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Donne in carcere: sempre più "strette e ristrette"? Entri alla Giudecca e ti sembra di essere in un ostello, solo che le ospiti non hanno quindici anni e non passeranno lì dentro un paio di giorni. Dai una sbirciata alle "stanze" e vedi almeno 8-9 letti. Pensi che la convivenza è difficile sempre, si finisce tante volte per scannarsi anche quando si è solo in due in una casa normale, ma se poi la convivenza è forzata, e se sai che durerà anni, allora è dura farsene una ragione. Succede poi che ti mettano in cella, a te che sei definitiva, una "nuova giunta" e, come racconta Svetlana, "vedo lei che piange, ripenso a tutto il percorso che ho fatto io, sono costretta a rivivere quello che credevo di aver superato, e se poi protesto e mi lamento per questa coabitazione tra definitive e imputate mi rispondono che sono prepotente, che invece dovrei star loro vicino, aiutarle. Dovrei fare l'assistente sociale, e io invece sono solo una detenuta in carcere da tanto tempo e che ancora ci dovrà stare per anni". L'ex convento e ora carcere della Giudecca ha però ancora grandi spazi da sfruttare: urgono quindi ristrutturazioni, perché oggi le donne "ristrette" sono davvero "donne sull'orlo di una crisi nervosa". "Chi ha una pena lunga", dice Angela "non vive più. E anche quel poco di convivenza che ci siamo costruite va a farsi friggere. Qui ci sono persone che si alzano alle due di notte per mangiare, persone che devono stare qui un mese accanto a persone che si devono fare vent'anni di carcere, persone che parlano ininterrottamente 24 ore su 24, e chi si deve alzare presto alla mattina per andare a lavorare ne esce pazzo". Ma le donne della Giudecca hanno anche l'ironia per raccontare tanti piccoli assurdi della convivenza: dai pigiami in serie, perché chi fa gli acquisti compra in stock e forse non ha mai assistito a una "sfilata di pigiami carcerari", ai tagli di capelli con standard a scodella, perché non è esattamente una parrucchiera la persona che se ne occupa. E' Svetlana, rom della Serbia, a iniziare il racconto delle "ristrettezze" della detenzione
"Prima di entrare in stanza, c'è un corridoio a forma di T. Una delle due parti prende il nome di Hollywood (zona dove solitamente regna una sorta di quiete elegante), l'altra si chiama Bronx e questo parla da sé (diciamo solo che i colori sono più accesi…). Entriamo in stanza: otto letti, di cui tre a castello, o, come diciamo noi, bifamiliari. Ssst… fate piano, perché non è tutto come sembra, esiste un altro letto mimetizzato con cura ma non si deve sapere! Capita infatti che le agenti controllino i numeri di posti per ingrandire la "famiglia" e in coro si levi una voce unanime: Siamo al completo … passate oltre! Ma c'è una ragazza nuova e da qualche parte bisogna metterla: manca un letto all'appello, però noi continuiamo senza cedimenti a recitare la nostra parte di innocenti senza tirarlo fuori, questo letto, e qualche volta ci va bene perché risulta più facile andare oltre e quel posto trovarlo alla stanza 3 o 4: insomma, ognuna difende disperatamente il suo piccolo spazio, come può e fin dove può opporre resistenza… Poi c'è Bianca, cuoca napoletana "ristretta" con sette straniere Vivo in una stanza dove siamo in otto, io unica italiana con sette straniere, di cui cinque sudamericane e due slave. Una di loro l'abbiamo pure ribattezzata "casalinga frustrata", perché, da quando apriamo gli occhi, comincia a romperci: le tende, il disordine, la pulizia, il bucato, etc. etc. Non basta che siamo in questo posto, dove la pressione e la tensione sono tali da poterli quasi toccare: ci si mette anche lei, qualche volta, a tormentarci! Ma, nonostante tutto, mi trovo bene insieme a loro. Per fortuna, a differenza di altre stanze, siamo molto unite, praticamente come una famiglia e non abbiamo perso le nostre abitudini, come chiunque viva fuori da queste mura. Ci hanno privato, certo, della libertà, ma non del nostro modo di pensare e di sentire, in poche parole il nostro modo di vivere. La sera, alle venti, c'è la chiusura delle celle: di solito a quell'ora ci prepariamo la cena, la fa chi ne ha voglia, senza seguire uno schema fisso. Chi non partecipa alla preparazione della cena apparecchia la tavola, e così via. Dopo mangiato prendiamo il caffè e poi ci mettiamo a parlare e a scherzare, oppure a discutere, tutte sedute attorno al tavolo, mentre altre due lavano i piatti. Funziona, in pratica, come una catena di montaggio. Fatto questo, si "parte" a scrivere, o meglio l'idea è quella, però, di solito, nessuna ha voglia di farlo. Ci guardiamo in faccia e, con un tacito accordo, diciamo: "Ma sì, scriviamo dopo il film: è bello!" Poi, magari, finalmente ci mettiamo a scrivere davvero, ma io, in particolare, rimando sempre: ho cominciato una lettera per casa un mese fa e nel foglio c'è solo la data! Beh, pazienza, prima o poi la finirò... comunque la mia esperienza di vita insieme a queste straniere continua ad essere molto interessante e soprattutto bella, anche ed appunto perché non abbiamo le stesse culture. Yo las quiero, igualmente... chist' straniere, me romp'n sempe o'cazz: "Ch'a faje 'na pizza alla napulitana?" Cristina e la vita nella suite n°3 Bene, si avvicina l'ora in cui arriva l'urlo dalla sala giochi che chiama il dispensare del pranzo. In suite n°3, c'è chi