Dossier: "Morire di carcere"

 

"Morire di carcere": dossier novembre 2007

Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, episodi di overdose

 

Continua il monitoraggio sulle "morti di carcere", che nel mese di novembre registra 8 nuovi casi: 3 suicidi, 2 morti per malattia, 2 per cause da accertare e 1 per overdose.

 

Nome e cognome

Età

Data morte

Causa morte

Istituto

Federico Longobucco

31 anni

09 novembre 2007

Malattia

Venezia

Massimo Floris

19 anni

10 novembre 2007

Suicidio

Rebibbia (Roma)

Mirko Volpicelli

24 anni

11 novembre 2007

Overdose

Rebibbia (Roma)

Fabrizio Ciappetta

44 anni

16 novembre 2007

Malattia

Rebibbia (Roma)

Marco Erittu

40 anni

16 novembre 2007

Non accertata

Sassari

Benedetto Orrù

38 anni

20 novembre 2007

Non accertata

Cagliari

Antonio Romanelli

57 anni

30 novembre 2007

Suicidio

Opg Aversa (CE)

Giuseppe Rodà 53 anni 30 novembre 2007 Suicidio Reggio Calabria

 

Malattia: 9 novembre 2007, Carcere di Venezia

 

Federico Longobucco, 31 anni, muore nel carcere di Santa Maria Maggiore, a Venezia. Era stato arrestato circa un mese prima, per detenzione di sostanze stupefacenti. Sembra che il decesso sia avvenuto per un aneurisma cerebrale. (Ristretti Orizzonti, 15 novembre 2007)

 

Suicidio: 10 novembre 2007, Carcere di Cagliari

 

Massimo Floris, 19 anni, in attesa di processo, si impicca in cella. Il direttore del carcere: "casi imprevedibili". La solitudine che annebbia la vista, il cielo oltre le sbarre delle finestre che sembra ogni giorno più grande. E che basta un nulla perché si frantumi all’improvviso, facendo precipitare ogni speranza di una vita possibile. Di un futuro fuori dal carcere. Di tornare al mondo che si è lasciato varcando il portone di ferro.

Buoncammino non è un’isola felice. La detenzione si conta in giorni e il tempo trascorre dilatando le settimane che mancano alla scarcerazione. I detenuti si aggrappano alle lettere degli amici e dei parenti come fiere, voraci di quello che arriva da fuori, notizie per considerarsi ancora vivi, ancora dentro un sistema. Il venire a mancare di questo può bastare, purtroppo, per rinunciare a credere. Può portare una persona più fragile a decidere di non voler più stare in cella, e in certi casi quella cella è la vita.

Il terrore di trovarsi da solo e di dover passare chissà quanto tempo dentro, hanno guidato la mano ieri di Massimo Floris, diciannove anni appena compiuti e in carcere per una rissa avvenuta un anno fa all’uscita di un bar a Sant’Anna Arresi. Si è impiccato in cella nel primo pomeriggio, accanto alla sua branda, approfittando di essere da solo perché i suoi compagni, con cui divideva gli spazi, erano usciti per l’ora d’aria. Un dolore, il suo, covato in silenzio, che non aveva avuto il coraggio di confessare neppure agli altri detenuti con cui passava ogni momento della giornata. Anzi, sempre con loro e con tutti si era sempre mostrato sereno, senza mai dare problemi di nessun genere.

Il ragazzo era in cella da poco, trasferito a Buoncammino per il processo che sarebbe cominciato presto. E che avrebbe ricostruito la dinamica e i precedenti di quell’aggressione avvenuta quando lui era solo diciottenne e aveva preso a coltellate un giovane di ventiquattro anni, finito in ospedale per lesioni importanti ma che non avevano danneggiato organi vitali. La sua morte ha sconvolto il carcere. "Era uno tranquillo, era arrivato solo da qualche tempo e anche per un fatto da poco, non credo avrebbe avuto una condanna grave", lo ricorda il direttore di Buoncammino Gianfranco Pala. "È stato un gesto imprevedibile, incontrollabile", continua.

"In genere stiamo sempre molto attenti alle condizioni psicofisiche dei detenuti. I casi cosiddetti a rischio sono sempre molto controllati, stiamo attenti e vediamo se ricevono visite nei giorni di colloquio, se scrivono e se ricevono posta, come si relazionano con gli altri detenuti. Se ci rendiamo conto che un detenuto è depresso o si sta lasciando andare interveniamo subito con un supporto psicologico". E conclude: "Purtroppo nel caso di questo ragazzo non ce lo aspettavamo minimamente. Stiamo attenti ma non possiamo conoscere i problemi personali e familiari di ogni detenuto. Se loro non esternano un disagio è impossibile. Purtroppo alcune volte i detenuti si sentono come abbandonati. È la solitudine gioca un ruolo devastante". (Il Sardegna, 11 novembre 2007)

 

"Osservatorio sui detenuti: non si può più aspettare"

 

