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Giulia e le sue "vacanze" alla Giudecca
Il primo impatto col carcere di una volontaria, che ha vissuto l’esperienza di una "immersione totale" per dieci giorni in un istituto penale femminile
Da quando sono tornata da questi dieci giorni di immersione totale nel carcere femminile della Giudecca, non ho fatto altro che pensare al carcere, a Letizia, Omaira, Lua, Ciamaj e le altre zingare, Marianne, Svetlana, Lia, Maria. In queste ultime notti le ho sognate spesso, a Venezia non mi era capitato perché la sera ero così stanca che la mattina neanche mi accorgevo di avere dormito. Eravamo 6 volontarie, passavamo le notti a cercare di capire le immagini del carcere e a dissertare sugli aspetti che ci sembravano incomprensibili... una ragazza in particolare, Silvia, che ha 25 anni e si laureerà l’anno prossimo in Diritto Penitenziario, cercava di spiegarmi il Nuovo Regolamento: lei forse vorrebbe fare il Direttore. All’inizio, nello svolgimento delle giornate sono rimasta un po’ spiazzata quando mi sono resa conto che l’intera mattina sarebbe stata dedicata alla formazione cristiana… che la fede sia un dono prezioso me l’ha piuttosto dimostrato l’amore di una delle tre suore che stavano con noi volontarie e che da venti anni si occupa del carcere dando la vita per le "sue" donne. Una suora fuori dal comune, che è un pozzo di storie e di racconti sul carcere della Giudecca e sulle sue "ospiti", che lei narra con un rispetto profondissimo per le persone che le sono affidate. Già la possibilità di poter conoscere una persona così valeva dieci giorni di "clausura" (così noi volontarie chiamiamo quelle mattinate passate nel chiostro del convento). Entrare in carcere mi ha dato sensazioni molto contrastanti: non so neppure io come lo immaginavo, so solo che me lo immaginavo diverso e so che ho visto solo un lato della medaglia, ho visto e conosciuto quelle donne che erano interessate alle attività che proponevamo e a conoscerci: una sessantina su centotre, di cui quindici onnipresenti. L’interesse che alcune dimostravano per noi, il loro bisogno di raccontarsi, mi hanno fatto sentire utile e, quindi, gratificata. Già il primo giorno una signora anziana mi ha domandato: "Tu hai fatto giurisprudenza, vero?", a quel punto mi aspettavo mi chiedesse qualcosa ed, invece, solo dopo quattro giorni ha preso coraggio e mi ha chiesto i termini per avere la liberazione condizionale. Da un lato, mi ha fatto tenerezza che una donna che sapeva che ero lì a sua disposizione si facesse tanti riguardi per farmi una domanda; dall’altro, mi sono davvero rattristata che queste cose, basilari nella vita di un detenuto, non siano conosciute: insomma, uno magari potrebbe accedere ad una misura alternativa e rimane in carcere perché nessuno gli ha detto che ha diritto "quantomeno" a fare una richiesta legittima. Potrei andare avanti per ore, parlando ad esempio dei bambini nel carcere, sui quali avevo il pregiudizio che "comunque" sarebbero stati bene, "purché con la madre". Dopo certe scene, cui tristemente ho dovuto assistere, mi sono convinta piuttosto che essi debbano stare "ovunque, purché non in carcere". Sarà che le mamme che ho conosciuto avevano così tanti problemi che i figli passavano in secondo piano, ma addirittura una mamma zingara (avrà avuto 22 anni) mi ha chiesto di fare una partita a calcetto con lei e, mentre giocavamo, la sua bambina si era messa ad urlare e la madre mi ha guardato e mi ha detto: "Tu continua a giocare, che quella bambina fa capricci". Ma la bambina urlava sempre più forte ed a me sinceramente era passata ogni voglia di giocare. Alcuni bambini lì dentro sono aggressivi, altri anoressici, tutti sono abituati ad avere cento mamme, perché le donne se li contendono. Quando sono tornata a Padova, mi sono trovata un po’ cambiata. Il giorno stesso mi è stato rubato il portafoglio in stazione. Avevo tutti i documenti e, stupidamente, molti soldi, che avevo prelevato a Venezia. Sono rimasta stupita della mia reazione, era la prima volta che mi rubavano qualcosa, però mi sono venute in mente le donne del carcere, il loro bisogno di qualsiasi cosa.
