Sofri
è diventato il capro espiatorio del ‘68
Intervista
a Sergio Segio a cura di di Dimitri Buffa
L’Opinione,
8 aprile 2004
Sergio
Segio è stato negli anni ’70 uno dei capi militari di Prima Linea e come tale
è stato ritenuto responsabile di svariati omicidi. Scontata buona parte della
pena ha cambiato vita dopo essersi dissociato dalla lotta armata. Oggi lavora
con Don Ciotti nelle comunità di recupero per tossicodipendenti che fanno capo
a questo benemerito sacerdote dalle idee laiche e aperte, una vera perla rara
nel mondo dell’associazionismo e del volontariato oggi più che mai teso a
legare l’asino dove vuole il padrone o il padrino politico. Segio ci parla del
caso Sofri e degli errori delle sinistra che forse hanno contribuito a
determinare l’attuale fase di stallo.
Anche
Giuliano Amato dalla convention dei Radicali Italiani ha detto che Ciampi può,
se vuole, firmare autonomamente la domanda di grazia ad Adriano Sofri. A questo
punto esiste un caso Ciampi oltre a un caso Sofri?
Forse esiste un caso Castelli. Nel
senso che la drammatizzazione e la pervicace volontà di non arrivare a una
soluzione di questa vicenda, nasce dall’atteggiamento interdittivo e
oltranzista che, da subito, il Guardasigilli ha avuto sia nella specifica
vicenda, sia in generale nella gestione politico-amministrativa della delicata
(e, anche in ragione di ciò, sempre più esplosiva) questione penitenziaria.
Come dimenticare, ad esempio, i ripetuti attacchi del ministro al Regolamento
penitenziario, approvato nel 2000? L’applicazione del Regolamento costituisce
un dovere istituzionale e un obbligo di legalità, non un’opzione sottoposta a
discrezione. Esattamente come la controfirma di un provvedimento di grazia, ai
sensi dell’articolo 681 del codice di procedura penale, come ha ribadito
Giuliano Amato dal congresso radicale. È comprensibile il tentativo del
Quirinale di non essere trascinato in un rischio di conflitto istituzionale. Ma,
allo stato delle cose, credo che sia inevitabile una coerente presa di posizione
da parte del capo dello Stato, auspicabilmente nel senso di una assunzione di
responsabilità autonoma circa quel "potere-dovere del Presidente della
Repubblica in tema di esercizio dell’istituto della grazia", per come lo
ha definito Marco Pannella, nel preannunciare un proprio sciopero della sete
"per soddisfare la sete urgente di legalità e di dignità impostaci dalle
ferite sempre più gravi alla realtà del diritto, della legge, della
Costituzione". Ha ragione Pannella: "Non c’è più tempo da perdere,
poiché se ne è dissipato oltre il tollerabile". Questo, mi permetto di
dire, per quanto riguarda la sfera penal-penitenziaria, vale non solo sulla
vicenda Sofri, ma su un generale degrado di legalità e di umanità
dell’intero sistema, di cui fanno quotidianamente le spese migliaia di
persone.
Non
si può non vedere quanto la campagna pro Sofri della cosiddetta lobby dei suoi
amici, dentro e fuori da Lc, abbia finito più che altro per dare la sbagliata
impressione di un detenuto privilegiato. Creando ingiuste antipatie a Sofri in
quanto tale. Che autocritica dovrebbero fare i diretti interessati?
Io non vorrei che il demone della
litigiosità autolesionistica, così tipico della sinistra, contagiasse anche il
garantismo e quanti sono attenti e impegnati attorno a un discorso di umanità,
vigilanza sulla, e riforma della, situazione delle carceri. Questo perché la
lotta è già impari e- come anche questa singola vicenda dimostra -
probabilmente impossibilitata a conseguire risultati apprezzabili, stante la
vastità, e trasversalità, di uno schieramento politico e parlamentare che
esprime una logica di fondo rancorosa, per non dire forcaiola. Improntata cioè
all’uso strumentale della questione sicurezza, a cinici calcoli
elettoralistici sulle paure sociali e, in definitiva, a quel gioco di specchi
tra (ir)responsabilità politica e opinione pubblica che produce culture
autoritarie e che ha determinato, anche, una situazione carceraria gravissima.
