carcere.

L’affidamento sociale anziché la carcerazione, donata al detenuto dalla flessibilità della legge e dei magistrati, sarà una grande sfida alla interdipendenza fra i modi di essere della politica, della magistratura, dei servizi e del volontariato nella sua molteplice creatività, unita all’impegno di custodire gli interventi dalla paralizzante burocrazia.

Alle difficoltà che possono creare ostacoli ad un servizio comune dobbiamo reagire con la certezza che la tossicodipendenza non sopporta interventi frammentati, a rischio di diventare altrimenti protagonista di grossi equivoci e di sottili manipolazioni strumentali.

Negli anni Ottanta la Romagna pullulava di una generazione di tossicodipendenti arroccati in una vita di marginalità, dominati da una grande rabbia e tanti di loro partecipi di un circuito malavitoso e criminale.

Lo Stato cercava di contenerli con le manette, il carcere, la paura usati come risposta vincente perché condivisa da gran parte dei cittadini.

I ragazzi erano disorientati e arroganti, la cittadinanza allarmata e agguerrita a volersi liberare di questo fenomeno che era la vergogna della città.

In questo scenario un po’ impazzito, abbiamo incontrato a Faenza, l’opera silenziosa, ma quasi impotente dei servizi di allora con poco personale formato da un’assistente sociale, un infermiere e un medico per dodici ore settimanali. Da notare che oggi il servizio conta quindici persone circa.

Ebbene ogni servizio della zona faceva repubblica a sé. Chi distribuiva il metadone e chi no. Chi lo distribuiva aveva un tetto massimo di 30mg. I ragazzi s’aggiravano smarriti e irritati da queste misure contraddittorie. Dai paesi vicini si spostavano a Faenza dove il metadone non era tabù.

Sul malessere e la protesta degli operatori dei servizi e delle famiglie arrivò la norma che ogni tossicodipendente doveva fare riferimento al servizio del suo territorio: ognuno, rigidamente, doveva rivolgersi al suo servizio, senza eccezioni.

Gli interventi restarono fortemente differenziati su un sottofondo di polemiche che attraversavano anche la società civile insoddisfatta e critica col servizio pubblico.

Purtroppo tutte queste contraddizioni non contribuivano a sollevare la sofferenza dei tossicodipendenti per i quali il servizio deve essere armonizzato in tutte le sue componenti animato dallo spirito della gratuità che resta la via più sicura per il superamento dello spirito competitivo e dello spirito di divisione.

Sono passati tanti anni eppure, ancora oggi, in maniera diversa e più sottile, stanno innescandosi polemiche così rozze da destare grande amarezza per gli equivoci e le difficoltà che pongono.

L’interdipendenza e l’integrazione non è solo da costruire ogni giorno fra i servizi tra loro e con le comunità e il mondo del volontariato, ma anche con il mondo della politica.

La politica fa grandi passi avanti e trascina l’intera società quando sviluppa un metodo dialogico che, mantenendo le distinzioni, non si pone strutturalmente oppositivo.

Ripeto che noi Comunità tutte, i Ser.T, la Politica dovremo chiedere perdono ai tossicodipendenti per la nostra inadeguatezza, i nostri ritardi e le nostre presunzioni, soprattutto per non aver saputo dare risposte più puntuali al loro soffrire per le nostre presunzioni scientificamente fondate.

Le risposte ai problemi che si pongono sono possibili se ci anima il principio di sussidiarietà che è il collante del mondo dei servizi.

Tutti non possiamo fare tutto, ma ognuno deve disporsi a portare il suo frammento alla costruzione di una risposta veramente difficile al mondo della droga e non servono né giustizieri intolleranti, né onnipotenti risolutori.

In un armonico organismo che lotta contro le dipendenze non si vede che ruolo positivo possa avere il carcere. Il carcere è per il tossicodipendente una risposta che non nasconde il segreto di alcuna efficacia per il suo recupero.

Cattedrale della repressione, il carcere è una struttura naturalmente punitiva ed è un segno inequivocabile che custodisce e trasmette questo tipo di cultura.

