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"Morire di carcere": dossier settembre 2009 Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, episodi di overdose
Continua il monitoraggio sulle "morti di carcere", che nel mese di settembre registra 12 nuovi casi: 8 suicidi, 3 morti per malattia e 1 per cause ancora da accertare.
Malattia: 1 settembre 2009, carcere di Torino
Carlo Esposito, 41 anni, bidello astigiano, incensurato, schizofrenico, condannato alla "pena esemplare" di 2 anni e 2 mesi per resistenza a pubblico ufficiale, è deceduto lunedì sera: per infarto, si legge nel referto medico. La sua morte, però, pur per cause naturali, sta diventando un caso. Sulla vicenda del bidello astigiano è stato aperto un fascicolo dalla procura di Torino, che ha incaricato il medico legale Roberto Testi di eseguire l’autopsia. E anche il consigliere regionale di Sinistra e libertà Luca Robotti ha presentato un’interrogazione a Palazzo Lascaris e nei prossimi giorni ne seguirà forse una anche al ministro di Grazia e Giustizia. "Carlo Esposito è morto perché invece di aiutarlo e di sostenerlo è stato condannato in modo incomprensibile e sproporzionato", ha commentato Robotti. Tutto inizia il 24 giugno ad Asti, quando i carabinieri lo vedono fare manovre azzardate con la sua Panda. Esposito non si ferma all’alt della pattuglia e inizia un inseguimento a tutta velocità, tra incidenti evitati per un soffio, per venti chilometri sulla provinciale per Casale. Un comportamento pericoloso, certo. Tuttavia sarebbero bastate le prime parole del fuggitivo per capire che qualcosa nella sua mente non andava. "Dovete ringraziarmi - aveva detto ai carabinieri - Vi ho salvato la vita perché volevano farvi un attentato". Nel suo passato si registrano diversi ricoveri nel reparto psichiatrico di Asti e un Tso, anche se questo non gli aveva impedito di avere un lavoro, degli amici e una vita abbastanza regolare. Il giorno dopo Esposito viene condannato per direttissima a 26 mesi di galera senza condizionale per resistenza a pubblico ufficiale. Per un incensurato è una pena alta, esagerata forse, visto che nessuno al tribunale di Asti, né il pm Vincenzo Paone, né il giudice Cesare Proto, né il suo avvocato Michele Aufiero - poi sostituito da Maurizio La Matina - sollevano il fatto che l’uomo sia schizofrenico e nessuno invoca il vizio parziale di mente, che prevede una riduzione di pena e gli consentirebbe di godere della sospensione condizionale. Invece solo dopo il suo ingresso nel carcere astigiano di Quarto ci si chiede se la detenzione sia compatibile con lo stato di salute dell’uomo che, non solo era schizofrenico, ma anche diabetico, iperteso, obeso, oltre ad aver già avuto delle ischemie. Il medico legale sostiene però che sia sufficiente trasferirlo in una struttura dove possano controllare l’assunzione dei farmaci e ai primi di luglio Esposito entra nel reparto psichiatrico delle Vallette. Da qui ai primi di agosto invia due lettere alla madre e a un’insegnante della scuola dove lavorava dicendo di essere collassato - "Ho rischiato di morire due volte", scrive lui - perché a suo parere gli erano stati somministrati dei farmaci non idonei o a dosaggi sbagliati. Da quelle crisi si era ripreso, ma alla luce di quanto poi accaduto le lettere saranno consegnate alla procura torinese. Esposito si sente male verso le 20,30 di lunedì. Va in infermeria con le sue gambe, ma mentre il medico lo visita ha una crisi cardiaca. L’ambulanza arriva subito, ma l’uomo è troppo grave per essere portato in un ospedale: mentre i sanitari cercano di stabilizzarlo, alle 21,30 muore per arresto cardiaco. "Viste le sue condizioni di salute, è possibile che la sua morte non sia colpa di nessuno - conclude Robotti - Ma non sarebbe dovuto morire lì". (La Repubblica, 5 settembre 2009)
Radicali: nel carcere di Torino caso di ordinaria follia
Martedì primo settembre nell’infermeria del carcere torinese Lorusso-Cutugno delle Vallette è morto, per arresto cardiaco, Carlo Esposito. 41 anni, bidello dell’istituto professionale Castigliano di Asti, molto conosciuto in città. Esposito viene arrestato il 24 giugno scorso per non essersi fermato con l’auto di piccola cilindrata all’alt dei carabinieri, insospettiti da alcune manovre azzardate del conducente. È quanto si legge in un comunicato dei Radicali. Carlo Esposito, incensurato, risultava affetto da una serie lunga e grave di patologie quali: schizofrenia, diabete, ipertensione ed obesità, con un passato, certificato, di ischemie e di Tso (trattamenti sanitari obbligatori). Al Tribunale di Asti, nel celebrare, il 25 giugno, il rito per direttissima che sfocia in una condanna "esemplare" a 26 mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale, pare considerate le patologie fisiche e mentali dell’imputato. Patologie che vengono immediatamente evidenziate al carcere Quarto d’Asti, tanto che Esposito viene spostato con urgenza alle Vallette di Torino, nel reparto psichiatrico. Le cronache giornalistiche riferiscono che il detenuto avrebbe inviato lettere dal carcere torinese, denunciando che gli sarebbero stati somministrati farmaci diversi da quelli usati normalmente, non idonei o a dosaggi sbagliati, che comunque gli avevano procurato disturbi e malesseri. Oggi, la senatrice radicale Donatella Poretti ha depositato a Palazzo Madama un’interrogazione dettagliata sul caso. Donatella Poretti, senatrice Radicale/Pd e Bruno Mellano, presidente di Radicali Italiani hanno dichiarato: "Si tratta di un caso esemplare dell’ordinaria follia della giustizia italiana. Davvero un caso eloquente ed eclatante. Anche per questo, abbiamo chiesto con l’interrogazione, che il ministro della Giustizia invii i suoi ispettori per verificare la dinamica dei fatti: a noi, dalle convergenti ricostruzioni giornalistiche, sembra veramente intollerabile che un cittadino incensurato e affetto da gravi patologie certificate possa finire in carcere per resistenza a pubblico ufficiale e uscirne morto. Occorre fare chiarezza sull’episodio, non solo per verificare le singole responsabilità, ma per conoscere e capire i meccanismi infernali che governano la macchina giudiziaria italiana". (Il Velino, 10 settembre 2009)