Detto questo, io sono sempre stato scettico sulla reale estensibilità delle
campagne ad personam - una pratica in effetti cara e tradizionale specialmente a
sinistra - ai fini di riforma reale e generale. Ciò non toglie che Adriano
Sofri, lungi dall’essere un detenuto privilegiato, sia diventato in questi
anni una sorta di capro espiatorio e sacrificale delle lacerazioni degli anni
Sessanta e Settanta.
Il
revanchismo fascista o post missino non fa mistero di volere punire Sofri per la
sua presunta spocchia intellettuale (in realtà per vendicarsi di lui che ogni
giorno mette in risalto con i propri scritti la pochezza del pensiero post
missino, per certi versi molto simile a quello dell’attuale massimalismo
no-global). Perché non si può pensare a lui come a un povero innocente che
subisce una sorte terribile? Perché una maggioranza che dubita delle parole dei
pentiti quando riguardano il suo premier o i suoi amici nutre poi granitiche
certezze sulla parola di Leonardo Marino?
Proprio per il sovraccarico simbolico
che grava su Adriano, ma, va detto, anche su altri detenuti per i cosiddetti
"anni di piombo". Credo sia ormai un tratto tipico della politica, e
non solo di quella post-missina, il disancoramento dai contenuti e l’incapacità
di conferire, o riconsegnare, alla responsabilità politica la sua funzione
primaria di governo della realtà e dei suoi conflitti, di risoluzione delle
contraddizioni e delle lacerazioni, di capacità progettuale e dunque in grado
anche di prescindere dal rendiconto - reale o presunto - immediato. Se ogni cosa
diviene semplicemente pretesto e occasione per misurare, ricontrattare o
alterare rapporti di forza interni o esterni alle coalizioni, alla fine diventa
falsata la percezione stessa della realtà e dei suoi problemi. Una politica che
ha fatto del populismo - di destra o di sinistra poco cambia - la sua tonalità
più forte, inevitabilmente rimane, come è rimasta, imprigionata nella camicia
di forza di un condizionamento da un’opinione pubblica conosciuta e misurata
solo attraverso il metro del sondaggio. Ma i cittadini, compresi i propri
elettori, sono qualcosa di più e di diverso dall’opinione supposta comune.
Anche la questione dei "pentiti", ovverossia la nobilitazione che se
ne è fatta sin dal nome in questi 20 anni, è diventata una camicia di forza
per la politica. Un’arma contundente che non consente più una libertà di
giudizio sul caso specifico. Io, e veramente ritengo di dirlo con onestà
intellettuale e non pro domo mea, avendo appena finito di scontare per intero la
mia condanna e dunque non avendo più interessi personali da difendere o
benefici da attendermi, credo che questo paese viva ancora nelle sue dinamiche
politiche e istituzionali il riflesso e l’onda lunga di quelle lacerazioni,
storture, disequilibrio tra poteri che data dagli anni Settanta, introdotti
dalla "madre di tutte le emergenze", vale a dire dalla legislazione
speciale antiterrorismo, leggi sui pentiti comprese, e, ancora di più, dalla
cultura del sostanzialismo giudirico che, da allora, ha avvelenato anche i
rapporti istituzionali e aperto un vulnus non più rimarginato nello Stato di
diritto.
Punire
i drogati, soprattutto chi fuma spinelli, è diventato un altro imperativo
categorico di questa maggioranza una sorta di richiamo della foresta. Perché
secondo lei?