Ci sono molte persone infatti che vedono nel tossicodipendente un elemento di vivente negatività e ne desiderano l’isolamento. Niente tranquillizza di più della soluzione carcere o della comunità-carcere o caserma.

Il tossicodipendente invece per il suo cammino di liberazione deve trovare gli spazi necessari per gestire e superare i problemi, esercitare le autonomie necessarie a creare motivi di libera scelta, momenti essenziali per lo sviluppo di una persona tesa alla ricerca della libertà.

Una politica sociale di liberazione è adeguata se tende a creare le condizioni per offrire la più ampia autonomia nel vivere, nel muoversi, nel lavorare. Deve porre l’individuo in condizione di fare quanto è in grado di fare perché riaffiorino in lui gli equilibri della cultura della cittadinanza andata perduta. E il carcere è la negazione di tutto questo.

Per liberarci dalla necessità del carcere si tratta di accogliere una sfida molto alta, affidata alla paziente attesa del domani. Questo cammino coinvolge le politiche sanitarie, abitative, educative, lavorative, sociali e impone una maggiore adesione, un maggior consenso e collaborazione dell’intero tessuto sociale e delle Istituzioni.

Chi vede il carcere come una struttura capace di evitare il consumo di droga al suo interno e mette in atto meccanismi sempre più efficienti per raggiungere questo obiettivo, si illude. Sappiamo che non è vero.

Sotto questo profilo credo che possiamo considerare il carcere la prova chiara che la repressione e il proibizionismo sono votati a rendere più difficile il rapporto con i giovani in difficoltà e seminare tensioni conflittuali e non reali collaborazioni.

La strada è segnata dalla fatica di progredire "per piccoli passi" verso la costruzione delle condizioni di autonomia.

È risaputo – ce lo hanno confermato le persone disabili – che se sono offerte e garantite il più possibile le condizioni fisiche di autonomia, si possono promuovere con frutto le cosiddette autonomie superiori, gli studi, gli affetti, le relazioni.

Esiste una relazione stretta tra l’autonomia fisica e quella spirituale, tra conoscenza e affetti, tra corpo e anima. In mancanza delle occasioni di vita le più "normali" possibili, anche la vita relazionale diventa coartata se non impedita.

Per superare la forza distruttiva del carcere vediamo fiorire sempre più oggi, attorno e al suo interno, mille iniziative, mille proposte che sono grande benedizione per i detenuti.

Vedo questo splendido sforzo frutto di generosità, di inventiva, di solidarietà come una grande occasione di crescita offerta ai detenuti con la speranza che il frutto di tanta splendida solidarietà sarà il permanente superamento del carcere e non la sua migliore funzionalità.

Vogliamo sognare che la solidarietà entri fra le mura del carcere come un tarlo costante, paziente e silenzioso per un domani senza barriere, nella speranza che sul cammino intrapreso si apriranno altri cammini per difendere la sofferenza dell’uomo da ogni autoritarismo impietoso sempre ricorrente e da questa voglia di carcere che continua a salire da ogni parte mortificando ogni proposta autentica di liberazione.

Permettetemi un’ultima considerazione.

Nel discorso di apertura della Prima Conferenza Nazionale sulla Salute Mentale, tenutasi l’anno scorso, è emerso che dieci milioni di italiani, sono afflitti dal cosiddetto "mal di vivere". Soffrono di problemi connessi con la salute mentale, il che vuol dire che una famiglia su due ha nel proprio seno una persona con questi problemi.

Per spiegare il fenomeno il sociologo ha risposto con semplicità che alla base ci sono ansia e angoscia, che hanno la loro unica radice nella paura e che risultano equamente divisi fra l’insicurezza nella sfera affettiva, poiché oggi sembra che anche i rapporti sentimentali siano "flessibili", meno duraturi che nel passato, e l’insicurezza nella sfera lavorativa.

Se questo "mal di vivere" sta alla base dei comportamenti di tanti giovani che affidano alle droghe la soluzione della loro inquietudine, ha senso allora sperare che sia la paura della pena a cacciare la paura oppure il carcere a guarire le ansie e le angosce?

 

 

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