Genitori detenuti e figli

 

Alla Giudecca sono state le donne questa volta

a prendere la parola e i politici hanno ascoltato

 

Una festa delle donne con i loro bambini, ma anche un’occasione per parlare del rapporto tra madri detenute e figli

 

Non c’era stata festa della mamma, quest’anno nel carcere della Giudecca: troppe divisioni tra donne con figli e donne senza, tra donne con i figli vicini e straniere che i figli fanno fatica anche solo a sentirli al telefono. Così, si è deciso di fare qualcosa di diverso: una giornata dedicata al tema del rapporto genitori detenuti-figli, con molti ospiti nella mattinata, dedicata alla discussione, e poi un pranzo delle donne con i figli e uno spettacolo dedicato ai "bambini della Giudecca", quelli che in carcere ci vivono (undici, in questi giorni) e quelli che sono entrati per incontrare le madri non nella solita, scarna ora di colloquio, ma con tempi e modalità diversi.

È stata davvero una "giornata particolare", anche perché gli ospiti, politici, magistrati, operatori sociali, si sono messi in una posizione di ascolto, e le donne hanno raccontato le loro esigenze, le loro angosce, quello che vorrebbero per cambiare la loro condizione in carcere.

 

Quando le donne decidono di prendere in mano il proprio destino

 

Anche imparare a parlare dei propri problemi in prima persona, senza delegare nessuno, può essere un primo passo importante per sentirsi un po’ più libere: e lo è stato, il 10 settembre alla Giudecca, quando Emilia, Patrizia e Svetlana hanno spiegato al pubblico quali sono le richieste delle donne detenute per vivere in modo meno traumatico la separazione dai figli:

la possibilità di incontrare i loro bambini in colloqui domenicali (ma anche il sabato andrebbe bene) di tre ore, preparando loro il pranzo e poi mangiando insieme, per ricostruire in qualche modo un clima più sereno e più simile a una giornata in famiglia;

uno sportello per le famiglie, che sia un valido sostegno per i famigliari dei detenuti, di solito totalmente abbandonati a se stessi;

la presenza dei mediatori culturali per le donne straniere, che spesso, al trauma dell’arresto in un paese "ostile", devono aggiungere quello di non avere nessuno che le aiuti ad occuparsi, anche dal carcere, dei propri figli;

la disponibilità di posti in case di accoglienza per le donne, che potrebbero usufruire di misure alternative e non hanno un luogo in cui andare a vivere.

"Abbandonato il versante del pianto, quello che ho sentito è ragionevole e meritevole di attenzione"

 

È vero, questa osservazione, fatta dal Presidente del Tribunale di Sorveglianza, dottor Dragone, dopo l’intervento delle detenute, ha colto, senza mezzi termini, la novità della situazione: niente lamentele o accuse generiche, da parte delle donne della Giudecca, ma richieste precise, mirate, fatte con la consapevolezza di conoscere il problema ed essere in grado di suggerire delle soluzioni.

La mancanza di strutture denunciata dalle detenute, ha ribadito il magistrato, è reale, ed è per questo motivo che "anche la legge Simeone-Saraceni in tutta Italia non è decollata". Così come è reale la difficoltà ad avere informazioni sulla propria condizione, per cui ben venga uno sportello, che sarebbe utile anche per sgombrare il campo da richieste ingiustificate e aiutare a presentare invece in modo più efficace quelle motivate.

 

Individuare un percorso di accompagnamento individuale nel periodo della separazione dai figli

 

È quello che fa l’associazione Bambini senza sbarre a San Vittore. Di questa esperienza ha parlato Lia Sacerdote, spiegando il tipo di attività svolta nel carcere milanese da volontari, che sono tutti professionisti nel campo psicopedagogico. Un volontariato più professionale, dunque, che organizza, sui temi dell’assunzione di responsabilità del genitore detenuto, riunioni mensili collettive alle quali intervengono magistrati, operatori, responsabili dei Servizi Sociali del Comune, e poi ancora colloqui individuali e uno sportello legale, con la presenza di un avvocato specializzato in problemi dei minori.