La morte di Massimo Floris non può passare inosservata. Maria Grazia Caligaris, consigliere regionale dello Sdi-Ps accusa le istituzioni di essere in parte responsabili del terribile gesto,visto che "a quasi due anni dal protocollo d’intesa tra ministero e Regione resta lettera morta e non è stato ancora istituito l’Osservatorio regionale sulle condizioni dei detenuti in attesa di giudizio". Per la consigliera, anche segretaria della Commissione Diritti Civili, "un costante monitoraggio avrebbe potuto forse evitare il nuovo suicidio". E per questo ha presentato un’interrogazione su questo ritardo. "Non bastano le attenzioni delle guardie carcerarie né la sensibilità dei dirigenti degli istituti di pena", ha aggiunto. Occorrerebbero "quegli strumenti individuati da esperti come utili a impedire situazioni di crisi". Ovvero proprio quel protocollo siglato il 7 febbraio dello scorso anno tra il sottosegretario alla Giustizia Luigi Vitali e Soru. (Il Sardegna, 11 novembre 2007)

 

"Ti lascio". E lui si impicca alle sbarre

 

Prima di annodare un lenzuolo alle sbarre e di impiccarsi in una cella di Buoncammino, ha scritto sulla propria pancia il messaggio d’addio: il nome della sua ragazza e la frase "L’ho fatto per te". Massimo Floris, 19 anni, di Sant’Anna Arresi, in attesa di giudizio da sei mesi per aver accoltellato un compaesano, aveva ricevuto una lettera con cui la fidanzata gli diceva che il loro rapporto era finito. Oggi i funerali.

Si è ucciso impiccandosi in cella, a Buoncammino, Massimo Floris, 19 anni, di Sant’Anna Arresi. Sulla pelle della pancia, il suo messaggio d’addio, dedicato alla ragazza che lo stava lasciando: "L’ho fatto per te". Era accusato di tentato omicidio. Non aveva carta per il messaggio d’addio. Così l’ha scritto sulla sua pelle. La pancia usata come un foglio, poche lettere tracciate con una biro: un nome di ragazza, e poi la frase "L’ho fatto per te". Lei, 17 anni, l’aveva lasciato: gliel’aveva comunicato in una lettera che lui aveva letto poche ore prima. Alle quattro di giovedì pomeriggio, rimasto da solo, Massimo Floris ha preso il lenzuolo dalla sua cuccetta, ne ha annodato un capo alle sbarre della cella e si è passato l’altro attorno al collo. Poi s’è lasciato cadere. Era di Sant’Anna Arresi. Aveva 19 anni. Gli ultimi sei mesi li aveva passati a Buoncammino, carcere del malessere, carcere dei troppi suicidi tentati e riusciti.

In attesa di giudizio. Detenuto in attesa di giudizio. Era accusato di tentato omicidio: lo scorso 31 maggio aveva piantato un coltello in pancia a un ragazzo alto un metro e novanta e di cinque anni più grande di lui, Manuel Orrù, un vicino di casa con cui non correva buon sangue. Un suicidio organizzato con cura: i quattro compagni di cella fuori per l’ora d’aria, lui che aveva detto di non stare bene ed era rimasto in cella. Un turno sguarnito, quello del pomeriggio, con un solo agente a sorvegliare due piani, venti celle più venti. Massimo Floris, che godeva fama di detenuto tranquillo, ha aspettato il passaggio dell’uomo in divisa, ha lasciato che andasse all’altro piano, poi ha fatto l’ultimo salto.

La lettera. Un suicidio annunciato, in una lettera spedita a casa: una lettera rimasta sulla credenza per due giorni, in una busta chiusa. Sua madre, Anna, non aveva voluto aprirla per rispetto: Massimo l’aveva indirizzata non a lei ma a una sorella. L’hanno aperta giovedì sera, quella lettera. C’era scritto che se la ragazza l’avesse lasciato, lui si sarebbe ucciso.

Ora, in casa, oltre al dolore smisurato per la morte di un ragazzo che aveva, che avrebbe dovuto avere davanti tutta una vita, per babbo Pietro, mamma Anna e per Daniela e Veronica, sorelle maggiori di Massimo, c’è il tormento di quella lettera: se l’avessimo aperta, forse, avremmo fatto in tempo a evitare la tragedia. Ma c’è un’altra persona che soffre le pene dell’inferno. È la ragazza, quella ragazza cui il giovane suicida ha dedicato il suo ultimo messaggio.

La ragazza. "Stavano insieme da qualche mese quando Massimo è stato arrestato", piange Chiarina Floris, zia paterna del ragazzo: una storia nata da poco e interrotta bruscamente quel 31 maggio. Massimo era stato rinchiuso in carcere, lei era anche andata a trovarlo. Poi, però, qualcosa era cambiato. L’amore che sembrava possibile si era pian piano consumato, troppe barriere fra lui e lei, troppe sbarre e muri di cinta fra il futuro di un ragazzo accusato di tentato omicidio e quello di una ragazza che deve scegliere cosa fare della propria vita. Nei giorni scorsi, Massimo aveva capito che lei l’avrebbe lasciato e aveva lanciato la sua ultima richiesta d’aiuto: aveva resistito a tutto, alla gravità delle accuse (lui che aveva detto di aver tirato fuori il coltello per reagire al brutale pestaggio cui lo stavano sottoponendo, in due contro uno), all’orrore della vita da detenuto ("Non fare l’errore che ho fatto io - aveva scritto a un amico qualche settimana fa - fai da bravo perché qui si sta troppo male"), alla separazione forzata dalla famiglia e dagli amici.

