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Aveva dichiarato di chiamarsi con un nome diverso e ora la madre non riesce a riavere il corpo
L’Unione Sarda, 2 dicembre 2003
Forse sperava di trovare la pace impiccandosi in quella cella, cupa a dispetto dei muri colorati, del carcere di Iglesias. Ma Miguel Chavez, 22 anni, cileno, si sbagliava. Neppure la morte è riuscita a restituirli la serenità perduta, a regalargli quella tranquillità negata da un’esistenza fatta di disperazione e qualche errore. Perché il corpo del giovane cileno, nonostante siano trascorsi venti giorni da quando il suo cuore si è arreso, si trova ancora nell’obitorio dell’ospedale Santa Barbara. Chiuso dentro una cella frigorifera, in attesa di sepoltura. Una vicenda ai limiti dell’assurdo, ma reale. Realissima. Colpa della burocrazia, di documenti che ancora mancherebbero per dare un nome certo, un’identità sicura a quel corpo. Miguel Chavez, infatti, non è il vero nome del ragazzo. L’aveva scelto, sostituendolo al suo, quando era arrivato in Italia. I problemi sono sorti dopo la sua morte, avvenuta il 13 novembre. Due giorni dopo, a Iglesias è arrivata la madre del giovane che, identificando il figlio, ha svelato il vero nome. Così sono cominciati i problemi per l’identificazione, la richiesta di documenti che attestassero i reali dati anagrafici. Il riconoscimento della madre non bastava. La donna era arrivata direttamente dal Cile assieme alla fidanzata del ragazzo, grazie a una colletta organizzata da alcuni amici di Genova: nel capoluogo ligure Miguel si era stabilito dal suo arrivo in Italia, sei anni fa, e lì aveva cercato di costruirsi una nuova vita con la fidanzata. Contava di costruirsi una famiglia. Ma le cose non sono andate come sperava. Dopo l’arresto per piccoli reati e una breve detenzione nel carcere di Marassi, è stato deciso il suo trasferimento. "Per ragioni di sovraffollamento", era stata la motivazione. Destinazione: Iglesias. Lontano dalla fidanzata, dagli amici. Troppo lontano per poter usufruire dei colloqui settimanali, di quelle brevi chiacchierate che servivano a farlo sentire meno solo. E forse proprio perché privato di queste occasioni il carcere alla periferia di Iglesias (80 i reclusi a dispetto dei 60 previsti e dove pochi giorni fa la commissione Diritti civili ha fatto un’ispezione) è diventato il suo capolinea. Lì ha deciso di farla finita, scegliendo la strada più dolorosa che, pochi giorni prima, aveva percorso anche un detenuto di Arbus. Quindici giorni di agonia nel reparto rianimazione del Santa Barbara, poi il decesso. Che non ha ancora posto fine alle sue pene. "Una vicenda difficile da commentare - dice Nazareno Pacifico, consigliere regionale Ds che fa parte della commissione Diritti civili - ai confini dell’umanità, mi sembra davvero inspiegabile". Lo è anche per don Salvatore Benizzi, per tanti anni cappellano del carcere: "Prima di lasciare l’incarico ho avuto modo di conoscere il ragazzo, di scambiare qualche parola. Devo dire che mi era sembrata una persona triste, molto chiusa". La vicenda del giovane cileno ha suscitato molta commozione, tanto che alcuni gruppi di volontari si sono mobilitati per dare un sostegno ai parenti. La Caritas e il cappellano del carcere stanno organizzando una colletta per fare in modo che, non appena arriverà il via libera, si possa contribuire al trasporto della salma fino a Genova. Saranno, poi, gli amici che il giovane ha lasciato nel capoluogo ligure a fare in modo che Miguel possa compiere l’ultimo tragitto per ritornare in Cile. In quella terra lasciata qualche anno fa per trasferirsi in Italia. In cerca di fortuna.
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