Perché, appunto, non c’è fine
all’avvitamento autoritario che ha fatto del carcere e delle manette un
valore, anziché una, talvolta necessitata ma pur sempre dura e disumana,
necessità. Così come per la politica, anche sul piano dei comportamenti
sociali, il carcere e la sanzione penale vengono visti e utilizzati per colpire
e punire l’avversario, il diverso da sé, l’appartenente a gruppi sociali e
culture che si reputano distanti. Non è un caso che, nella legge presentata e
fortemente voluta da Fini, sia prevista una tolleranza maggiore, o per meglio
dire un’intolleranza minore, nei confronti della cocaina che non dello
spinello. Però, ripeto, questa vocazione autoritaria, questo richiamo della
foresta, non riguarda esclusivamente il partito post-fascista. Percorre gli
umori e si riflette nei provvedimenti legislativi di questa, come delle
precedenti maggioranze di governo. Sia nell’ispirazione che negli effetti, la
proposta Fini non è molto dissimile dalla legge del 1990, cosiddetta
Iervolino-Vassalli. Così come la legge Bossi-Fini sugli immigrati nasce
nell’alveo della Turco-Napolitano.
Che
faranno le comunità non omologate al proibizionismo, come quella di Don Ciotti
dove lei lavora, per contrastare questo folle progetto?
Per contrastare la legge
Iervolino-Vassalli nel 1990 si costituì un ampio cartello di forze sociali,
associazioni e comunità terapeutiche dal nome programmatico: "Educare, non
punire". Passata la legge, il cartello si impegnò poi attivamente nel
referendum abrogativo promosso dal Cora dei radicali di Marco Pannella che, nel
1993, abrogò le parti più odiose e repressive della legge, che sono proprio
quelle che Fini vorrebbe ora riesumare. In questi mesi stiamo cercando di
attivare un percorso analogo. Si è già costituito infatti un coordinamento di
forze, a partire dal Coordinamento nazionale comunità di accoglienza, attorno
al documento "Non incarcerate il nostro crescere. Educare non punire, per
una politica dell’ascolto".
Da
ex terrorista si è mai chiesto perché lo Stato, a parte la retorica
istituzionale, così poco ha fatto per le vittime degli anni di piombo e i
parenti e i familiari, salvo dare loro in pasto i colpevoli, anche quando solo
presunti?
Credo per lo stesso motivo per il quale
non ha mai attivato o favorito percorsi di vero superamento e di riconciliazione
rispetto a quegli anni e alla ferite indubbiamente e dolorosamente aperte. Il
superamento, infatti, non può contentarsi della vittoria militare e
dell’imperfetta aritmetica giudiziaria, non può contentarsi di carceri,
"pentiti", di simbolici capri espiatori, da un lato, e, dall’altro,
di una distratta e infastidita considerazione per le vittime e i loro
famigliari; ancora nel febbraio scorso, ad esempio, l’iter di una proposta di
legge per adeguare i risarcimenti economici alle vittime è stato bloccato per
mancanza di copertura finanziaria. Abbisognerebbe di qualcosa di più e di
profondamente diverso. Pur evitando paragoni impropri, credo vi sarebbe bisogno
di qualcosa di simile a quel "tribunale per la verità e la
riconciliazione" che ha operato in Sudafrica dopo la fine dell’apartheid.
E, in ogni caso, di una volontà culturale di mettere nella pattumiera della
politica la violenza e l’odio ideologico, l’uso distorto e di parte della
memoria, della storia così come della macchina giudiziaria. Anziché aizzare
coscienze contro coscienze, verità contro verità, sofferenze contro sofferenze
e pur senza voler mettere in discussione torti e ragioni (indubitabilmente, la
lotta armata degli anni Settanta fu un luttuoso errore, oltre che una
sconfitta), occorre prendere atto che quegli anni furono una tragedia da ambo i
lati. In Italia c’è un passato che non passa. E questo avviene anche per la
scarsa lungimiranza delle forze politiche. Il passaggio tra Prima e Seconda
Repubblica è stata un’occasione perduta, da questo punto di vista. Anche
perché, della vecchia classe dirigente, il solo Francesco Cossiga ha avuto il
coraggio e la lucidità di interventi sinceri e analisi acute circa quegli anni.
Che
ne pensa ad esempio del caso Mambro-Fioravanti rispetto alla strage della
stazione di Bologna e del prendere le distanze dalle loro ragioni in materia da
parte degli esponenti della destra istituzionale?