"Non si conosce il carcere in dieci giorni"
Quando Lisbeth, della redazione di Ristretti Orizzonti, mi ha chiesto di scrivere qualcosa sulla mia esperienza di dieci giorni di volontariato, una "vacanza" nel carcere della Giudecca, mi è sembrato si chiudesse un cerchio: era proprio da un articolo di questo giornale che ero venuta a conoscere di una tale esperienza estiva che, lo dico subito, è stata per me una delle più coinvolgenti che mi sia stato dato di vivere. "Non si capisce il carcere in dieci giorni", mi hanno ripetuto più volte le persone che da una vita si occupano con passione e sacrificio di queste realtà. Con la verità di tale affermazione ho dovuto fare i conti ogni giorno, per dieci giorni, uscendo dall’Istituto, quando mi trovavo costretta a cambiare il significato che avevo attribuito agli incontri ed alle emozioni delle ventiquattr’ore precedenti. La prima "scoperta" vale solo per chi entri nell’Istituto della Giudecca: che l’Istituto sia un luogo di detenzione lo si capisce solo dalle sbarre alle finestre e dalle robuste porte blindate verdi, per il resto, non tradisce la sua origine come convento di suore ed, in effetti, a parte la struttura in generale, rimangono alcuni dettagli che solo un animo femminile poteva suggerire: colonne e muri rosati, alberi e piante nel cortile di cemento, stanze molto ampie pensate per la vita in comune. Ma sono state le emozioni che ha suscitato in noi l’incontro con le donne a spiazzarci di più: anche quelle che tra noi erano più diffidenti si sono subito rese conto che quando la realtà, mille volte ipotizzata prima di arrivare a Venezia, si fa concreta, quando le detenute diventano volti e nomi, tutto appare molto più normale di quanto si temeva. Anzi, direi che all’inizio l’impressione fu che tutto fosse fin troppo normale. L’accoglienza che ci era stata riservata il primo giorno dalla ventina di donne che ci venivano incontro, i sorrisi, le presentazioni, l’autoironia che molte dimostravano per la propria condizione stemperavano le nostre tensioni e paure. La cosa che più mi colpiva però era la fortissima solidarietà che sembrava legare tra loro alcune donne: della ragazza più coraggiosa, nei confronti delle più malinconiche e nostalgiche; delle donne più giovani, nei confronti della più anziana che faticava a portare a termine i piccoli lavoretti che ogni giorno proponevamo, ma che pure desiderava avere qualcosa da regalare alla nipote al prossimo colloquio. Anche tra noi ed alcune di loro sembravano ricrearsi quegli schemi quasi familiari della vita fuori: la signora "mamma protettiva" che mi raccomandava di fare le scelte giuste nella vita, la ragazza "sorella" che mi chiedeva quale fosse adesso la musica ballata nei locali e che ci teneva a farmi ascoltare dal suo walkman le sue canzoni preferite. Perfino, e qui il mio stupore credo avesse raggiunto il limite dell’incredulità, il rapporto tra le donne ristrette e le agenti di polizia penitenziaria, soprattutto quelle giovanissime, sembrava di disponibilità reciproca. Pur mantenendo la necessaria autorevolezza, le agenti non avevano molto di quello stereotipo della carceriera, così radicato nel senso comune: ascoltavano con attenzione le detenute, le invitavano a partecipare alle attività, dandosi reciprocamente del tu, secondo una tradizione propria solo del carcere della Giudecca e che forse può non far piacere a qualcuno nell’Amministrazione Penitenziaria, ma che è difficile da sradicare, visto che risale addirittura a quando le vigilanti erano le suore del convento. Credo, comunque, che il rispetto per la divisa o, al contrario, per le detenute, sia legato anche ad altro. So che il femminismo è ormai passato di moda, ma io mi ero subito convinta che questo sorprendente stato di cose fosse dovuto alla forza d’animo femminile, che nelle maggiori difficoltà