ha pensato ad apparecchiare la tavola per tutte noi otto, componenti della famiglia. Sembra proprio di trovarsi, quando sediamo assieme attorno al tavolo imbandito, ognuna al ritorno dall'ufficio, tipo Nancy che è spesina, oppure dal lavoro di colf, come la Patty, che è appunto scopina giù ai portici (non è una piazza cittadina, ma la parte della Giudecca che comprende gli uffici Comando, Monitor, la sezione, il cortile, l'aria, etc.). Poi ci sono le studentesse: Luisa e Viviana, impegnate, in questo periodo di "buco" lavorativo, in altre attività, come la Commissione Culturale. Infine ci sono le "giocherellone" che, a tempo perso, sono anche casalinghe: Carlotta, Rossella, lettrice accanita, e Cristina, casinista inconfondibile e burlona. Insomma, tra il cambio di una posata, spezzata inesorabilmente mentre la si usa (tra coltelli e forchette di plastica non se ne può più!) ed il telegiornale, cominciamo a sentire le nostre solite storie. "Hanno arrestato tizio, durante una tentata rapina a Milano, era agli arresti domiciliari e pluripregiudicato". Un vero pericolo sociale, quindi! Che noia. Rossella inghiotte un boccone, amaro in tutti i sensi, e conclude che, dopo questo ennesimo episodio, in futuro le porte saranno chiuse per tutte noi. Al telegiornale tutti sono d'accordo per tenerci in galera e, allora a qualcuno viene in mente di sperare nell'uso dei bracciali elettronici per chi va in permesso oppure ottiene una misura alternativa. Anche perché alla fine conveniamo sul fatto che ci sarà certamente chi è capace di modificare l'invio dell'impulso elettronico, magari chi è esperto in informatica: meglio tacere... Meglio, soprattutto, spegnere la televisione e "accendere" le nostre chiacchierate, che sono decisamente meno deprimenti.
La Redazione della Giudecca
Alla Giudecca adesso siamo in "alta stagione": tutto esaurito, anche 11 per cella!
La convivenza è un’avventura sempre, pure quando puoi sceglierti la persona con cui stare, immaginarsi che cos’è in un carcere
Siamo in piena alta stagione, alla Giudecca: 11 in una stanza (qui le celle si chiamano elegantemente "stanze"), tutto esaurito, e nessuna possibilità di scegliersi, non diciamo la stanza con vista migliore o la più luminosa, ma almeno le compagne con cui condividere questa vita. Qui non c’è la convivenza intesa come due o più persone, fidanzati colleghi amici, che si scelgono e decidono di vivere insieme per amore, lavoro, studio, e soprattutto quello che non c’è è la libertà di ciascuno di andarsene quando il rapporto non funziona più. Siamo 11 e non apparteniamo tutte alla stessa razza, ci sono etnie, culture, tradizioni, abitudini del tutto diverse, e forse, se sei curiosa e la permanenza si prolunga, puoi anche imparare qualcosa di buono, per lo meno i piatti tipici e i balli di una gran quantità di popoli, ma il punto è un altro: come si tenta di vivere e sopravvivere, in così tante in una stanza, e come si fa a rispettare ognuna lo spazio dell’altra? Ammesso che si possa parlare di spazio, in un luogo in cui ci devono stare tutti quei letti, dei quali due a castello, contro le pareti, tutti accompagnati da un armadio e un comodino, tra un letto e l’altro poi uno stretto corridoio, e lì ognuna di noi ha il proprio pezzetto personale di "proprietà privata"; poi si arriva al centro della stanza, dove c’è libero accesso a tutte. In mezzo ci sta il tavolo con delle panche che servono per sedersi, ma anche come dispense, e di questo doppio uso ringraziamo di cuore l’inventore. Serve comunque prenotare anche per mangiare, il tavolo certo è abbastanza grande, ma se dovessimo pranzare tutte assieme, ti potrebbe succedere senza volerlo di mangiare dal piatto di un’altra pensando che sia il tuo. Quando poi giriamo per la stanza, ci vorrebbero veramente dei cartelli con le precedenze: se una esce dal bagno, per esempio, con la porta che si apre verso l’esterno, e nel frattempo sta arrivando un’altra e non ha i riflessi pronti, c’è il rischio di spiaccicarla senza pietà. La cucina, se si può chiamare così una stanzetta di un metro e mezzo per tre, aggiungi due lavandini e un mobile per le pentole e diventa di un metro per due, viene usata soprattutto per fare il caffè e per cucinare poche cose, non sarebbe possibile fare diversamente. Ma la cucina è niente in confronto al bagno. Tutte sanno che alle donne il bagno piace, è in bagno che passano tanto tempo, tutte noi accettiamo una casa con stanze piccole, ma il bagno lo vogliamo grande e luminoso. Ecco, qui tutti i nostri sogni di bagni grandi e comodi si dissolvono come bolle di sapone, sì perché oltre che essere piccolo, il bagno lo devi dividere con altre 10 persone, che oltretutto sono donne. Succede poi, non si capisce perché, che il bagno resta libero per un po’ di tempo, poi quando una lo occupa, le altre già si chiedono quanto tempo ci resterà dentro, come se aspettassero che sia occupato per averne bisogno, ma quella che è dentro non sa che le altre devono entrare, e quindi fa le cose con calma, e magari si sofferma anche davanti allo specchio, mentre cresce il nervosismo tra quelle fuori, divise tra la necessità e il fatto che non è bello disturbare qualcuno mentre è in bagno. Alla fine lei, l’occupante, esce tranquilla e si trova faccia a faccia non con una donna, ma con una fila impaziente di 4-5 donne ai limiti di una crisi di nervi.