Morto in carcere, per non essersi fermato a uno stop
Carlo Esposito aveva 41 anni, faceva il bidello ad Asti. Tutti lo conoscevano come "Carlone". È morto in galera, condannato a due anni di carcere per non essersi fermato a un alt dei carabinieri. Era incensurato e aveva problemi psichici. Lo hanno condannato a morte. Martedì 1° settembre nell’infermeria del carcere torinese "Lorusso-Cutugno" delle Vallette è morto, per arresto cardiaco, Carlo Esposito. 41 anni, bidello dell’Istituto Professionale "Castigliano" di Asti, molto conosciuto in città, Esposito viene arrestato il 24 giugno scorso per non essersi fermato con l’auto di piccola cilindrata all’alt dei carabinieri, insospettiti da alcune manovre azzardate del conducente. Carlo Esposito, incensurato, risultava affetto da una serie lunga e grave di patologie quali: schizofrenia, diabete, ipertensione ed obesità, con un passato, certificato, di ischemie e di Tso (Trattamenti Sanitari Obbligatori). Al Tribunale di Asti, nel celebrare, il 25 giugno, il rito per direttissima che sfocia in una condanna "esemplare" a 26 mesi di reclusione per resistenza a pubblico ufficiale, pare considerate le patologie fisiche e mentali dell’imputato. Patologie che vengono immediatamente evidenziate al carcere Quarto d’Asti, tanto che Esposito viene spostato con urgenza alle Vallette di Torino, nel reparto psichiatrico. Le cronache giornalistiche riferiscono che il detenuto avrebbe inviato lettere dal carcere torinese, denunciando che gli sarebbero stati somministrati farmaci diversi da quelli usati normalmente, non idonei o a dosaggi sbagliati, che comunque gli avevano procurato disturbi e malesseri. Donatella Poretti (senatrice Radicale/Pd) e Bruno Mellano (presidente di Radicali Italiani) hanno dichiarato: "Si tratta di un caso esemplare dell’ordinaria follia della giustizia italiana. Davvero un caso eloquente ed eclatante. Anche per questo, abbiamo chiesto con l’interrogazione, che il Ministro della Giustizia invii i suoi ispettori per verificare la dinamica dei fatti: a noi, dalle convergenti ricostruzioni giornalistiche, sembra veramente intollerabile che un cittadino incensurato e affetto da gravi patologie certificate possa finire in carcere per resistenza a pubblico ufficiale e uscirne morto. Occorre fare chiarezza sull’episodio, non solo per verificare le singole responsabilità, ma per conoscere e capire i meccanismi infernali che governano la macchina giudiziaria italiana". (www.cnrmedia.com, 11 settembre 2009).
Un Esposito per esempio, di Luigi Manconi e Andrea Boraschi
Il 24 giugno scorso, ad Asti, un uomo, viene notato dai Carabinieri per alcune manovre vietate a bordo di una Panda. Gli intimano l’alt, ma l’uomo non si ferma; ne nasce un inseguimento che i verbali riferiscono lungo e pericoloso, tra accelerazioni brucianti e incidenti evitati per puro caso. Finché la fuga non si interrompe; e pare che le prime parole dell’uomo all’indirizzo dei gendarmi siano state "Dovreste ringraziarmi. Vi ho salvato la vita perché volevano farvi un attentato". Il buon senso dice che poteva trattarsi di un burlone; o di una persona disturbata o alterata. L’uomo al volante era Carlo Esposito, 41 anni, bidello in una scuola di Asti. È schizofrenico e in passato è stato ricoverato più volte nel reparto psichiatrico della sua città e sottoposto a un Trattamento Sanitario Obbligatorio, una misura che consente l’imposizione di terapie a soggetti affetti da disturbi mentali. Il giorno dopo l’uomo viene condannato per direttissima a 26 mesi di galera per resistenza a pubblico ufficiale. Nessuno, al tribunale di Asti - né il pm, né il giudice, né il suo avvocato - solleva il dato clinico, la schizofrenia dell’imputato, invocando il vizio parziale di mente che gli consentirebbe di godere della sospensione condizionale. A Esposito viene comminata una pena molto dura - "esemplare", qualcuno direbbe - specie se si considera la sua condizione di incensurato. Con l’ingresso nel carcere astigiano di Quarto emergono evidenti i problemi di incompatibilità dell’uomo col regime detentivo. Esposito, oltre che schizofrenico, è diabetico, iperteso, obeso ed ha già avuto delle ischemie. Il quadro clinico non viene però ritenuto sufficiente al suo trasferimento in una struttura diversa; sarà piuttosto tradotto nel reparto psichiatrico delle Vallette, nel luglio scorso. Nei giorni successivi scrive alla madre e a un’insegnante della scuola presso la quale lavorava, denunciando di aver rischiato la vita e di aver avuto collassi in due occasioni per dosaggi sbagliati di farmaci e per cure inadeguate. Infine, una sera di qualche giorno fa, verso le 20.30, l’uomo si sente male. Si reca in infermeria e mentre è in corso la visita ha una crisi cardiaca. L’ambulanza arriva ma tutti si rendono conto che le sue condizioni sono troppo gravi per il trasporto in ospedale. Morirà un’ora dopo. Ora la procura di Torino ha aperto un fascicolo sul suo caso. Difficilmente l’indagine potrà dire quella che è una elementare verità: il carcere è anche il luogo dove si occulta la malattia, specie quella mentale; e questa rimozione, assai spesso, annuncia tragedie. (www.innocentievasioni.net)
Suicidio: 5 settembre 2009, Carcere di Pavia