riesce a fare appello a risorse inaspettate. Mi venivano soprattutto in mente le parole sussurratemi durante l’ora d’aria da una bellissima detenuta, seduta su un telo accuratamente sistemato sull’asfalto del cortile: "Vedi, io faccio così: mi preparo, poi chiudo gli occhi, volgo il viso al sole e cerco di sentire l’odore del mare... e davvero, a volte, riesco ad essere lontana da qui, su una spiaggia ad ascoltare le onde..." In seguito, questa tecnica di "evasione" mi é apparsa abbastanza diffusa. Anche Letizia, la sudamericana più piena di vita che abbia mai incontrato, mi spiegava che, essendo stata arrestata appena arrivata in Italia, non aveva potuto visitare nessuna città. A volte, però, qualcuno le descriveva Roma e lei riusciva, con gli occhi chiusi, a vederla veramente. C’era una cosa, soprattutto, che non finiva di affascinarmi di questi tentativi: il pensiero che queste donne, private di tutti i loro punti di riferimento, dalla famiglia, agli amici, alla posizione sociale, lottassero ogni giorno non per esercitare la propria immaginazione, ma per salvaguardare il proprio Io, per mantenersi vive, per non svuotarsi di ogni energia nel sentire impotenti il tempo scorrere sopra di sé.
Anche il giardino più bello...
Ma ben presto questa mia rassicurante interpretazione della realtà ha cominciato a mostrare le sue crepe. Già un poeta famoso del secolo scorso avvertiva di come anche il giardino più bello che, guardato superficialmente, sembra un piccolo paradiso terrestre, nasconde parassiti, crudeli lotte tra insetti, fiori che si accartocciano silenziosamente nell’arsura, vane attese d’acqua..., figuriamoci un carcere! Ad esempio, col passare del tempo, prendevo coscienza di come la regola, che avevo trovato molto "risocializzante", della possibilità di stare in spazi comuni dalle otto della mattina alle otto della sera, rischi alla fine di privarle definitivamente di ogni rapporto di intimità col proprio corpo, della possibilità di tutelare un benché minimo senso del pudore e semplicemente di scegliere se dormire o stare alzate, visto che, quando si è in otto, queste decisioni sono demandate, nel migliore dei casi, alla democrazia ed al buon senso; nel peggiore, ai rapporti di forza tra detenute. Alcune detenute ci hanno assicurato che avrebbero rinunciato volentieri a molte ore di vita in comune, pur di poter disporre di una cella per due o per tre persone. Ma, soprattutto, quella capacità di estraniarsi dalla realtà immaginandosi altrove, che al principio mi aveva così incantata, iniziò ad apparirmi in una prospettiva nuova: come pericolosa fuga da una condizione con cui pure era necessario imparare a convivere. Iniziai allora ad apprezzare anche quelle donne che, nonostante si lamentassero, cercavano un dialogo sincero con le altre detenute per raggiungere, confrontandosi con le sensazioni altrui, la consapevolezza di trovarsi sottoposte alla medesima esperienza di dolore e che ci si poteva incoraggiare e confrontare a vicenda. In questi giorni mi sono progressivamente convinta che il peggiore difetto del modo in cui abbiamo immaginato i luoghi di detenzione sia il rischio dell’omologazione, di mettere delle persone in un posto senza dar loro i mezzi per far riemergere risorse e capacità in grado di restituir loro dignità e speranza. Tornata a casa, ho sentito il bisogno di raccontare a quanti erano disposti ad ascoltarmi quello che avevo vissuto, non solo per il bisogno di comprendere, io stessa in primo luogo, ma perché mi sentivo un po’ in debito e responsabile per le persone che avevo conosciuto e che, generosamente vincendo i loro mille quotidiani problemi, mi avevano accolto "tra loro". Per il momento, mi sembrava di poterle aiutare solo facendo conoscere la loro reale situazione.
Giulia Perin
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