|
Chiacchierando con le donne detenute alla Giudecca
Quando ho annunciato in redazione: "Domani vado alla Giudecca, al carcere femminile", è stato tutto un coro di "Vengo anch’io!" sinceri, convinti e pieni di partecipazione. Con me non sono venuti, purtroppo, i detenuti redattori di Ristretti Orizzonti, ma il loro "esserci col pensiero" è stato come un caloroso benvenuto alla prima "redazione locale" del nostro giornale, che nasce a Venezia con un gruppo di donne vivaci e combattive.
Donne sedute su sedie "temporaneamente rubate" alla vicina cappella, o appollaiate su tavoli e banconi, un passaggio continuo di altre donne con gonne lunghe e minuscoli bambini in braccio, ogni tanto agenti rigorosamente donne che compaiono e scompaiono con discrezione: la nuova redazione al femminile della Giudecca non ha ancora una sede vera, ma si riunisce per ora nella biblioteca affacciata sul verde del Monastero delle Convertite. Di fronte a noi, cameroni a 4 - 6 letti, che assomigliano più a un ostello che a un carcere, con donne intente alle grandi pulizie del sabato o alle prese con bigodini e messa in piega, per prepararsi con cura al colloquio, o forse solo per sentirsi in ogni caso belle per se stesse. Dicono che la sperimentazione delle cosiddette "stanze dell’affettività" partirà proprio da Venezia, così decidiamo di cominciare da qui la nostra prima vera discussione in redazione. Una voce dal fondo taglia subito corto senza tante vie di mezzo: "Se è per me, non mi interessa, io parenti da far venire lì non ne ho". È Angela ad esprimere un interesse così scarso per questo tema, ma Luisa si inserisce subito con una concreta e ironica proposta per chi non ha "affetti" da incontrare nelle "stanze dell’affettività": "La soluzione c’è: basta creare un’agenzia, tipo quelle matrimoniali, specializzata in detenuti, con tanto di album con fotografie e descrizioni dettagliate, potremmo chiamarla Agenzia Affettiva, che ne dite?". Poi si entra nel vivo del problema, e Svetlana ammette che a lei questa idea di poter avere anche rapporti intimi con il proprio compagno in carcere le creerebbe imbarazzo, le cose sarebbero però diverse se questi incontri non durassero solo un paio d’ore, ma un’intera giornata: allora non ci sarebbero la fretta, l’ansia, la frustrazione di un incontro veloce e nervoso, il tempo darebbe modo di diluire la tensione. Luisa è invece più pratica nell’affrontare l’argomento: "Forse la prima volta sarai imbarazzata, ma poi le inibizioni cadono, e la seconda volta ti dici: ma che c... me ne frega? quello che ho davanti è pur sempre mio marito, no?. Però sono d’accordo che deve esserci un "tempo lungo", che mi permetta di rompere il ghiaccio, perché se no, anche se conosco mio marito da una vita, non riesco ad abbattere quel muro di diffidenza che si crea all’inizio".
È Claudia, invece, a far notare che si parla di "stanze dell’affettività" per migliorare i rapporti delle persone detenute con i loro famigliari, e non si pensa invece di introdurre anche delle piccole, insignificanti modifiche ai regolamenti, per rendere questi rapporti meno frustranti: "Ma non vi sembra che si dovrebbero cambiare anche i tempi delle telefonate? Non credete che sei minuti siano incredibilmente pochi, soprattutto per chi i parenti li sente solo al telefono, perché stanno troppo lontano o perché non sono in grado di affrontare spesso le spese e le difficoltà del viaggio?". Svetlana racconta allora la sua "lotta" col telefono che è andata avanti per mesi. "Io ho tre figli che stanno in Jugoslavia, quando li chiamo in sei minuti non riesco neppure a parlare con tutti e tre. Se si pensa poi che per gli stranieri le telefonate sostituiscono di fatto il colloquio, sarebbe davvero importante che durassero di più. A me poi è successo di tutto: quando si sono accorti che non avevo l’interprete, mi hanno autorizzato a parlare solo coi miei bambini. E così succedeva che, se uno stava male, non potevo neppure farmi passare mia, madre o mia suocera per avere qualche informazione più precisa. Ho dovuto penare un anno per riuscire a parlare con mia madre".