Sami Mbarka Ben Gargi, 41enne di origine tunisina, è deceduto intorno alle 4 del 5 settembre scorso nel reparto di Chirurgia toracica del policlinico San Matteo di Pavia, dove era ricoverato da tre giorni su ordine del magistrato di sorveglianza, dopo uno sciopero della fame e della sete che andava avanti da oltre un mese e mezzo e che l’aveva ridotto a un fantasma. È morto di fame, lucidamente, per scelta, per protestare contro una condanna che riteneva ingiusta. Un protesta estrema iniziata da Ben Gargi il 16 luglio scorso, dopo che la prima sezione della Corte d’appello di Milano aveva deciso la misura cautelare per una condanna per violenza sessuale, in vista della sua uscita dalla Casa circondariale di Pavia dopo aver scontato poco più di tre anni e mezzo per associazione a delinquere finalizzata al traffico e allo spaccio di stupefacenti. A denunciarlo per stupro era stata la sua ex convivente, una donna di origine marocchina con cui aveva vissuto 13 anni, in buona parte passati insieme a Milano. Un’accusa che Ben Gargi riteneva falsa e "infamante", inconcepibile, ma che i giudici avevano ritenuto credibile, fino a che in Appello, il 7 luglio scorso alla Procura di Milano, l’uomo era stato condannato a 8 anni e 5 mesi a piede libero. Nove giorni dopo, valutando il rischio del periodo di fuga in previsione di un’imminente scarcerazione per fine pena, la Corte d’Appello di Milano aveva disposto il carcere accogliendo la richiesta del procuratore generale. Per Ben Gargi è un colpo durissimo: non uscirà dal carcere di Torre del Gallo da lì a qualche mese come si aspettava, non vedrà i tre figli piccoli avuti dalla sua compagna italiana con la quale aveva in programma di sposarsi e dovrà scontare una pena per un reato "bestiale" che lui ritiene di non aver commesso. È troppo, e l’uomo decide di inscenare una protesta clamorosa e inizia a non accettare più i pasti e di smettere di bere, e più passa il tempo e più l’avvocato, le guardie, i sanitari, il direttore del carcere e la fidanzata gli chiedono di interrompere quella protesta che potrebbe rivelarsi suicida, e più in lui cresce la determinazione di non mollare e di gridare la sua rabbia. Settimana dopo settimana le condizioni di salute del detenuto continuano a peggiorare, ma lui non molla, anzi decide di non accettare più le visite dell’avvocato che lo segue da anni e della convivente, la madre di quei figli da cui lui "non riesce a vivere lontano" come continua a ripetere ai suoi compagni di reclusione, insieme alla minaccia "o muoio così o mi do fuoco". Il 5 agosto l’avvocato chiede la remissione in libertà del suo assistito per l’incompatibilità tra lo stato di salute e quello di detenzione alla Corte d’Appello, la quale dispone una relazione alla direzione sanitaria del carcere a seguito della quale avrebbe preso la sua decisione. La risposta arriva il 25 agosto con un rapporto dei sanitari dell’istituto di pena che, ricordando un infarto al miocardio pregresso al suo ingresso in carcere (e per il quale è stato visitato da uno specialista all’arrivo nel penitenziario) e un idrocele destro con varicocele bilaterale emerso da un’ecografia compiuta il 27 giugno, suggeriscono il trasferimento del detenuto in una struttura detentiva con un centro diagnostico terapeutico o un ricovero nosocomiale di fronte al precipitare delle condizioni di salute a oltre un mese "dall’astensione volontaria da cibi solidi e da liquidi". Ricordando le due visite cardiologiche e le quotidiane visite mediche di controllo a cui è stato sottoposto il detenuto, i sanitari del carcere di Pavia aggiungono che da una decina di giorni Ben Gargi, che ha perso 21 chili arrivando a pesarne 62, è cosciente e rifiuta qualsiasi cura, è stato trasferito "in modo coattivo" presso l’infermeria. Non solo, i medici sottolineano che l’uomo, che versa in "condizioni oltremodo precarie e deambula cercando sostegno, conserva la capacità di agire e autodeterminarsi ed è conscio dei rischi a cui va incontro e rifiuta categoricamente la terapia" che gli viene proposta, condizioni queste che "al momento non permettono" di procedere con il trattamento sanitario obbligatorio (Tso). Preso atto della relazione sanitaria, il procuratore generale della Corte d’appello di Milano, nel suo parere, respinge però l’istanza di remissione in libertà, rigettata poi il 4 settembre dalla Corte d’appello. Il 41enne rimane così in carcere, peggiorando a vista d’occhio ma determinato a continuare nella sua estrema protesta, rifiutando qualsiasi cura. Una situazione che a fine agosto precipita, fino a quando il 2 settembre il magistrato di sorveglianza decide il ricovero in ospedale: ma ormai le condizioni di salute del detenuto, presumibilmente ormai incosciente, sono tali da non permettere più di salvarlo. "È un uomo che ha sempre mantenuto la sua lucidità, l’ostinata voglia di morire e a cui la struttura che dirigo ha fatto tutti gli interventi sanitari possibili" afferma la direttrice del carcere Iolanda Vitale, che spiega come il detenuto il 31 agosto abbia rifiutato il trasporto in ospedale dove era prevista una visita urgente richiesta dai sanitari del penitenziario. "Il 1 settembre finalmente Ben Gargi ha accettato la visita in ospedale finalizzata ad ottenere una richiesta di Tso dal servizio psichiatrico, che però non l’ha ritenuto necessario" continua la Vitale, ricordando che a questo punto, "il dirigente sanitario del carcere ha richiesto l’intervento del magistrato di sorveglianza che ha imposto il ricovero ospedaliero per il giorno seguente". Sarà ora l’autopsia a chiarire esattamente le cause del decesso, ma è evidente che qualsiasi complicanza abbia determinato la morte è da collegare all’estrema protesta messa in atto per oltre un mese e mezzo dal detenuto, originario di Zaghouan, che il 4 dicembre prossimo avrebbero compiuto 42 anni. Appena saputa la notizia, i detenuti del penitenziario hanno manifestato la loro solidarietà al compagno deceduto, sbattendo le stoviglie contro la sbarre. La casa circondariale di Pavia registra, come la stragrande maggioranza delle carceri italiane, una situazione di affollamento, è caratterizzato da una maggioranza di detenuti comuni e da un intenso turn-over. "Questa mattina la capienza è di 436 unità - spiega la Vitale - siamo pieni ma ognuno ha il suo posto: c’è una situazione di disagio, ma non raggiunge la gravità che si registra in altre strutture". (La Stampa, 9 settembre 2009)
Onida: per la legge era impossibile costringerlo a nutrirsi
Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, da anni svolge volontariato nelle carceri. Com’è possibile che un detenuto possa morire di fame in prigione senza che nessuno lo impedisca? "Purtroppo il fenomeno dello sciopero della fame è abbastanza diffuso nelle carceri italiane. Un discorso è quello delle ragioni del detenuto, l’altro è di come ci si deve comportare di fronte a chi sceglie questa forma estrema di protesta. Infine, bisogna rilevare che rientra nelle libertà della persona non essere oggetto di alimentazione coattiva".