Penso che anche su di loro pesi un
sovraccarico simbolico, oltre che l’atteggiamento tartufesco della destra
istituzionale. Poco tempo fa, Paolo Mieli, auspicando un’amnistia "per i
rossi e per i neri", aggiungeva la speranza che da sinistra si sappia farsi
carico del "destino dei loro dirimpettai di destra ancora
incarcerati". Di più, Mieli in quell’occasione ha affermato: "Non
credo che chiunque da giovane abbia militato nella sinistra o nella destra
extraparlamentare, anche se non ha avuto niente a che fare col terrorismo, possa
sentirsi completamente innocente per quel che accadde. Tutti. Me compreso".
Questa affermazione, oltre che generosa, è molto vera. Ma fa parte di quelle
verità che pochissimi hanno il coraggio di dire e ricordare e quasi nessuno
vuole sentire. Forse, specie a destra, proprio per quel tremendo, ancora
insoluto e impunito, capitolo dello stragismo che ha insanguinato l’Italia e
avvitato, se non avviato, la storia degli anni Settanta e la degenerazione
terroristica.
Si
parla di riappacificazione generale e di amnistia per tutti i fuoriusciti degli
anni '70 ma non si riesce a fare niente. Quanta colpa hanno gli stessi reduci
nel loro presenzialismo mediatico politico e nel volere a tutti i costi
rivendicare un'identità di lotta impossibile oltre che francamente
anacronistica?
Condivido pienamente quanto ha scritto
recentemente Luca Sofri: "I peggiori danni a una discussione sensata
sull’inutile e prepotente detenzione degli ex terroristi italiani li hanno
fatti Battisti e i suoi difensori più accesi". Ogni volta che Scalzone
rilascia un’intervista si riducono le possibilità e il consenso a un
provvedimento di indulto per quegli anni. Provvedimento che, a mio parere, è
necessario. Prima ancora che per i "fuoriusciti", per coloro che
ancora e ininterrottamente sono detenuti per le vicende di quegli anni. Con
alcuni casi che dovrebbero scuotere: come quello del brigatista Maurizio
Ferrari, in carcere esattamente da 30 anni, peraltro senza aver responsabilità
in fatti di sangue. O quello di Bruno Seghetti, l’unico Br tra i tanti
condannati per il sequestro e l’omicidio Moro a essere ancora in carcere.
Detto ciò, non credo che il problema sia un presenzialismo mediatico degli ex:
semmai e all’opposto, troppi di loro trovano comodo rimanere in silenzio e
mantenere un’ambiguità di giudizio su quegli anni e sulle proprie
responsabilità, coltivando così appunto un reducismo che, tanto per cambiare,
potrebbe contribuire ad avvelenare le culture e i riferimenti dei giovani di
oggi e contribuire a mistificare la memoria anche riguardo ai nuovi movimenti
sociali.
Lei
ha mai commesso reati di sangue e se sì che rapporti è riuscito ad instaurare
con le sue vittime quando si è dissociato dal terrorismo?
Io sono stato condannato, e ho ammesso
di aver compiuto alcuni omicidi politici, cioè di aver ucciso persone che
consideravo nemiche. Da molto tempo ritengo che quegli omicidi (e la stessa
logica di nemicità che ce li aveva fatti intendere come atti di giustizia)
siano stati un fatto aberrante, così come aberrante era la cultura che li ha
prodotti e resi possibili. C’è, infatti, un nesso di causa-effetto evidente,
innegabile (ma indicibile, proprio per l’ipocrisia e la logica delle
"doppie verità" che ancora inquina il pensiero della sinistra) tra
culture violente e pratiche violente. Ammettere le proprie responsabilità
(senza scaricarle sugli altri come hanno fatto con logica
"cannibalesca" i pentiti e senza negarle, come hanno fatto molti
"fuoriusciti", con logica opportunistica e con il medesimo effetto
oggettivo di scaricarle su chi era in carcere) e operare per una cultura
diversa, che non renda più possibili quelle aberrazioni, mi sembra moralmente
doveroso, oltre che un fatto di risarcimento sociale e di onestà intellettuale.