Il fatto è che il carcere fa emergere con drammaticità il problema della separazione dai figli, ed è importante quindi, su questo tema, attivare un cambiamento culturale, in modo che anche gli operatori riflettano e superino la diffidenza che c’è rispetto all’esercizio del ruolo di genitore da parte delle persone incarcerate. "Su questo non ci devono essere dubbi", ha detto Lia Sacerdote, "il figlio ha bisogno di mantenere il rapporto col genitore, a prescindere da che genitore sia".

 

Mettere intorno a un tavolo quelle realtà che si occupano di carcere, ma spesso non sono capaci di lavorare insieme

 

Il primo politico a iniziare a rispondere alle detenute è stato Beppe Caccia, Assessore alle Politiche sociali del Comune di Venezia. "Pensare lo sportello significa, per esempio", ha detto Caccia, "mettere in rete competenze che già ci sono, compresi i mediatori culturali, e far lavorare insieme tutte le realtà che operano in questo campo, ma spesso non sanno coordinarsi. L’approccio deve essere che, come si eroga un servizio in un quartiere, allo stesso modo questi servizi vanno forniti dentro quel particolare pezzo di città, che sono le carceri. Non bastano i concerti, gli spettacoli teatrali, i laboratori di creatività organizzati dal Comune in carcere investendo molte risorse, bisogna dare più servizi e rispondere con più efficacia alle richieste di informazioni qualificate e strutture adeguate, fatte dalle detenute".

 

"Mi congratulo con le donne che hanno posto qui un problema intimo, di cui so che hanno difficoltà a parlare"

 

A congratularsi è stata la direttrice delle carceri veneziane, Gabriella Straffi, per questa concreta richiesta delle donne di essere aiutate a gestire il rapporto coi propri figli, dovendo stare in carcere. Ma per un compito così complesso occorre anche un volontariato diverso, delle persone che, supportate dalle istituzioni, possano dare un sostegno nella gestione di questo tipo di rapporto.

Per quel che riguarda la proposta di questi "incontri lunghi" con i figli, con la possibilità di pranzare insieme a loro spezzando la rigidità del colloquio tradizionale, secondo la direttrice è realizzabile, alla Giudecca si può fare, ci sono spazi enormi utilizzati solo in minima parte. Così come si può fare lo sportello, anche perché l’attesa delle risposte alle proprie richieste costituisce per le detenute una delle situazioni di ansia maggiore: le donne oggi chiedono situazioni più certe, risposte più pronte. E un primo passo potrebbe essere lo sportello sulle attività lavorative, per il quale la direzione del carcere ha già firmato un protocollo con la Provincia. A ribadire questo impegno, ci ha pensato, durante l’incontro della Giudecca, l’Assessore provinciale allo Sport, Associazionismo, Assistenza alle persone Bruno Moretto.

 

Il diritto della madre deve essere sostenuto al massimo

 

"È fondamentale restituire i bambini alla loro situazione d’origine, alla famiglia. Anche nei casi più difficili che passano da noi, alla Pietà, almeno il 50% riusciamo a ridarli alle famiglie". Anna Maria Miraglia, presidente dell’IPAB della Pietà, è partita da questa necessità di "preservare" dove possibile le famiglie dalle separazioni forzate dai figli, per spiegare poi che alla Pietà sarà presto attivo un atelier pedagogico, che si occuperà delle situazioni genitoriali più complesse, e al quale potrebbero accedere anche persone che provengono dal carcere. Per le donne che escono da una struttura protetta, saranno poi ristrutturati a breve 2 appartamenti, da mettere a disposizione loro e dei loro bambini per una accoglienza che duri due anni e permetta loro di cercare serenamente una sistemazione dignitosa.

Dopo la Miraglia, sono intervenuti i presidenti di altre IPAB (Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza), ribadendo la loro disponibilità a impegnarsi anche sul terreno dei minori disagiati e dei genitori detenuti.

 

L’assistente sociale ruba i nostri bambini?

 

Qualcuno lo ha scritto provocatoriamente, ha riferito Chiara Ghetti, direttrice del CSSA di Venezia (Centro Servizi Sociali Adulti), ed è per evitare equivoci e paure di questo tipo che è importante spiegare come opera in realtà questa struttura, che tiene il collegamento tra il "dentro" del carcere e il fuori della società, aiutando le persone detenute a ricostruire i loro legami sociali e affettivi: "Per quel che riguarda le modalità con le quali stiamo lavorando sulla relazione donne detenute - figli", ha detto la Ghetti, "noi riteniamo che si debba tenere distinte le cause che hanno portato a una condanna dalla possibilità di essere una madre brava e capace di occuparsi dei propri figli".