Quindi teoricamente non c’è alcuna possibilità d’intervento? "Normalmente gli scioperi si riescono a interrompere ma se il detenuto resta lucido fino all’ultimo, nessuno può obbligarlo".
Quindi nessun responsabile? "È evidente che la custodia del detenuto e quindi la sua vita sono nella responsabilità dell’Amministrazione penitenziaria che però non può che fermarsi davanti alla libertà individuale del detenuto. Il discorso, si capisce bene, è ben più ampio e coinvolge l’intero sistema carcerario".
Sami Mbarka Ben Gargi... la "morte di un numero", di Patrizio Gonnella
Sami Mbarka Ben Gargi, detenuto tunisino, è morto dopo un lungo sciopero della fame durato oltre cinquanta giorni. Contestava l’accusa di violenza sessuale. In quel periodo ha perso ventuno chili. Pare che nei cinquanta giorni in cui si è astenuto dal mangiare sia stato tenuto sotto controllo medico. La Corte di Appello di Milano non lo aveva ritenuto così grave da concedergli la sospensione della pena. Non è invece chiaro cosa sia accaduto a Sami Mbarka Ben Gargi dopo un primo rifiuto di ricovero all’esterno disposto dal magistrato di sorveglianza. La questione dello sciopero della fame dei detenuti è una questione complessa. Pone almeno un paio di domande tra loro interrelate. Fino a che punto una persona è libera di autodeterminarsi? Fino a che punto esiste il dovere del custode di assicurare l’integrità personale dell’essere umano affidato alla sua custodia per legge? Alla prima domanda sono legate almeno un paio di osservazioni: 1) dal versante giuridico l’articolo 32 della Costituzione protegge le scelte individuali estreme in quanto inequivocabilmente recita: "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana." La legge prevede il trattamento sanitario obbligatorio (Tso) solo nei casi in cui la persona è incapace di intendere e volere. Il Tso è disposto dal Sindaco su richiesta del medico. Le autorità penitenziarie possono al massimo sollecitarlo; ciò significa che una persona nel pieno della sua coscienza è libera di non mangiare anche se detenuto fino alle estreme conseguenze; 2) dal versante etico lo sciopero della fame, quale tecnica di tutela dei diritti umani, è accettabile solo se va a proteggere un diritto di almeno pari valore rispetto a quello messo in discussione con l’astensione prolungata dal cibo. La giustizia equa è un diritto di primo livello in base alla nostra Costituzione e alle Carte internazionali. Pertanto è eticamente accettabile lasciarsi morire per difendere la propria libertà. Alla seconda domanda sono connesse più di una affermazione: a) il dovere di custodia non può arrivare sino all’alimentazione forzata dei custoditi altrimenti si priverebbe loro la possibilità di esercitare legittime forme di protesta. In una condizione di privazione della libertà di movimento le forme della protesta sono ovviamente limitate. Bobby Sands morì di inedia dopo sessantasei giorni di sciopero della fame. Molti furono i detenuti turchi che protestarono fino alla morte pur di non essere trasferiti nelle carceri speciali. Lo sciopero fu definito sciopero della morte. Le organizzazioni per i diritti umani difesero la libera scelta dei detenuti che in questo modo fecero conoscere la loro storia al mondo; b) il dovere di custodia presuppone un obbligo di verifica delle condizioni di salute della persona ristretta, nonché di offerta di supporto psicologico e sanitario. Tirando le somme, nessuno può interferire sulla libera e cosciente decisione di un detenuto di morire di inedia. È però dovere di chi ha la custodia di quel detenuto ascoltarne le ragioni e assicurargli tutto l’aiuto possibile. Il caso del detenuto tunisino più che un caso di cattiva custodia è un caso emblematico di giustizia bendata nell’era del sovraffollamento delle prigioni. Oggi più che mai i provvedimenti sono presi dalla magistratura senza avere mai visto in faccia i loro condannati. Un detenuto tunisino è di solito considerato un numero. Oggi si parla della sua morte. Se i giornali avessero parlato della sua protesta prima che morisse forse oggi non sarebbe morto. (www.linkontro.info, 10 settembre 2009)
Il Partito Democratico: c’è la pena di morte di fatto
"Abbiamo appreso con sgomento della morte del detenuto tunisino Sami Mbarka Ben Gargi che si è lasciato morire per protesta nel carcere di Pavia. Il direttore medico dell’istituto commentando questo suicidio lungamente annunciato ha parlato di "facoltà di poter decidere" e di autodeterminazione mentre era dovere dell’autorità carceraria e/o giudiziaria quello di scongiurare questa tragedia". Lo dichiarano i deputati Pd Guido Melis e Donatella Ferranti della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. "È una vergogna - proseguono Melis e Ferranti - che nelle carceri italiane continui questo insopportabile stillicidio di suicidi più o meno tollerati dalle strutture che dovrebbero fare di tutto per impedirli. Infatti, non è la prima volta che malati in condizione terminale vengono tenuti in cella senza che sia verificato tempestivamente il loro stato di salute. Nel carcere romano di Rebibbia, che abbiamo visitato a luglio di quest’anno insieme al Presidente del Partito dei Romeni in Italia, avvocato Giancarlo Germani, un detenuto romeno in attesa di giudizio, malato terminale di cancro, aspetta ancora, mesi dopo le richieste formali, che sia riconosciuto il suo diritto alle cure. Aggiungiamo che molti detenuti in quella stessa occasione hanno lamentato la mancanza di medicinali dovuta a disguidi burocratici del recente passaggio della sanità carceraria alle ASL. Abbiamo perciò depositato in Commissione Giustizia un’interrogazione al ministro della Giustizia per accertare le cause e le eventuali responsabilità dell’accaduto. Non si può accettare che in un sistema democratico dove a norma di Costituzione è abolita la pena di morte, le deficienze strutturali, organizzative e funzionali possano condurre di fatto alla perdita della vita in carcere. È quanto mai necessario - concludono i due deputati - che il Governo affronti in maniera razionale ed efficace, e non più soltanto demagogica, le problematiche del sovraffollamento e del personale carcerario". (Asca, 10 settembre 2009)