Ed è il senso della mia dissociazione. Un risarcimento che ha soprattutto
valenze sociali e culturali, perché il dolore dei singoli è irrisarcibile; un
rammarico che ho tentato di comunicare anche ai famigliari delle vittime, in
alcuni casi riuscendovi.
Che
direbbe ai ragazzi di oggi che hanno ancora i miti terzomondisti degli anni '70
e che pure di essere antiamericani, antisraeliani e antioccidentali marciano
"per la pace" inneggiando ai kamikaze palestinesi o al terrorismo
iracheno?
Naturalmente, non ho alcun titolo né
velleità di mettermi in cattedra rispetto ai giovani che partecipano agli
attuali movimenti. Certamente è però vero che in questi movimenti non vi sono
solo giovani, effettivamente abbastanza al riparo da suggestioni e miti del
passato, forse neppure per scelta quanto per quella malattia sociale che è
diventata l’assenza di memoria. Come ho già avuto occasione di dire,
riscuotendo numerosi insulti e minacce da parte di Cobas e disobbedienti e
altrettanti silenzi imbarazzati o prese di posizione ambigue e reticenti a
sinistra, in questi movimenti sono presenti anche pezzi, culture e talvolta
personaggi decisamente meno nuovi e meno vaccinati - anzi! - rispetto alle
logiche della violenza politica e dell’odio ideologico. Odio e logiche che
sono appunto quelle che ispirano i sentimenti aprioristici sugli USA e su
Israele o addirittura le simpatie dichiarate verso i kamikaze e il terrorismo
stragista iraqeno.
Lei
è stato contro o a favore dell'intervento armato prima in Afghanistan e poi in
Iraq? Come ha vissuto l’11 settembre e poi l’11 marzo?
Io sono convinto che la guerra (proprio
come il carcere) sia un male, non un rimedio, crea più problemi, ingiustizie e
sofferenze di quanti pretenda di risolverne o di sanarne. E francamente mi pare
che l’attuale situazione iraqena testimoni di un aggravamento del problema,
dopo la scelta dei bombardamenti e dell’occupazione, nonché di un quadro
internazionale di maggior preoccupazione e squilibrio. Dunque non ho approvato
gli interventi militari. Ciò detto, sono anche convinto che le questioni siano
complesse e che, rispetto a esse, sia sempre salutare esercitare il dubbio, il
metodo dei "se" e dei "ma". Proprio perché non si può
semplificare tutto e dividere il mondo e le persone in modo manicheo tra il
buono e il cattivo, il bene e il male assoluti, che è peraltro una delle radici
che sono state alla base della mia scelta armata 30 anni fa. Vi è da dire che
anche l’Amministrazione Bush mi pare si sia appiattiva in questa logica,
laddove, e pur reattivamente, teorizza la guerra infinita e il male assoluto del
terrorismo. Il quale - ed è esattamente quanto ho pensato dopo l’11 settembre
e l’11 marzo, oltre al sentimento di indignazione e di solidarietà per le
vittime e i Paesi colpiti - è invece, non tanto "il male" quanto più
concretamente e laicamente il sanguinoso maggior pericolo che il pianeta sta
vivendo, l’avversario principale e prioritario che la comunità mondiale si
deve attrezzare a contrastare e disarmare. Laddove, e di nuovo, credo che il
piano vero e lungimirante con cui questa priorità va affrontata non sia però
quello militare. Né tanto meno quello della barbarie di Guantanamo. Che non può
essere messa sullo stesso piano del terrorismo o dei kamikaze, come alcuni
ipocritamente e ambiguamente fanno, ma che comunque è una barbarie che va
criticata e contrastata, proprio per salvaguardare e ribadire la superiorità
della democrazia. Proprio la democrazia, la cultura dei diritti umani e civili,
è, assieme alla maggior giustizia sociale, l’arma strategicamente vincente
sul terrorismo. Per questo non ci si può permettere di infliggerle ferite o
strappi.
|