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Inchiesta della Gazzetta del Mezzogiorno sulla detenzione femminile nel carcere di Trani
Quattro detenute, l’ispettrice "La cosa più brutta? Tornare libere e trovare porte chiuse"
Gazzetta del Mezzogiorno, 17 giugno 2003
Aurelia Maria Monopoli, 40 anni, è di Bari. È dentro per rapina aggravata, rapina, ricettazione. Uscirà il 30 settembre del 2005: "Se ho fatto del male lo sto pagando a caro prezzo. Esci dal carcere e resti sempre un condannato. Hanno paura a darti un lavoro. Nel ‘98 ho espiato una condanna di 9 mesi e 17 giorni. Sono uscita dal carcere e chiesi aiuto come ex detenuta per un lavoro anche come assistente agli anziani, collaboratrice domestica. L’assistente sociale della Circoscrizione di Santo Spirito mi disse: "Monopoli, per i tuoi problemi giuridici è molto difficile inserirti in un campo lavorativo. Mi ha spezzato le braccia. Che dovevo fare? Che cosa può fare il mondo esterno per noi? Dovrebbe aiutarci a fare attività lavorative, corsi di formazione professionale e darci la possibilità di vedere che le giornate trascorrono veloci e di non stare sempre in cella. Il momento più brutto qui? La sera, alle 8, quando si chiude tutto e ti chiudono fino alle 8 del mattino dopo. Si ammazza il tempo a vedere la tv, a scrivere lettere ai familiari e a qualche amico". E ancora: "Mio marito era un ex pregiudicato. Dopo che è morto, quando ho chiesto lavoro, sì, mi hanno assunto però poi mi hanno mandato via con scuse varie perché avevano paura. E io mi sono trovata in difficoltà, sempre le porte chiuse. La mia vita è continuata a rovinarsi. Però oggi che ho 40 anni ho imparato una cosa, uscendo non voglio più commettere errori. Non c’è lavoro? Ok, mi rivolgerò a croce rosse a parrocchie dove posso avere un aiuto per avere un pezzo di pane, però errori non ne voglio più commettere. Sono malata, ho una discopatia, ho sempre problemi di pressione, ho iniziato ad avere problemi anche con il cuore, ho una cisti al fegato, soffro in continuazione di coliche addominali. Se parliamo di medicine qui non c’è niente. Fai prima a soffrire, i medici sono bravi, mi aiutano sì, però naturalmente anche loro mi dicono: il farmaco non c’è. Non è neanche giusto, chi può e ha qualche spicciolo sul conto, al limite se la può comprare, la medicina, e chi non ha niente?" Maria Antonietta Murrone, 44 anni, di Lecce. Tre quarti della sua esistenza sono stati rovinati dalla droga che l’ha condotta a commettere reati come l’estorsione e la rapina. Uscirà nel 2008. "Sono dentro dall’81. Mi sono pentita solo nel ‘97, solo allora ho capito effettivamente che cosa è il carcere. Sono maturata. È dura stare qui, è una sofferenza, è durissimo stare lontani dalle persone che ami. Che cosa mi fa andare avanti? La volontà di vivere, di uscire e di abbracciare i mie figli. Tre anni fa ho avuto una meningite, adesso sto bene. Il futuro? Trovare un ragazzo, un lavoro e una vita onesta, degna di me. Ho fatto corsi al computer, adesso sto facendo i corsi di taglio e cucito. Sarà dura, ce la metterò tutta. Non andrò più a vivere a Lecce, cambierò città, forse in Germania, non lo so. Per me, qui non va il lavoro. Lavoro un’ora al giorno, guadagno 26 euro al mese e se penso che devo fare ancora 5 anni... " Anche Giuseppina Treglia, napoletana di San Gregorio Armeno, è stata più volte in carcere. Sarà libera ad agosto. Forse. Sì, perché sconta un anno di casa lavoro "... che è un ergastolo in bianco", spiega. "Perché devi porgere l’altra guancia, sempre. Non ti puoi difendere, non ti puoi ribellare, perché altrimenti ricominci da capo. Se ti scrivono qualcosa nel fascicolo ti azzerano la pena che ti sei fatta e cominci l’anno da capo. E dunque devi sopportare, se no, non si finisce mai". Il femminile di Trani è una casa lavoro nonostante la struttura non consenta un tipo di espiazione di pena sempre fuori cella. Ma Giuseppina punta il dito su altro: "Quelli che vengono da fuori, i volontari, non devono fare promesse che non mantengono. Ci vengono a trovare, ci portano una fetta di pizza e basta. Quando poi c’è bisogno di trovare una struttura che prenda in carico una di noi perché solo lì può stare, allora scompaiono". Giuseppina è lesbica, ha avuto un marito e due figli. Ma ha smesso di nascondersi, e a fatica è riuscita a farsi accettare. È una che tende la mano, spesso e volentieri. In cella con lei c’è una 37enne. È a lei che Giuseppina si riferisce quando parla dei "buoni che scompaiono". E la 37enne racconta: "Ho