Udc: suicidio Ben Gargi interpella tutte le coscienze
"Il lento suicidio di protesta del detenuto Sami Mbarka Ben Gargi nel carcere di Pavia deve in queste ore interpellare profondamente la coscienza di tutti i parlamentari e del ministro". Lo dichiara, in una nota, il parlamentare dell’Udc, Roberto Rao, componente della Commissione Giustizia della Camera dei deputati. "Non è più tollerabile - continua Rao - affrontare con gli spot l’emergenza carceri. Siamo convinti che questo drammatico episodio spingerà tutti fin dalla prossima settimana a lavorare senza distinzioni di schieramento su quei provvedimenti legislativi utili per dare una soluzione al problema: revisione del sistema di custodia cautelare, revisione del processo penale, celebrazione rapida dei processi, accordi internazionali per il rimpatrio dei detenuti stranieri". "Non è il tempo delle polemiche strumentali - conclude il parlamentare dell’Udc - ma quello dell’azione operosa ed è compito del governo e del ministro facilitare una comune convergenza legislativa che favorisca la soluzione del problema". (Adnkronos, 10 settembre 2009)
Suicidio: 8 settembre 2009, Carcere di Teramo
Tragedia nel carcere di Teramo. Si è tolto la vita, nel pomeriggio di ieri, Cole Abib, 32 anni, detenuto di origine senegalese accusato di avere usato violenza, a Pescara, nei confronti di una disabile. Accanto al suo corpo sono stati rinvenuti, oltre a dei biglietti di addio, una bomboletta di gas utilizzata dai detenuti per accendere i fornelli e una busta di plastica, usata probabilmente per il soffocamento. L’uomo - sposato e padre di un bambino - era stato arrestato il 3 marzo scorso dai Carabinieri di Pescara per violenza sessuale su una diciottenne affetta da ritardo mentale. Lui però si proclamava innocente. A maggio era evaso mentre si trovava al pronto soccorso, ma dopo quattro giorni di fuga si è costituito ai Carabinieri di Giulianova. La notizia del suicidio di Abib, che viveva con la moglie a Giulianova, ha colto tutti di sorpresa. Non c’era nulla che facesse presagire, secondo quanto è stato possibile apprendere, un simile gesto. Appena ventiquattro ore prima del rinvenimento del cadavere l’uomo aveva ricevuto la visita in carcere di un sindacalista teramano, e si era mostrato calmo e pienamente in possesso delle sue facoltà, tutt’altro che sull’orlo della disperazione come il gesto da lui messo in atto farebbe invece ritenere. Il suo corpo è stato rinvenuto dal personale di sorveglianza dell’istituto carcerario: non c’era più nulla da fare. Castrogno torna dunque alla ribalta dopo le proteste di qualche giorno fa, proteste dei detenuti nei confronti delle guardie carcerarie e scatenate probabilmente dalle difficili condizioni di vivibilità nell’istituto di pena teramano, un impianto che dovrebbe contenere non più di duecento detenuti e che invece ne accoglie più di quattrocento, oltre il doppio della capienza prevista. (Il Messaggero, 9 settembre 2009)
Suicidio: 10 settembre 2009, Carcere di Castrovillari (Cs)
Un cileno e un calabrese, negli ultimi venti giorni, si sono impiccati nello stesso carcere, quello di Castrovillari in provincia di Cosenza. Il primo aveva 19 anni, il secondo 39. I giornali non ne hanno parlato, nonostante che la notizia sia passata ieri sulle agenzie di stampa attraverso un mio comunicalo in cui chiedevo al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, di intervenire urgentemente per arginare l’emorragia di vite umane che si manifesta, con l’incredibile numero di suicidi o con la morte civile e senza speranza di chi è costretto a vivere in modo indegno di un paese civile. Il fatto che il primo suicidio non sia trapelato per ben tre settimane la dice lunga sull’omertà del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) rispetto alle tragedie che si consumano dietro le sbarre. Le loro statistiche sono sempre al ribasso, risparmiano sulla conoscenza e sulla verità dei fatti e, se possono barare, barano. Come quando escludono dal novero dei suicidi in carcere coloro che, con il cappio al collo, hanno l’avvedutezza di morire nel tragitto tra il carcere e l’ospedale. Il fatto che il secondo suicidio sia emerso solo quando ieri ho posto la domanda esplicita al direttore, non là che confermare la reticenza del Dipartimento a far conoscere gli effetti della sua "amministrazione" dei penitenziari. C’è da dire che il Dap, amministrato dal dottor Franco Ionta, gode anche della complicità di quasi tutti mezzi di informazione che considerano l’impiccagione di due carcerati, una non notizia. Chissà se il Presidente del Consiglio sia venuto a saperlo in qualche modo, magari prima delle dichiarazioni di ieri quando ha rilanciato il "suo" piano carceri che prevede la costruzione di nuove strutture penitenziarie per 20.000 nuovi posti? In questo momento non voglio entrare nel merito di come Silvio Berlusconi intenda perseguire questa politica, cioè di come reperirà le risorse: se attraverso i modernissimi supermarket "Poggioreale" e "Sollicciano" oppure gli esclusivi Grand Hotel Regina Coeli e San Vittore. In questo momento non mi interessa sapere se la costruzione dei nuovi istituti sarà appaltata o meno a quelle mammolette che faranno rientrare a prezzo di una piccola indulgenza capitali immacolati precedentemente esportati in Svizzera o in altri paradisi fiscali. Ora mi interesserebbe sapere dal Presidente del Consiglio in quanto tempo pensa di compiere questa impresa: uno, due, tre, dieci anni? In secondo luogo vorrei sapere con quale personale - agenti, educatori, psicologi, direttori, assistenti sociali, medici ed infermieri - pensa di amministrare queste nuove strutture e, infine, se abbia intenzione di riformare l’articolo 27 della Costituzione che impone allo Stato di non infliggere pene contrarie al senso di umanità, pene che devono tendere alla rieducazione del condannato. Se Berlusconi mi consente, vorrei fare anche due conti facili facili. In questo momento nelle carceri italiane ci sono 65.000 detenuti, cioè 22.000 in più della capienza regolamentare. Il ritmo di crescita della popolazione detenuta è di mille unità al mese. Prevedibilmente, dunque, entro la fine dell’anno saremo a 68.000, cioè a 25.000 detenuti in più. Convertendo a supermarket o hotel le vecchie carceri - considerando solo le più grandi e storiche - si verrebbero a perdere circa 5.000 posti, per cui diverrebbero 30.000 i posti mancanti. Perciò, anche se Berlusconi facesse "o miracolo" di costruire i ventimila nuovi posti entro il 2010, non avrebbe, comunque, minimamente scalfito l’illegale sovraffollamento. I conti sono presto fatti: 68.000 più 12.000 (l’incremento del prossimo anno) = 80.000 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 58.000 (43.000 - 5.000 più 20.000). Cioè nelle patrie galere mancherebbero sempre 22.000 posti. Non proseguo con i conti che verrebbero fuori se, come prevedibile, la costruzione di nuovi istituti richiedesse più di un anno e se considerassimo il ritmo di crescita della popolazione penitenziaria sopra ricordato, dovuto anche all’introduzione del reato di immigrazione clandestina. Sul personale necessario in termini di sicurezza e di rieducazione ad un popolo di reclusi che viaggia verso le centomila unità nei prossimi tre anni, c’è poco da dire se nella situazione attuale - e solo per quel che riguarda gli agenti di polizia penitenziaria - già mancano all’appello più di 5.000 unità. Concludendo - consapevole di aver trascurato le assennate misure che, da subito, potrebbero ridimensionare il grave sovraffollamento delle patrie galere e che come Radicali, insieme ad altre associazioni che si occupano di carcere, abbiamo proposto sotto forma di disegni di legge - penso che il Presidente del Consiglio sia in buona fede quando afferma che "l’obiettivo fondamentale resta quello di ridare dignità a chi viene condannato dalla giustizia"; il problema è che nella situazione attuale la "giustizia" italiana (quella che lui non vuole riformare) produce gironi infernali di sofferenza e umiliazione e l’ultimo girone è proprio quello del carcere, dove l’anestetico per sopportarne le forme di tortura che alimenta, è, ogni giorno di più, un cappio al collo che si stringe sempre. (L’Altro, 1 ottobre 2009, di Rita Bernardini, Deputato Radicali - Pd)
Suicidio: 11 settembre 2009, Carcere dell’Ucciardone (Pa)
Detenuto italiano di 44 anni si uccide nel carcere dell’Ucciardone, a Palermo. La notizia viene diffusa da Radio Carcere. (www.radiocarcere.com, 15 settembre 2009)
Suicidio: 12 settembre 2009, Carcere di Prato
Fersi Walid, tunisino di trent’anni, nella notte tra venerdì 11 e sabato 12 settembre si è impiccato nella Sezione "sex-offenders" del carcere di Prato, usando le lenzuola. Purtroppo nessuno dei suoi compagni di cella se ne è accorto e lo ha notato solo l’appuntato di turno. Fersi già da tempo aveva messo in atto proteste "autolesionistiche" per protestare contro la dura condanna (9 anni), che riteneva ingiusta. Alcuni mesi fa si era cucita la bocca e a luglio aveva iniziato lo sciopero della fame; in ogni caso aveva esplicitato in più occasioni l’intenzione di togliersi la vita. Aldilà del giudizio sul gesto estremo da lui compiuto, ciò si inserisce in un contesto in cui le condizioni carcerarie peggiorano di giorno in giorno per cause "oggettive" quali il sovraffollamento e i giri di vite sulla "sicurezza" ma anche chi è preposto alla custodia dei detenuti - non solo in senso repressivo - a volte sembra non recepire i segnali di forte disagio degli stessi. (Ristretti Orizzonti, 26 settembre 2009)
Suicidio: 12 settembre 2009, Carcere di Lecce
Rosario Vollaro, 38enne, uno dei figli del boss di Portici, Luigi, detto "Ò Califfo", è stato trovato senza vita nella Casa Circondariale di Borgo San Nicola, dove era stato trasferito di recente. Ha usato un lenzuolo per impiccarsi nella cella nella quale era stato destinato. Si è tolto la vita così, nel carcere di Borgo San Nicola, a Lecce, Rosario Vollaro, 38enne. L’hanno trovato gli agenti di polizia penitenziaria quando non c’erano più speranze. Vollaro era stato trasferito sabato scorso dal carcere di Poggioreale nella casa circondariale del capoluogo salentino, su disposizione del ministero dell’Interno. Nella cella non è stata trovata una lettera, neanche poche righe per spiegare il gesto. L’autopsia sarà affidata al medico legale Alberto Tortorella. Vollaro era noto nel napoletano per essere uno dei figli del capo del clan della zona di Portici, Luigi, detto "Ò Califfo", al momento a sua volta detenuto. Di recente Rosario Vollaro era stato arrestato dagli agenti di polizia della squadra mobile e del commissariato di Portici, in relazione ad un caso di presunta estorsione nei confronti di una ditta che gestisce i parcheggi pubblici comunali. Insieme a lui, anche due altre persone, il fratello Raffaele e Giovanni Spina. Qualche anno addietro, un altro fratello di Rosario Vollaro, Ciro, si suicidò nel carcere di Rebibbia. Diventato collaboratore di giustizia, diede impulso a diverse indagini di rilievo sul clan retto dal padre. (Ansa, 14 settembre 2009)
Malattia: 19 settembre 2009, Roma (detenzione domiciliare)