La storia d’amore. Sapeva, però, di non poter sopportare la fine di quella storia d’amore. E ha deciso di togliersi la vita, lasciando un peso davvero troppo grande sul cuore di una ragazza di 17 anni che gli aveva voluto bene. Ieri, dopo l’autopsia, il corpo di Massimo Floris è stato restituito alla famiglia che l’ha riportato in paese. Oggi, alle 15, nella chiesa di Sant’Anna, l’ultimo saluto. (L’Unione Sarda, 11 novembre 2007)

 

Overdose: 11 novembre 2007, Carcere di Rebibbia (Roma)

 

Mirko Volpicelli, 24 anni, muore per una overdose di eroina nel carcere Rebibbia Nuovo Complesso di Roma. La vittima, insieme ad un altro detenuto, sempre in overdose, sono stati immediatamente trasferiti al Pronto Soccorso dell’ospedale "Sandro Pertini". Mirko è morto in ospedale; l’altro detenuto, dopo essere stato sottoposto alle cure del caso, è tornato in carcere.

Il giovane era entrato in carcere lo scorso mese di agosto dopo essere stato condannato, in primo grado, per furto. La sua pena sarebbe terminata a marzo 2008. Il giovane era ospitato all’interno del braccio G 9 del carcere romano, come l’altro detenuto coinvolto nella vicenda. A quanto risulta al Garante, il giovane non si era dichiarato tossicodipendente al momento dell’ingresso in carcere e, dunque, non era in carico al Ser.T..

Sabato scorso Mirko e l’altro recluso coinvolto avevano avuto regolarmente colloqui con i familiari. Dopo quanto accaduto, gli agenti di polizia penitenziaria hanno sequestrato altro stupefacente nelle celle delle persone coinvolte. La direzione del carcere ha avviato un’indagine interna per cercare di capire, fra l’altro, come sia stato possibile far arrivare droga in carcere. "Giudico gravissimo quanto accaduto - ha detto il Garante dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni - Ritengo che le autorità penitenziarie e la magistratura debbano impegnarsi per capire come la droga possa essere entrata in carcere". (Ristretti Orizzonti, 14 novembre 2007)

 

Malattia: 16 novembre 2007, Carcere di Rebibbia (Roma)

 

Fabrizio Ciappetta, detto "Bibì", 44 anni, muore dopo il suo ricovero all’ospedale "Santo Spirito" di Roma. Da tempo viveva, su una carrozzella, nel Centro Clinico del carcere di Rebibbia. "Auspico che le autorità facciano luce sulle cause della morte, avvenuta venerdì scorso, di Fabrizio Ciappetta". È quanto chiede il Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Angiolo Marroni dopo la morte, per cause ancora da accertare del detenuto recluso nel centro clinico di Regina Coeli. Quarantaquattro anni - una ventina dei quali trascorsi in carcere - Ciappetta era uno storico esponente della Banda della Magliana ed aveva alle spalle una lunga storia di carcerazione.

Nel 2000, quando era a Rebibbia Nuovo Complesso (dove lavorava in una coop sociale), fu tra i protagonisti della rivolta per sollecitare condizioni migliori in carcere e per questo fu trasferito nel carcere di Fossombrone. Dopo aver subito una lesione midollare in carcere (sulle cui circostanze è aperto un procedimento penale) le sue condizioni erano progressivamente peggiorate causandogli dolori fortissimi all’addome e la quasi impossibilità di muoversi. Uscito dal carcere in misura alternativa, "Bibì" per combattere il dolore utilizzava un infusore graduale di morfina.

Un anno e mezzo fa era tornato in carcere perché, nonostante le sue condizioni di salute lo costringessero a muoversi con i tutori, aveva compiuto un’altra rapina. Nell’ultimo anno e mezzo era stato recluso a Velletri e a Secondigliano (Napoli) prima di approdare a Regina Coeli. Negli ultimi tempi "Bibì" era arrivato a pesare 120 chilogrammi ed era costretto a stare, su una sedia a rotelle, nel Centro Clinico di Regina Coeli dove i suoi dolori erano in parte alleviati da dosi quotidiane di metadone e cortisone. Ad inizi di novembre anche dal centro clinico era partita una segnalazione della difficoltà della gestione del caso e dell’incompatibilità dell’uomo con il regime carcerario.

