Suicidio
in carcere: indaga la Procura
La tragedia sei mesi fa.
Avviata la causa civile contro il Ministero
La
Provincia Pavese, 16 novembre 2002
Il ministero della Giustizia deve pagare i danni per la morte in cella di Miguel
Bosco, il nomade che si tolse la vita il 27 maggio dopo essere stato arrestato.
A chiederlo sono i famigliari, assistiti dall'avvocato Fabrizio Gnocchi, che
hanno citato in giudizio il ministero. Nel frattempo prosegue l'inchiesta
penale, che era stata avviata dal sostituto procuratore Vincenzo Calia:
l'ipotesi di reato è quella di istigazione al suicidio. Si procede contro
ignoti.
A questo proposito c'è da notare come la consulenza tecnica di parte, redatta
da Paola Borlotti Carraro del Dipartimento di medicina legale, non abbia
individuato elementi che possano fare ipotizzare l'istigazione al suicidio. Ma
ciò che viene contestato dalla famiglia è la mancata sorveglianza nel carcere
di Torre del Gallo su una persona come Miguel Bosco, che nelle ore precedenti al
suicidio aveva manifestato in maniera chiara l'intenzione di togliersi la vita.
Per capire i motivi di questa convinzione che la famiglia si è fatta bisogna
tornare alla cronaca di quanto successe alla fine di maggio.
Il promeriggio del 26 - è una domenica - Miguel Bosco viene arrestato per il
furto di un motorino alla frazione Rotta di Travacò Siccomario. Bosco, un
nomade trentenne che vive nel campo di via Bramante, viene portato in carcere.
Ma subito dà segni di insofferenza e ansia. Appare nervoso e aggressivo, e
arriva al punto di tentare di strangolarsi con i lacci delle scarpe. Il pronto
intervento di un agente di custodia, però, sventa il suicidio.
Ma dopo la visita di ingresso il medico di guardia prescrive un'attenta
sorveglianza sul giovane. Miguel Bosco soffre di crisi depressive, tanto che la
madre subito dopo l'incarcerazione va a portargli dei farmaci.
Bosco resisterà in cella per meno di ventiquattr'ore. Alle 11.15 del giorno
dopo un agente di polizia penitenziaria lo trova esanime nel bagno. Chiama
subito i soccorsi, ma anche l'intervento dei medici del 118 non riesce a
strappare il giovane alla morte. Alle 12.20 viene constatato il decesso
dell'uomo. In una tasca viene anche ritrovato un foglio sul quale il giovane
spiega i motivi del gesto.
Scatta l'inchiesta della magistratura, come consulente d'ufficio viene nominato
Luca Tajana. Il quale, nella sua relazione, scrive che la morte è dovuta ad
avvelenamento per l'inalazione di gas tossico: Bosco si è tolto la vita usando
la bomboletta di gas (come quelle da campeggio) che viene consegnata a tutti i
detenuti per cucinare.
Il fatto che sia stata lasciata una bomboletta di gas nella cella di una persona
che aveva manifestato istinti suicidi è uno degli elementi che agli occhi della
famiglia avvalorano la tesi della mancata sorveglianza. Secondo l'avvocato
Fabrizio Gnocchi, Bosco avrebbe potuto essere sistemato nell'infermeria o
comunque in una sezione del carcere sottoposta a un controllo più rigido.
Di qui l'accusa di omesso controllo e la decisione di citare in tribunale
l'amministrazione penitenziaria e quindi il ministero della Giustizia. L'atto di
citazione verrà depositato nei prossimi giorni. «I genitori di Manuel Bosco
chiedono che sia fatta luce sulla morte del figlio - dice l'avvocato Gnocchi -
il fenomeno dei suicidi è uno dei drammi delle nostre carceri sovraffollate.
Bisognerebbe fare uno sforzo per ridurre la popolazione dei detenuti e dare
molti più mezzi a chi lavora in carcere».