È morto a 89anni in una clinica di Roma, dove era ricoverato per gravissimi motivi di salute che avevano indotto i giudici a concedere il differimento della pena, nella vana attesa dell’autorizzazione a scontare il resto della pena in Canada, dove risiede la sua famiglia. Protagonista della storia, segnalata dal Garante dei detenuti della regione Lazio Angiolo Marroni, un cittadino canadese di origine italiana, Antonino Patafi, morto il 19 settembre. Nato in Calabria nel 1921, emigrato negli anni 50 in Canada in cerca di fortuna, l’uomo era stato arrestato nel 1997 per un duplice omicidio, commesso in età avanzata in Calabria, legato a questioni patrimoniali. Patafi è stato detenuto a Rebibbia e Regina Coeli per scontare una pena a 24 anni di reclusione che sarebbe scaduta nel 2016. Senza parenti in Italia, (il figlio Francesco ha sempre vissuto in Canada), dal 2008 Patafi aveva presentato domanda per scontare la pena in Canada. Vista l’età avanzata a Regina Coeli Antonino aveva una cella con il campanello: negli anni aveva socializzato con i detenuti e con il personale che garantivano anche un controllo sulla sua salute. A febbraio il tribunale ha disposto il differimento della pena per gravi motivi di salute. Fuori dal carcere Patafi si è trovato senza sistemazione, né cure mediche. Con una carta d’identità italiana scaduta nel 1957, per i servizi territoriali era, infatti, inesistente. Per questo il garante si è adoperato per assicurargli un documento d’identità necessario ad iscriverlo al servizio sanitario regionale. A giugno, dopo vari ricoveri tra Caritas, ospedali, centri di accoglienza e strutture onlus, Patafi entrava in una clinica privata a spese della famiglia. Dal punto di vista giudiziario dopo il nulla osta, lo scorso aprile, del Canada al suo trasferimento, il ministero della Giustizia, sollecitato da garante, ambasciata canadese e avvocato, a giugno dava il suo parere favorevole. Per far tornare Antonino in Canada mancava solo il nulla osta del tribunale di Reggio Calabria. L’udienza è stata fissata il 1 ottobre. Troppo tardi per Antonino, morto il 19 settembre. "Aveva 89 anni e, nelle condizioni di salute in cui si trovava, non credo potesse più nuocere alla società, eppure a quest’uomo è stata negata la possibilità di morire col conforto dei familiari" ha detto il garante dei detenuti Angiolo Marroni, che ha aggiunto: "Questo ufficio,l’ambasciata canadese, i volontari, hanno fatto di tutto per consentirgli di vivere dignitosamente questi mesi di attesa. Autorizzarlo a tornare, peraltro in carcere, sarebbe stato un gesto di umana pietà che, purtroppo, le lungaggini burocratiche hanno impedito di compiere. Un finale ancor più beffardo se si considera che, contro il sovraffollamento, si invoca il trasferimento dei detenuti stranieri nei loro Paesi di origine. Qui c’era un uomo che lo aveva chiesto, non sono bastati mesi per accontentarlo". (Il Velino, 26 settembre 2009)
Malattia: 24 settembre 2009, Carcere di Opera (Mi)
Quando nel 2004 venne arrestato come mandante dell’omicidio di Domenico Trivellone, dieci anni dopo il colpo di pistola che l’aveva freddato, Nevio Porreca chiese ai poliziotti della squadra Mobile che l’avevano sorpreso all’alba nel suo appartamento di via Pineta di Roio, ai Colli: "Ma non c’è la prescrizione?". Era uno degli uomini che avevano fatto la storia della malavita pescarese negli anni Ottanta e Novanta, Porreca, morto giovedì scorso a 55 anni, all’ospedale San Paolo di Milano. Una malattia se l’è portato via presto, dopo una vita vissuta in quella zona d’ombra da cui non era mai riuscito a uscire. Detenuto a Terni, era stato trasferito al reparto clinicizzato del carcere di Opera, da dove si è mosso solo per una corsa senza speranza. Sabato mattina, alle 9.30, ha ricevuto l’ultimo abbraccio della sua famiglia e dei suoi amici con un rito funebre celebrato con discrezione nella basilica della Madonna dei Sette dolori, ai Colli. Da qui, la partenza per il cimitero di Ari. Nato a Miglianico, aveva scelto Pescara per vivere e qui le cronache raccontano anno dopo anno di un uomo che ai tempi della contrapposizione tra bande, veniva considerato un battitore libero, con quel soprannome, il Coccodrillo, che gli sarebbe rimasto sempre cucito addosso. Il 20 luglio di due anni fa, ai carabinieri che lo arrestarono per l’ennesima volta per una storia di cocaina chiamata in gergo "Operazione fuoco" aveva detto, quasi a rivendicare una identità criminale: "Le prime impronte le ho lasciate nel 1973". Il 4 marzo scorso era tornato in carcere. I carabinieri di Pescara l’avevano preso a Terni, dove si era rifugiato a casa della figlia per preparare, si disse allora, la fuga all’estero. Finiva così la libertà di cui aveva goduto a tratti entrando e uscendo dal carcere, quasi sempre per questioni di droga: la condanna a 23 anni, 11 mesi e 6 giorni per l’omicidio di Trivellone, di cui era ritenuto il mandante, era diventata definitiva. La Corte di Cassazione aveva respinto il ricorso del suo difensore Paolo Marino, che chiedeva l’annullamento della condanna perché, sosteneva, le dichiarazioni degli esecutori materiali erano prive di attendibilità. Per i giudici, invece, era stato proprio Porreca a ordinare l’esecuzione di Trivellone, ferito a morte la notte del 15 luglio 1994 con un colpo di pistola alla testa davanti alla sua casa di via Arno, a Montesilvano. Per quell’omicidio, vennero arrestati Enrico Chiavaroli, che avrebbe consegnato l’arma, e Franco Patacca, che avrebbe premuto il grilletto. Due anni dopo, Chiavaroli indicò Porreca come mandante. La ragione: Trivellone aveva rivelato ai carabinieri che era in arrivo a Pescara una grossa partita di droga. (Il Centro, 29 settembre 2009)
Suicidio: 26 settembre 2009, Carcere di Firenze
Detenuto suicida a Firenze. Ha fatto una doccia, poi si è impiccato. Così è morto un detenuto del carcere a custodia attenuata di Firenze "Mario Gozzini", struttura attigua al penitenziario di Sollicciano. Il fatto risale a sabato scorso ma è stato portato a conoscenza oggi dal garante per i detenuti del Comune di Firenze, Franco Corleone. Secondo quanto appreso, la vittima, 40 anni, già sofferente di crisi depressive, da poco tempo era stata trasferita al Gozzini proprio da Sollicciano. Avrebbe dovuto scontare una pena fino all’ottobre 2010. "Questo nuovo episodio di suicidio contribuisce a dimostrare che il mondo del carcere è in piena emergenza", ha affermato Corleone, facendo notare che "negli ultimi tempi in tutta Italia stanno aumentando i suicidi e le morti in carcere senza una spiegazione plausibile. Ciò dovrebbe preoccupare l’amministrazione penitenziaria, invece si parla solo di costruire nuove carceri". (Ansa, 30 settembre 2009)