Venerdì scorso "Bibì" è stato ricoverato all’ospedale "Santo Spirito" per forti dolori toracici e tachicardia. La sera stessa è morto. Ora la sua salma è al Policlinico "Gemelli" in attesa di autopsia. "La cosa che più mi ha colpito - ha detto il Garante dei Detenuti Angiolo Marroni - è che Fabrizio non chiedeva di uscire dal carcere, ma solo un aiuto per alleviare i dolori di cui soffriva. In questi mesi ci ha parlato a lungo della sua esperienza nel centro Clinico di Regina Coeli e di cosa voglia dire vivere con il dolore nonostante ci siano i mezzi per alleviarlo, come la morfina, che in carcere non viene usata. Mi chiedo se la giusta pena che segue un reato debba comprendere anche il supplemento accessorio di dolore e sofferenza che quest’uomo ha dovuto patire". (Garante detenuti del Lazio, 19 novembre 2007)

 

La Procura indaga sulla morte del detenuto disabile

 

Il pm di Roma Luca Palamara ha avviato una inchiesta sulla morte di un ex esponente della "Banda della Magliana", Fabrizio Ciappetta, deceduto venerdì scorso al Santo Spirito. Secondo quanto si è appreso è già stata disposta l’autopsia e tutte le analisi e gli accertamenti clinici del caso. Intanto la famiglia del detenuto, attraverso i suoi legali di fiducia, gli avvocati Armando Macrillò e Alessandro Lerro, chiedono il "silenzio stampa" sulla vicenda, in forza del fatto che è in corso una indagine e che i genitori di Ciappetta sono da tempo in gravi condizioni di salute.

L’uomo, 44 anni, una ventina dei quali trascorsi in carcere era noto come Bibì. Nel 2000, quando era a Rebibbia Nuovo Complesso (dove lavorava in una cooperativa sociale), fu tra i protagonisti della rivolta per sollecitare condizioni migliori in carcere e per questo fu trasferito nel carcere di Fossombrone. "Dopo aver subito una lesione midollare in carcere (sulle cui circostanze è aperto un procedimento penale) le sue condizioni erano progressivamente peggiorate causandogli dolori fortissimi all’addome e la quasi impossibilità di muoversi. Tanto che era arrivato a pesare 120 chili".

Secondo quanto riportato ieri dal Garante per i diritti dei detenuti, Angiolo Marroni, Ciappetta, una volta uscito dal carcere in misura alternativa, per "combattere il dolore utilizzava un infusore graduale di morfina". Un anno e mezzo fa era poi tornato dentro perché, nonostante le sue condizioni di salute lo costringessero a muoversi con i tutori, aveva compiuto un’altra rapina. Negli ultimi tempi era costretto a stare, su una sedia a rotelle, nel Centro Clinico di Regina Coeli dove i suoi dolori erano in parte alleviati da dosi quotidiane di metadone e cortisone. (Apcom, 20 novembre 2007)

 

Spadaccia: una morte annunciata, doveva essere fuori

 

Il detenuto Fabrizio Ciappetta morto al Cento Clinico di Regina Coeli era stato dichiarato dai medici "incompatibile" con il carcere a causa della malattia di cui soffriva: una mielopatia con tetraparesi spastica a carattere degenerativo provocata da una lesione alla colonna vertebrale che lo costringeva su una sedia a rotelle.

"Fabrizio Ciappetta - ha detto il Garante dei Diritti delle persone private della libertà del Comune di Roma Gianfranco Spadaccia - non doveva stare in carcere. La sua patologia richiedeva un trattamento a base di morfina che all’interno dell’istituto non gli poteva essere somministrata. Chi lo ha tenuto in carcere probabilmente ha accelerato la sua morte ma soprattutto lo ha condannato ad una agonia subita per molti mesi con dolori inenarrabili, che il metadone non riusciva ad attenuare.

Nel mese dell’aprile scorso lo avevo visitato in carcere, avevo parlato con i medici i quali mi avevano detto che non poteva più essere in alcun modo pericoloso a causa delle sue condizioni pressoché totali di immobilità. Forte di questa diagnosi mi sono risvolto al Tribunale di Sorveglianza che ha respinto l’istanza di rimessione in libertà condizionata, motivando con il fatto che il detenuto già una volta, ammesso a regime di arresti domiciliari, si era reso responsabile , nonostante le sue condizioni di salute, di una rapina presso un negozio.

Peccato che i medici avessero dichiarato che l’evolversi della malattia degenerativa escludeva del tutto il ripetersi di questa possibilità. Le sue condizioni furono trattate come "caso del mese" dal mensile telematico dell’Ufficio del Garante del Comune di Roma del maggio scorso. Ciappetta era un criminale aveva precedenti penali gravi, anche di criminalità organizzata, ma era un essere umano, un malato e gli hanno invece inumanamente riservato l’accanimento terapeutico del carcere e il rifiuto di adeguate cure palliative. Dovremmo tutti vergognarci delle leggi che consentono tutto questo e del modo ciecamente punitivo con cui sono applicate. (Ristretti Orizzonti, 20 novembre 2007)

 

Morte per cause non accertate: 18 novembre 2007, Carcere di Sassari

 

Marco Erittu, sassarese, 40 anni, viene trovato agonizzante sul proprio letto, con un lenzuolo intorno al collo e in parte conficcato in bocca: è impossibile salvarlo. Inizialmente si pensa a un suicidio, ma col passare delle ore aumentano i dubbi: è un delitto? Nella cella lavorano per ore i militari del Ris alla ricerca di tracce. La Procura ha disposto l’autopsia.