Assistente sociale, psicologa, madre, sorella: quando una donna detenuta è costretta a coprire mille ruoli
Purtroppo, in carcere ci troviamo a scontare una condanna e in più siamo obbligate spesso ad assumere ruoli che non ci competono, come assistente sociale, madre o sorella maggiore, addirittura maestra d’asilo, in quanto una buona parte di noi non sa vivere in collettività con altre persone e si dimentica a volte, diciamo così, anche le regole minime dell’igiene: succede che alla fine il peso di tutto questo ricade sulle spalle di chi è più responsabile, di chi comunque sta cercando di rendere la sua carcerazione più vivibile e più dignitosa possibile. Il fatto è, però, che noi siamo qui in una condizione di assoluta debolezza e non possiamo opporci a certi comportamenti inadatti a una convivenza così forzata: e invece il carcere cerca spesso di scaricare sulle persone più responsabili il compito di insegnare a quelle che non lo sono a pulire la stanza, lavarsi i panni, fare attenzione all’igiene. Il rischio è che il nostro sforzo di consigliare e aiutare a orientarsi nel caos della vita carceraria non venga recepito come un insegnamento ma come un voler comandare, e così rischiamo pure di prenderci un rapporto con l’accusa di essere prepotenti e voler agire come piccole boss.
Per chi ha tanti anni da scontare non è molto piacevole vedere le altre entrare e uscire poi dopo pochi mesi
Quella della convivenza in carcere è una delle esperienze che, psicologicamente ed emotivamente, ci mette più alla prova sotto tutti i punti di vista. Quando si entra in carcere, si vorrebbe almeno trovar posto vicino all’amico, al conoscente, al connazionale, o anche a chi è dentro per lo stesso motivo, sarebbe un modo per condividere assieme le stesse abitudini, idee, parlare la stessa lingua, sentirsi un po’ meno soli. La persona che entra in carcere viene invece semplicemente parcheggiata dove c’è un letto. Con il passare dei mesi però fai nuove amicizie, cresci dentro e impari a muoverti in questo mondo fatto di imposizioni e divieti, socializzi con chi hai accanto e non pensi più all’amico o al connazionale, anzi a sentire le nostre compagne straniere si sta meglio così, mescolate tra italiane e straniere, vivendo in stanze diverse non c’è pericolo che si formino gruppi o clan, che portano nella maggior parte dei casi a lotte e contrasti tra persone della stessa etnia. Ma la cosa che pesa di più, soprattutto in celloni come alla Giudecca, è il fatto che qui stanno, mescolate insieme, le imputate e le donne già condannate, anche a pene molto lunghe, e poi pesa soprattutto la differenza di anni da scontare: per quelle che ne hanno tanti non è infatti molto piacevole vedere le altre entrare ed uscire, c’è un ricambio continuo e questo ti pesa addosso come un macigno, per questioni di sovraffollamento devi convivere con chi ha pene corte e a volte obbliga le compagne che sono lì da tanto a sorbirsi continue richieste, lamentele e autocommiserazioni. Allora cerchiamo insieme di capire qual è il compito di una detenuta in queste condizioni: per quel po’ di intelligenza che ci è rimasta, forse è solo quello di scontare la nostra pena, mantenere sempre in allenamento il cervello per far sì che non si blocchi completamente, impegnarsi se possibile nelle attività culturali e nel lavoro, quando c’è. Ma per quanto riguarda la convivenza, su qualsiasi cosa sia necessario intervenire, lo dobbiamo fare di nostra scelta, perché in noi c’è anche umanità e solidarietà verso il prossimo, e non perché l’istituzione vorrebbe da noi che coprissimo con la buona volontà i ruoli che dovrebbero essere invece svolti da altri, quegli operatori con le competenze necessarie che in carcere sono davvero troppo pochi.
Patrizia ed Emilia
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