È necessario comunque che si crei un clima di maggior fiducia, e le donne prendano il coraggio di dire i propri problemi, altrimenti il rischio è che ci si trovi sempre ad affrontare situazioni di emergenza, perché si è aspettato l’ultimo momento a chiedere aiuto.

 

Le richieste, le risposte, gli impegni presi sono stati "suggellati" da un pranzo, preparato dalle detenute in questa mescolanza di tradizioni e piatti tipici, che, pur nelle difficoltà della convivenza forzata che il carcere impone, è un elemento di confronto e di ricchezza.

La prossima tappa sarà questo "tavolo di discussione": la nostra proposta è che sia organizzato in carcere, per dar modo alle donne della Giudecca di partecipare e intervenire, e di non dover, come sempre, delegare ad altri la soluzione dei propri problemi.

 

A cura della redazione della Giudecca

 

 

Quanto conta per una donna detenuta essere lei a difendere, in prima persona, il suo diritto a mantenere vivo il rapporto con la famiglia e con i figli

 

Il 10 settembre sarebbe stato un lunedì come un altro all’interno di un carcere, apertura del blindo, lavoranti pronte per recarsi alle proprie attività, terapia, posta etc. etc., se non fosse che quel giorno c’era una novità, un incontro molto importante per noi detenute, perché ci siamo attivate in prima persona per esporre le nostre esigenze, difendere i nostri rapporti affettivi e aiutare le straniere ad affrontare le difficoltà che hanno a incontrare i famigliari.

In redazione ci siamo documentate su cosa è stato fatto finora in Italia e cosa si potrebbe fare su questi temi, quali sono le Associazioni e gli Enti che si occupano e sostengono i detenuti, i loro figli e le loro famiglie. Famiglie che si ritrovano a dover vivere il disagio, la sofferenza e le difficoltà burocratiche e giuridiche che nascono, nel momento stesso in cui un componente del nucleo famigliare finisce in carcere.

Ne abbiamo parlato molto, nei nostri incontri settimanali, tirando fuori anche disagi e sofferenze personali, alle volte ne discutiamo davvero con le lacrime agli occhi, ma è necessario farlo se vogliamo raggiungere degli obiettivi. Da questi sfoghi sono sorte domande e dubbi e voglia di sapere: sapere, per esempio, cosa ci può offrire Venezia (oggi e in futuro), città che nostro malgrado ci ospita, e cosa si potrebbe fare di concreto anche qui per risolvere i problemi che coinvolgono, oltre a noi, anche i nostri cari che ci seguono nelle nostre vicende.

Così è nata in noi la necessità di saperne di più, e poi l’idea di organizzare un convegno con la partecipazione di persone competenti a dare risposte alle nostre domande.

Con molta emozione, ma anche con coraggio e determinazione, noi della redazione, a nome di tutte le compagne, abbiamo fatto sentire la nostra voce per far capire quanto è importante essere informati e quanto conta imparare a occuparsi in prima persona del rapporto con i famigliari, soprattutto con i figli (senza esclusione di età, qualche volta sembra che i figli maggiorenni non abbiano più diritti…) e mantenere con loro un legame costante durante la pena e dopo, a fine pena.

 

Cosa ci ha dato questo incontro

 

Per noi è stata la prima volta, trovarci davanti a persone che hanno un importante ruolo istituzionale non è facile, soprattutto se si deve parlare in pubblico. Sapevamo di essere preparate ma l’emozione era grande, e però avevamo la consapevolezza di doverlo fare per noi stesse e per tutti quei detenuti/te che non hanno questa opportunità. Solo nel momento in cui hanno preso la parola gli invitati e hanno cominciato a rispondere con chiarezza alle domande e alle proposte fatte, abbiamo capito che l’obiettivo, a cui volevamo arrivare, era stato recepito, i complimenti e le strette di mano ricevuti ci hanno dato coraggio e tanta voglia per fare di più.

 

 

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