Gli agenti della polizia penitenziaria trovano l’uomo moribondo in cella. Sul posto giungono i medici del 118 che non possono far altro che constatare il decesso per soffocamento. Si pensa a un suicidio, a una morte per impiccagione. Ma alcuni aspetti sulla dinamica fanno sorgere dei dubbi. Ieri il medico legale Stefano Lorenzoni ha fatto una prima ricognizione del cadavere. Non è emerso al momento alcun elemento che possa chiarire la dinamica. Una incertezza che alimenta i dubbi sulla morte avvenuta nel braccio detenuti comuni di San Sebastiano. Un vero e proprio giallo.

Le perplessità. Nessuno parla di omicidio, ma le perplessità sulla tragica fine di Marco Erittu dopo 48 ore sono ancora in piedi. Per tutto il giorno nella cella della vittima hanno lavorato i militari del Sis, la scientifica dei carabinieri. Rilevate le impronte, repertato materiale biologico. I militari e il sostituto procuratore Giuseppe Porcheddu ieri hanno sentito alcuni testimoni, cercando di ricostruire le ultime ore da vivo di Marco Erittu.

Trovato nella sua cella, riverso sul letto, da un agente penitenziario. Poco prima delle 18 la guardia ha sentito degli strani rumori provenire dalla prigione di Erittu. Sembravano lamenti. La guardia si è precipitata nella cella, ma ormai era troppo tardi. Marco aveva il lenzuolo attorcigliato attorno al collo e sulla faccia. Immediatamente è stata chiamata un’ambulanza del 118, ma l’équipe medica, al suo arrivo nel penitenziario di via Roma, non ha potuto far altro che constare la morte del detenuto. Per stabilire con esattezza le cause del decesso, la procura di Sassari ha disposto l’autopsia sul corpo di Marco Erittu.

Nessuno ci crede. Da diversi giorni chi divideva la vita da recluso con Marco, aveva notato un brusco cambiamento nel suo umore. Era più cupo e silenzioso del solito, ma nessuno poteva immaginare che stesse addirittura pensando di togliersi la vita. E nessuno ancora sembra crederci. La morte di Marco Erittu rialimenta la triste scia di tragedie nel carcere di San Sebastiano. Una catena che sembrava essersi interrotta per sempre: due morti nel 2002, uno nel 2003, un tentativo per fortuna sventato nel 2004. Ora la morte di Marco Erittu.

Ora che il vecchio carcere di San Sebastiano, con tutti i suoi problemi di organico e di inadeguatezza della strutture ha già preso la strada della pensione: fra quattro anni è previsto il trasloco nella nuova sede di Bancali. Lì, nella borgata alle porte della città sono già iniziati i lavori per dotare Sassari di un carcere in cui i detenuti possano vivere come uomini e non come topi. La spesa prevista è di cinquantotto milioni di euro, ma al momento solo quarantanove sono già stati finanziati. (L’Unione Sarda, 20 novembre 2007)

 

Morte per cause non accertate: 20 novembre 2007, Carcere di Cagliari

 

Benedetto Orrù, 38 anni, di Monserrato (Cagliari), è il terzo detenuto che muore nel carcere cagliaritano di Buoncammino nel giro di un mese. Lo trovano in cella all’una e mezzo del mattino. Morto. Stroncato forse da un’overdose di eroina, forse da un cocktail di farmaci.

Era dentro da tredici mesi. Avrebbe dovuto restarci altri cinque anni e mezzo, per effetto di una condanna per rapina e detenzione di arma da fuoco. È l’ennesimo morto, in questo che verrà ricordato come l’autunno orribile di Buoncammino.

La notizia trapela a fatica, dalle mura del carcere che domina il belvedere. Come tutto ciò che accade dentro. Il poco che si sa è presto detto: qualcuno, probabilmente un compagno di cella, si rende conto intorno all’una e mezzo che Benedetto Orrù è privo di conoscenza.

Scatta l’allarme. Si prestano i primi soccorsi, viene anche chiesto l’intervento del 118, ma per il detenuto non c’è più niente da fare: è morto. Ciononostante, il corpo viene portato fuori dal carcere, al Binaghi, dove arriva intorno alle due del mattino. Viene subito avvisato il magistrato di turno, che è il sostituto procuratore Giancarlo Porcu. Su sua disposizione, ieri, sono stati interrogati i compagni di cella di Benedetto Orrù. Sempre il pm ha disposto per stamattina l’autopsia: l’esame, che sarà eseguito dal medico legale Francesco Paribello, sarà fondamentale per fugare i dubbi sulle cause del decesso.

Secondo quanto riferito dal direttore del carcere, Gianfranco Pala, le condizioni di salute di Orrù erano da tempo precarie a causa del prolungato consumo di stupefacenti che gli aveva minato il fisico. Il detenuto era stato visitato in ospedale la scorsa settimana, ma aveva rifiutato il ricovero. Lo stesso Pala racconta di avergli parlato alle 13.30, ore prima della morte, senza notare niente di particolare. "Apparentemente stava bene, compatibilmente con le sue condizioni", ha spiegato il direttore del penitenziario.