chiesto una revoca delle misure di sicurezza per questioni di salute. Ma è necessario trovare un Sert referente che mi prenda in carico. C’è bisogno che qualcuno mi dia fiducia e mi faccia ricominciare. Sono stata 22 anni tossica, ho avuto una brutta infanzia e non ho più nessuno. Sono sieropositiva. Per il momento sto bene, ma un posto come il carcere ti danneggia psicologicamente soprattutto se ti senti sola. E io mi sento sola". Donne di pena. E donne di "regole". Cambiano i ruoli, lo sfondo è uguale. Maria De Gregorio, 41 anni è ispettrice del corpo di polizia penitenziaria: "Il rapporto più difficile è con le detenute appartenenti a gruppi eversivi come le Brigate Rosse. Vengono qui per i colloqui con i mariti o i conviventi detenuti nella casa circondariale maschile. Rimangono qui uno, due mesi. Le detenute "politiche" sono molto distaccate dal personale di polizia, alcune di loro non rivolgono neanche il buon giorno, non parlano, usano il campanello, qualsiasi cosa per loro è di diritto. Le altre? Sono donne che soffrono. Non penso però che ci sia vera solidarietà tra le detenute. Si aiutano per le cose piccole. È vero che rappresento l’istituzione e devo far rispettare il regolamento, però proprio perché sono una donna e sono una mamma, mi immedesimo in certo situazioni. Le si aiuta quando fanno qualche domandina, qualche richiesta. Quando si può, le si aiuta". Tra le recluse dove la vita è un rimasuglio
Gazzetta del Mezzogiorno, 17 giugno 2003
Nove e mezza di mattina. S’apre la porta, squarciata, a metà, da un vetro verdastro antiriflesso che fa da passapacchi: chi sta dentro spia tutto, chi sta fuori nulla. Documenti, verifica dell’autorizzazione per entrare, oggetti personali riposti in una delle vetrine chiuse a chiave, e via libera. Carcere femminile, ex convento di San Domenico. Una giornata "dentro", fino alle 18, mica poco. S’apre la seconda porta. Dal chiuso all’aperto. Il chiosco. Una trentina di passi e s’arriva, scortati dall’agente di polizia penitenziaria, l’altra porta di ingresso. Dall’aperto al chiuso. E anche lì una agente di polizia penitenziaria: è la regola, nulla deve accadere. Il direttore accoglie col sorriso, risponde ai buongiorno delle detenute e degli operatori. Timbro di voce basso, occhi piccoli e dal colore delle castagne. E però con lo sguardo fulmina, scruta tutto di chiunque sia davanti: Giacinto Siciliano, 36 anni, due figli, una moglie anche lei nell’Amministrazione penitenziaria, vive all’ultimo piano dell’ex convento. Una casa, due uffici: dirige anche il maschile, e il suo ufficio principale è lì, in via Andria. Tutt’altra cosa, il supercarcere. Quattrocento e passa i detenuti, 29 le detenute. I numeri sono sostanza: più ne hai da gestire e più è difficile, meno ne hai e più l’ansia è a freno. Almeno così dovrebbe essere. Comincia la visita. I patti sono: un giro, lì dove è consentito, poi i colloqui. Senza affanni e senza sentinelle indiscrete. Così sarà: dalle 9 e mezza fino a qualche minuto prima della cena. Si sbircia, si parla, si prova a capire. Quasi tutto accade al pian terreno perché qui ci sono le stanze dove si lavora, dove si fa taglio e cucito, dove si fanno lezioni di scuola. È il piano della cucina, della sala mensa, abbellita da un piccolo palcoscenico. Zigzagando tra le stanze dalle volte altissime s’arriva al calzificio. Poche macchine, un po’ datate, ma fanno la loro. Lavorano in tre, più non si può, perché nessuna impresa esterna investe in quel laboratorio e perché l’Amministrazione non ritiene di aumentare la produzione: 60 paia di calzini al giorno, per tutti i detenuti d’Italia, bastano e avanzano. Appena pronti, i calzini vengono impilati sul tavolino d’ingresso. I mucchietti saranno spediti. Prima del calzificio c’è lo stanzone con la lavagna, i banchi e le sedie: è tutto ammassato ai lati. Sarà perché così è più facile pulire, sarà perché è sempre meglio avere spazi liberi piuttosto che cose di mezzo, nel tempio dei controllati a vista. T’accorgi subito che ci sono le suore. Le carceri femminili sono nate con loro, sono state le prime a prendersi il compito di "vigilare" e "rieducare". T’accorgi delle suore perché le vedi dimenarsi in tante piccole cose tra la cucina, l’infermeria, i laboratori di taglio e cucito, il calzificio. E poi perché l’unico quadro di valore è all’ingresso: un ricamo che ritrae il volto della fondatrice, Santa Giovanna Antida Thouret con le date del bicentenario 1799-1999. Senza dimenticare la chiesa. Interna. È del 1300, ed è la fetta più