Suicidio: 27 settembre 2009, Carcere di Castrovillari (Fi)
Un detenuto 39enne di Morano Calabro si è tolto la vita nel pomeriggio di domenica scorsa impiccandosi con la cintura dei pantaloni. Un nuovo suicidio nel carcere di Castrovillari: stavolta a togliersi la vita è stato un 39enne di Morano Calabro, che nel pomeriggio di domenica scorsa, verso le 16.30 si è impiccato utilizzando la cintura dei pantaloni. Il suicidio del detenuto, C.N., arriva a poco più di quindici giorni da un altro decesso, quello di un diciannovenne cileno che si è ucciso impiccandosi con un lenzuolo. Il giovane, con problemi di tossicodipendenza, era stato arrestato nel luglio scorso per furto, ed era recluso "a disposizione dell’autorità giudiziaria". Su questo nuovo caso è intervenuta Rita Bernardini, deputata dei Radicali/Pd e membro della Commissione giustizia. "Oggi in quell’istituto penitenziario - ha detto la deputata - erano presenti 258 detenuti su una capienza regolamentare di 128 posti. Credo che il Ministro Alfano non possa continuare a limitarsi a fare dichiarazioni che prospettano soluzioni a medio o lungo termine come quelle che si riferiscono alla costruzione di nuove carceri". Secondo Bernardini, "occorrono misure urgenti da più parti proposte per arginare l’emorragia di vite umane che si manifesta con l’incredibile numero di suicidi o con la morte civile e senza speranza di chi è costretto a vivere in modo indegno di un Paese civile. E qui ci metto anche tutto il personale, direttori compresi". (Quotidiano di Calabria, 30 settembre 2009)
Morte per cause da accertare: 28 settembre 2009, Carcere di Sulmona (Aq)
Si è sentito male a metà mattina cadendo al suolo davanti agli altri detenuti della sezione internati. A nulla sono valsi i soccorsi prestati dagli agenti di polizia penitenziaria: il giovane, Daniele Salvatori di 26 anni, originario di Cattolica, ma residente a Benevento, è morto poche ore dopo all’ospedale di Sulmona. A ucciderlo sarebbe stata (ma si attende l’esito dell’autopsia) una overdose. Sulla vicenda il procuratore della Repubblica di Sulmona, Federico De Siervo, ha aperto un’inchiesta per stabilire le cause del decesso, ma soprattutto eventuali responsabilità da parte degli agenti di polizia penitenziaria addetti ai controlli. Daniele Salvatori infatti è tornato a Sulmona domenica sera da una vacanza premio trascorsa nel beneventano, dove risiede la sua famiglia. Il giovane è stato arrestato nel 2006 dai carabinieri di Benevento con l’accusa di detenzione a fine di spaccio di sostanze stupefacenti. Venne sorpreso mentre rientrava a casa con alcuni grammi di eroina. È probabile quindi che il giovane sia rientrato in carcere portando con sé le sostanze stupefacenti. Un fatto che è parso strano anche alla direzione del carcere che, parallelamente alla Procura, ha avviato un’inchiesta interna con l’obiettivo di ricostruire l’intera vicenda, compresi i passaggi che ci sarebbero stati dal momento in cui Salvatori è rientrato in carcere fino a quando è finito in overdose. Tutto ha avuto inizio ieri mattina, poco prima delle 10, con la richiesta di aiuto da parte di alcuni internati che hanno visto il 26enne prima sbiancare in volto e poi stramazzare al suolo. Nel reparto degli internati (si tratta di detenuti che vengono trattenuti in carcere anche dopo aver scontato la pena in quanto ritenuti socialmente pericolosi), le celle vengono chiuse solo di notte. Mentre per il resto della giornata i detenuti possono socializzare e girare liberamente, senza alcuna costrizione. All’inizio gli agenti, intervenuti in soccorso di Daniele Salvatori pensavano si trattasse di un leggero malore: i sintomi erano quelli. Poi, quando hanno visto che l’uomo non si riprendeva, hanno chiamato la guardia medica del carcere, che ha subito intuito che si trattava di overdose da stupefacenti. Quindi la corsa in ospedale, prima al pronto soccorso e poi nel reparto di rianimazione, dove è stata praticata la terapia d’urgenza prevista in questi casi per contrastare l’effetto degli oppiacei. Dopo un primo momento di forte preoccupazione, sembrava che la situazione potesse essere tenuta sotto controllo e che il giovane potesse riprendersi. Tutto invece è precipitato nel primo pomeriggio di ieri, con il battito cardiaco che si è fatto sempre più flebile. Alle ore 15,10 il cuore del giovane si è fermato per sempre. Questa mattina il procuratore disporrà l’autopsia, affidando probabilmente le indagini al capitano dei carabinieri Domenico Caradonna. (Il Centro, 30 settembre 2009)
Eseguita l’autopsia sul detenuto morto
È stata eseguita ieri l’autopsia sul corpo di Daniele Salvatori, 26 anni, di Cattolica ma residente a Benevento, internato nel carcere di Sulmona, morto alle 15,10 di lunedì dopo che aveva avvertito un malore durante la mattinata dello stesso giorno. L’indagine necroscopica, svolta ieri tra le 16.00 e le 20.30, è stata eseguita dal dott. Ildo Polidoro, consulente tecnico incaricato dalla Procura della Repubblica di Sulmona, che si è riservato, entro 60 giorni, di refertare le cause del decesso, dopo aver prelevato campioni di tessuto, organi e liquidi biologici, necessari all’esame tossicologico. "Per adesso - ha riferito il consulente medico, Ildo Polidoro - è prematuro parlare di morte per assunzione di stupefacenti, solo questi ulteriori esami potranno fugare ogni dubbio". (Il Centro, 2 ottobre 2009).
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