Orrù ha consumato un’ultima cena leggera ed è andato a dormire intorno alle 21.30. I suoi due compagni di cella l’hanno sentito russare per un po’. È stato proprio il cessare improvviso di questo rumore a impensierire i due, che gli si sono avvicinati, intorno alle 23.30. Come verificato subito dopo dalle guardie carcerarie chiamate dai compagni di cella e dal medico, Orrù era già morto. Sul suo corpo non c’erano segni di iniezioni, che avvalorerebbero l’ipotesi di un’overdose, né di altra natura. Il detenuto soffriva di gravi patologie al fegato e ai polmoni.

Overdose. La prima ipotesi è quella di un’overdose, quindi una morte accidentale seguita a un’assunzione di stupefacenti, probabilmente eroina. A quel punto, scatterebbe un’inchiesta per appurare come la droga possa essere entrata in carcere e chi l’abbia passata al detenuto. La seconda ipotesi aprirebbe invece le porte a scenari diversi: a stroncare Benedetto Orrù potrebbe essere stato anche un cocktail di farmaci, magari assunto con l’intenzione di suicidarsi. Esclusa, per ora, la pista di un omicidio per avvelenamento.

A far propendere gli inquirenti verso la pista dell’eroina, il vissuto di Benedetto Orrù. Il suo nome compare nelle cronache sette anni fa, quando fu arrestato per aver puntato una siringa sporca di sangue contro un ragazzo per portargli via uno scooter. Poi ci fu il tentato furto di un’auto. Poi l’arresto per violazione della misura cautelare domiciliare.

Il salto di qualità due anni e mezzo fa, quando in base alla prova del Dna fu accusato di essere uno dei due banditi che il 23 maggio 2003 assaltarono pistola in pugno il bar Soleado a Monserrato: una rapina da 600 euro, conclusa con un inseguimento drammatico e una gazzella dei carabinieri finita contro l’auto di un passante. Ma i guai di Benedetto Orrù non erano finiti. Un anno e mezzo fa l’accusa di aver organizzato una trappola ai danni dei clienti di una prostituta: mentre il rapporto veniva consumato, l’uomo avrebbe portato via le loro auto. Il conto giudiziario era arrivato nell’ottobre del 2006: sei anni e quattro mesi di detenzione.

Prima di lui nel carcere di Buoncammino si erano uccisi, il 22 ottobre scorso, Licurgo Floris, 55 anni, condannato per l’omicidio di una quindicenne di Carbonia, trovato impiccato con una cinghia, e un diciannovenne di Sant’Anna Arresi (Sulcis), Massimo Floris, accusato di aver ferito un ragazzo con una coltellata. (L’Unione Sarda, 21 novembre 2007)

 

Perché al "Buoncammino" si muore di droga

 

Il direttore Gianfranco Pala spiega il mese nero del carcere. I detenuti? In gran parte sono tossicodipendenti e afflitti da malattie gravissime. Tre morti e due tentati suicidi in un mese: il direttore Gianfranco Pala spiega l’autunno terribile del carcere di Buoncammino.

Tre morti e due tentati suicidi in un mese: dirigere un carcere con questi numeri non è facile. Gianfranco Pala lo fa. E non si tira indietro se gli si chiede di commentare l’autunno nero a Buoncammino. A patto di distinguere: un conto sono i suicidi, riusciti o tentati, un altro le morti accidentali. Come è il caso, secondo lui, di Benedetto Orrù, il trentottenne di Monserrato trovato cadavere lunedì notte dai compagni di cella.

"L’avevo visto all’ora di pranzo", spiega il direttore: "Sembrava che stesse bene. Per quanto può star bene un uomo minato da decenni di tossicodipendenza: gli mancava un polmone, aveva cisti di echinococco diffuse, epatite B e C, cuore ipertrofico. Fino a dieci giorni fa era ricoverato in ospedale. Ma aveva chiesto di essere dimesso".

 

Potrebbe aver assunto droga. O farmaci…

"Vedremo. Farmaci ne assumeva perché era in terapia. Droga, non credo".

 

Perché tanti morti?

"A Buoncammino, su 100 ingressi, 70 sono tossicodipendenti finiti dentro per reati connessi alla droga: scippi, furti, rapinette, spaccio. Abbiamo 256 detenuti, di cui 32 donne: 48 sono cardiopatici a causa dell’abuso di cocaina, 24 sono positivi all’Hiv, 50 hanno l’epatite. Malattie da cui non si guarisce".

 

Perciò tanti suicidi?

"C’è chi si uccide perché la ragazza lo ha lasciato, chi perché non vuol essere trasferito lontano dall’Isola, chi ha perso lavoro e semilibertà. Altri perché la tossicodipendenza protratta negli anni provoca terribili disagi psicologici, psichici, fisici. Detenuti difficili da gestire. Non vogliono reinserirsi. Appena fuori si rimettono a caccia di soldi per la dose".