antica di tutto l’ex convento. Ogni giorno la tirano a lustro le detenute. Un po’ per lavoro, un po’ per fede. Le suore tengono molto alla pulizia di tutti gli ambienti. E si vede. Facile, vero, mantenere tutto lindo e pinto in un posto di donne. Facile ma non scontato. Il corridoio che accompagna in chiesa è abitato da statue sacre e mobili antichi. Niente di che, ma molte di quelle statue e alcune masserizie sono state rimesse in sesto proprio dalle detenute. Sempre meglio di stare in cella. Sembra che il destino si diverta a beffare: nella stanza-aula, la vecchia parete si sta sbriciolando ma l’unica scritta che rimane intatta è "obbedienza". E chi potrebbe non obbedire, in un carcere? Vale la logica: se fai il bravo, puoi sperare in qualche "sconto di pena" e in un qualche "permesso premio"; se fai il cattivo l’attimo durerà sempre un secolo. Due i quadrati all’aperto. Se ne possono prendere le misure, 15 passi per 15 passi. Le detenute si muovono come fossero robot sincronizzati, due di loro prendono a calci un pallone. Aria per due ore al mattino, per altre due al pomeriggio. Sgomenta guardare in alto: c’è una rete di protezione. Mica per evitare le fughe. No. Per evitare che piombino siringhe infette, sassi e pietre: tutta roba lanciata da chi sta all’esterno, dai "liberi", perché i due quadrati d’aria lambiscono la villa comunale. Il primo è il piano delle celle. Ogni cella ha un bagno. È tutto tirato a lustro. Sulla faccia delle pareti e degli armadi ci sono foto di famiglia. E di ugole celebri. Gigi D’Alessio in cima alla hit parade. E poi l’altro napoletano, Russo. Ma anche foto di bambini, figli, nipoti, santini. C’è il calendario dove qualcuna cerchia i giorni mancanti all’uscita. E c’è anche la foto della piccola Tatiana (nome di fantasia), la bimba rom reclusa assieme alla madre. Ha strappato il cuore di tre quarti di carcere, suore e agenti di polizia compresi, quando è andata via perché la madre è stata espulsa, per via dalla legge Bossi-Fini. Durante il pranzo, si parla spesso di Tatiana. Normale no? Sono quasi tutte madri, e molte sono nonne. Pasta asciutta, fagiolini e pollo. Mela e caffè. Sguardi che si incrociano, tavoli che si compongono a seconda delle simpatie (poche) e antipatie (tante). Il pomeriggio sfila conversando. Ci si interroga su che cosa si possa fare dall’esterno per cancellare il "nulla". Per non spegnere quei piccoli tizzoni di speranza che anche nei rimasugli di esistenza restano accesi. La vice direttrice sentenzia: i volontari entrano qui proponendo una loro idea dei bisogni delle detenute, senza mettersi all’ascolto. Un pregiudizio. Uno dei tanti. Che si mischia ai problemi: poche attività realmente rieducative; ma anche poche ore di lavoro retribuito, pochi farmaci, pochi agenti, pochi personale sanitario, pochi educatori. Tutto al minimo. Perché in fondo, il carcere fa notizia se c’è un suicidio o una rivolta. La normalità non attrae, non interessa. Nemmeno "fuori", se non a pochi e "male attrezzati". Eppure è lì la sfida, sono quelli di "fuori", i liberi, che possono fare molto per i ristretti, affinché chi è dentro esca davvero da tutte le gabbie. E sia migliore. Per sé. Per tutti. La direttrice: "Ripartono da zero rispetto agli uomini e hanno tanti tabù"
Tra le 29 recluse molte hanno ucciso o fatto uccidere con uno scopo preciso: vendicare un tradimento, salvare l’onore di donna, smettere di soffrire. Ragiona Valeria Pirè, vice direttrice: "Non è un luogo comune dire che le donne vivono i sentimenti, negativi o positivi che siano, in maniera estrema, più degli uomini. Spesso il reato commesso dall’uomo sottintende interesse e si inserisce in una organizzazione. E invece qui ci sono donne che hanno commesso reati individuali". Un tabù nel tabù, la sessualità: "Nel momento in cui una donna entra in carcere il suo ruolo viene ridimensionato sotto tutti i profili, nei rapporti sessuali, nei rapporti con i figli e, per quanto residuali, nel mondo del lavoro, all’interno della casa, della famiglia. Le ristrette devono ripartire da zero, sono messe più a contatto con le loro emozioni ed è più difficile la risalita perché la loro sofferenza è sempre più viscerale. Volendo, l’uomo può invece decidere di non mettersi in gioco su alcuni aspetti. In una donna, la difficoltà di un rapporto sfocia più nella scelta autolesionistica del reato piuttosto che nel mollare il rapporto. Ma, dietro, ci sono situazioni sociali difficili, economicamente represse".
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