Marianne è olandese, anche per lei non si trova l’interprete, e allora è costretta a parlare con i figli in inglese, sei minuti di corsa e per di più in una lingua che non è la sua. Il marito poi l’inglese non lo sa, dunque con lui niente colloqui telefonici, e però lei gli può scrivere tranquillamente in olandese: qualcuno saprebbe spiegarle perché non può anche parlargli per telefono?
Dal telefono la discussione si sposta sui colloqui: in fondo, hanno proprio ragione le donne della Giudecca a far notare che, oltre che parlare pomposamente di "stanze dell’affettività", forse sarebbe il caso che si pensasse anche a migliorare per tutti le condizioni in cui si svolgono i normali colloqui. È Luisa ad attirare l’attenzione sullo squallore dei colloqui: "Già il colloquio senza vetro in mezzo sarebbe una bella conquista. Se veniamo rinchiuse noi, non è che possiamo rinchiudere anche i nostri sentimenti, ma se a colloquio vuoi solo toccarti le mani, devi contorcerti fino a farti male per riuscirci. E poi le mani non te le puoi stringere troppo a lungo, e darti un bacio è una fatica, e se poi riesci a dartelo ti senti fare toc toc sul vetro dall’agente. In altre carceri invece il bancone è così largo, che per farti sentire dall’altra parte devi urlare". Graziana ricorda che al circondariale è anche peggio, lì non poteva neppure abbracciare i suoi figli. Meglio al penale anche per Raffaella: "Io faccio due ore di colloquio speciale in giardino con le mie figlie. Sono anche già nonna, ma le nipoti invece non voglio che vengano qui. A me basta così, non saprei che farmene delle stanze dell’affettività, le mie figlie lavorano e, se potessero prendersi una giornata di ferie per vedermi, lo farebbero per farmi andare a casa in permesso, non per incontrarmi qui". Manuela interviene con la sua razione di insoddisfazione per un altro sgradevole aspetto dei colloqui, le perquisizioni dei famigliari: "Hanno paura che dall’esterno ti passino qualcosa. Così succede che chiunque sia la persona che ti viene a trovare, viene perquisita, a volte fatta spogliare, eppure si tratta di persone che contro la legge non hanno fatto assolutamente nulla. Non basterebbe perquisire me dopo il colloquio? Io tanto ci sono abituata, a questi trattamenti, ma mia madre ha settantacinque anni e ogni volta che la incontro, la trovo angosciata e imbarazzata per quello che deve subire prima di vedermi".
Alla fine si ritorna su queste benedette stanze. Nel carcere maschile, a Padova, le voci "contro" sono tante: si parla di imbarazzi, c’è chi la "sua donna" in queste stanze non la farebbe proprio entrare, chi teme il disagio, le battute pesanti, la frustrazione. Le donne no, le donne sono più immediate e sincere, forse. Manuela ha le idee chiare in proposito: "Di cose imbarazzanti, e anche di umiliazioni, ne abbiamo passate tante in carcere, questa non mi creerebbe nessun problema, l’imbarazzo lo possiamo ampiamente superare. Uno poi deve pensare anche agli altri, a chi ha tanti anni da scontare e quindi i permessi non può neppure sognarseli". La cosa curiosa è che quello che da noi suscita ancora reazioni scandalizzate, in altri paesi è da tempo normalità: e non solo nell’Olanda "emancipata" di Marianne, ma anche nel Venezuela di Lizbeth, che chissà quanto dovrà aspettare, invece, per incontrare nel carcere della Giudecca il suo fidanzato. A meno che le promesse non vengano davvero mantenute, e Venezia non aggiunga, alla sua immagine tradizionale di luogo fatto per l’amore, quella di prima città in Italia con carcere dove gli affetti si "coltivano" un po’ meglio che altrove.
Ornella Favero
|