 

Il nuovo carcere, a Uta, migliorerà le cose?

"Non credo. Ci saranno più luoghi di ritrovo e campi da calcio, ma il genere di detenuti di cui parlavo prima non è in grado di fare attività sportiva, né ne ha intenzione. Senza contare che serviranno più agenti: per sorvegliare quel muro di cinta ce ne vorranno sette per turno contro i quattro attuali. Significa 21 agenti al giorno. A Buoncammino ne bastano 12".

 

E i sindacati dicono che già oggi l’organico è insufficiente.

"Gli agenti vanno in pensione e non vengono sostituiti. Non si assume: dal 2001 sono andati via 72 uomini e ne sono arrivati, in distacco temporaneo, solo 15".

 

Pochi agenti vuol dire meno sicurezza?

"Non solo. Anche meno diritti per i detenuti. Per udienze, visite mediche, ricoveri, servono agenti. Abbiamo un detenuto piantonato in Psichiatria: solo per lui, ogni giorno, ci sono otto agenti mobilitati". (L’Unione Sarda, 23 novembre 2007)

 

Orrù: ora si attende la perizia tossicologica

 

Neppure l’autopsia, conclusa ieri mattina dal medico legale Francesco Paribello, ha sciolto i dubbi sulle cause del decesso di Benedetto Orrù, il detenuto trentottenne di Monserrato trovato morto in una cella di Buoncammino nella notte fra lunedì e martedì. Sul corpo del giovane non sono stati trovati segni di iniezioni recenti.

Questo, però, non ha ancora permesso di escludere l’ipotesi di un’overdose, ritenuta ancora la più probabile, né quella dell’ingestione di un cocktail di farmaci. Per chiarire cosa abbia provocato la morte sarà necessario aspettare l’esito delle perizie tossicologiche. Ci vorranno un paio di giorni.

Orrù, che per effetto dell’indulto sarebbe uscito dal carcere il prossimo marzo, lunedì sera ha consumato una cena leggera ed è andato a dormire intorno alle 21,30. i suoi due compagni di cella lo hanno sentito russare per un po’. Quando d’improvviso ha smesso, i due gli si sono avvicinati, intorno alle 23,30. Come verificato subito dopo dalle guardie carcerarie chiamate dai compagni di cella e dal medico, Orrù era già morto. (L’Unione Sarda, 23 novembre 2007)

 

Suicidio: 30 novembre 2007, Opg di Aversa (Caserta)

 

Antonio Romanelli, 57 anni, internato nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa in applicazione di una misura di sicurezza, viene ritrovato morto nella sua cella.

Ieri mattina, erano circa le 8.00, le guardie dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa hanno fatto l’usuale giro per aprire le celle dei internati che sarebbero andati a svolgere i loro compiti ai quali erano stati destinati, ma quando hanno aperto una delle celle ed hanno incitato gli occupanti ad alzarsi ed uscire dalle stanze, uno di loro era rimasto immobile nel letto e non aveva neppure risposto alla chiamata. La guardia di turno si è avvicinata alla persona pensando che si trattasse di un atto di disubbidienza, lo ha chiamato più volte poi ha cercato di scuoterlo e così si è accorto che lo stesso era deceduto.

L’uomo era detenuto presso l’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa per un reato commesso tempo fa, sembra che si sia macchiato del reato di omicidio, le vittime sono state delle persone di famiglia, e del quale era ancora in corso il processo definitivo, per cui si trovava in misura di sicurezza provvisoria presso l’Opg da circa un anno. Il Romanelli in carcere era una persona piuttosto tranquilla, si rendeva utile aiutando nei lavori di giardinaggio e non sembra fosse in contrasto con qualche altro detenuto, anzi, sembra che vi andasse d’accordo.

Sembra che il suo decesso sia stata un’ amara sorpresa anche per le persone che dividevano la cella con lui che non si erano accorti di nulla. Sembrava che dormisse, era improbabile quindi, che si potesse ipotizzare che il poveretto fosse invece spirato nel sonno. Almeno è quello che sembra dalle prime indagini sia mediche che giudiziarie, ma le cause del suo decesso per ora restano un mistero. L’uomo ieri sera era andato a dormire tranquillamente, sembra che non si fosse lamentato di sentirsi poco bene, probabilmente è passato dal sonno alla morte senza che neppure se ne accorgesse, o verosimilmente è stato colto da un attacco cardiaco che lo ha portato via in una manciata di secondi.

Almeno questo è quanto è stato detto dai detenuti presenti, ma questo è da verificare dalle indagini che saranno aperte per chiarire la faccenda..., non si può totalmente escludere che qualcuno abbia attentato alla vita della vittima, per uno sgarro o per altro, anche se le apparenze possano dimostrare il contrario. Ma le cause della sua morte si possono solo ipotizzare, per saperne di più occorre aspettare la visita del medico legale.

Il corpo dello sfortunato è stato trasportato presso il reparto di medicina legale dell’ospedale civile San Sebastiano e Sant’Anna di Caserta e si trova a disposizione dell’autorità giudiziaria, in attesa della visita autoptica disposta dal sostituto procuratore di turno alla Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, dott. Ricci che è stato avvertito telefonicamente dell’accaduto dalle guardie penitenziarie. Solo al termine della visita si possono trarre le dovute conclusioni circa l’improvviso decesso del poveretto. Intanto, essendo detenuto per omicidio, la causa decade per la morte dell’autore. (Caserta Oggi, 1 dicembre 2007)

 

L’internato ritrovato morto si è suicidato

 

È stato un suicidio, è questo il risultato della visita autoptica che è stata effettuata ieri mattina sul corpo del detenuto Antonio Romanelli, il 56enne nato a Santi Cosma e Damiano in provincia di Latina che da circa un anno era rinchiuso nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. Ricordiamo che l’uomo è stato trovato venerdì mattina nel letto della sella in cui era rinchiuso insieme ad altri detenuti ed al mattino è stato scoperto il suo cadavere quando la guardia era andato ad aprire la cella ed aveva intimato gli ospiti di uscire, lui era riverso nel suo letto come se stesse dormendo.

Nessuno si era accorto di niente durante la notte, nemmeno un rumore o forse è stato un disinteressamento voluto. Fatto sta, che l’uomo durante la notte, mentre gli altri dormivano, si è stretto al collo la camicia e si è strangolato. L’uomo era detenuto per aver ucciso in un raptus di follia, uno dei figli e la moglie, accusa per la quale ancora non era finito il processo a suo carico. Probabilmente in tutto questo tempo, si è potuto rendere conto del suo malsano gesto e delle ripercussione che ha avuto, ed è nato in lui un profondo senso di colpa con il quale non si sentiva più di vivere.

Aveva distrutto la sua famiglia, il giudizio degli altri due figli rimasti probabilmente era divenuto insopportabile, lui con tutto ciò non poteva continuare a vivere, nonostante l’apparenza tranquilla, nel suo cuore c’era un mare agitato, un malessere senza fine. Ma la parola fine l’ha voluta mettere lui in modo drammatico, ancora dolore per i due figli che non trovano pace, ancora una morte assurda che li ha scossi e non regala loro alcuna serenità. Il corpo di Antonio si trova ancora nel reparto di medicina legale del nosocomio casertano in attesa che vengano svolte le pratiche per tornare a casa ed essere sepolto. L’ultimo atto di una tragedia tremenda. (Caserta Oggi, 3 dicembre 2007)

 

Suicidio: 30 novembre 2007, carcere di Reggio Calabria

 

Giuseppe Rodà, 53 anni, viene trovato impiccato nella sua cella: era stato arrestato domenica 20 ottobre 2007, poche ore dopo aver ammazzato a colpi di lupara, il giovane barista di San Carlo Leonardo Modaffari ("Sono stato io, il fucile è mio, l’ho ucciso perché ieri sera, dopo che lo avevo insultato, mi ha sputato")

L’immortale Fabrizio De Andrè nella "Ballata del Michè", cantava… Quand’hanno aperto la cella, era già tardi perché, con una corda sul collo, freddo pendeva Michè… domani alle tre, nella terra comune cadrà, senza il prete e la messa perché di un suicida non hanno pietà…

Come Michè, Giuseppe Rodà, si è tolto la vita in prigione. Entrambi avevano ammazzato una persona. Sia pure con motivazioni diverse. Giuseppe Rodà, ha scelto di andarsene l’ultimo giorno del mese dei morti: il 30 novembre, di pomeriggio.

Nella sua cella, alla Casa Circondariale di Via San Pietro a Reggio Calabria. Dov’era detenuto per omicidio volontario aggravato. Domenica 20 ottobre 2007 aveva assassinato a colpi di lupara, esplosi a bruciapelo, il giovane barista Leonardo Modaffari ("Sono stato io, il fucile è mio, l’ho ucciso perché ieri sera, dopo che lo avevo insultato, mi ha sputato").

Il corpo dello sventurato barista venne trovato dall’esterrefatto, incredulo e scioccato fratello della vittima, che avvisò il maresciallo Carlo Livia, comandante della locale stazione dei Carabinieri (che si muoveva sotto le direttive del capitano Onofrio Panebianco, comandante della compagnia di Melito, competente per territorio.

Tutti agli ordini del colonnello Leonardo Alestra, comandante provinciale. Coordinati dal magistrato Giuseppe Buontempo, sostituto procuratore della repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria. Il "maresciallo Rocca", partendo da un ombrello inzuppato d’acqua che il killer nella fretta, aveva dimenticato dentro l’esercizio pubblico è risalito all’assassino ed al movente del delitto; e quindi all’arresto.

Quanto prima doveva essere celebrato il processo a carico del Rodà. Lo stesso magistrato dottor Buontempo, ha avviato le indagini per risalire al movente del suicidio e per acclarare l’esatta dinamica dell’insano gesto. E per chiarire se vi siano delle responsabilità dirette o indirette del vigilatore. (Quotidiano di Calabria, 3 dicembre 2007)

 

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