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"Morire di carcere": dossier gennaio 2005 Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, episodi di overdose
Continua il monitoraggio sulle "morti di carcere", che nel mese di gennaio registra 12 nuovi casi: 10 suicidi, 1 omicidio e 1 morte per malattia.
Suicidio: 2 gennaio 2005, carcere di Sulmona
Guido Cercola, 60 anni, di origini romane, si impicca in cella utilizzando i lacci delle scarpe. A scoprirlo un agente di polizia penitenziaria, durante un servizio di perlustrazione. L’uomo, ricoverato nel vicino ospedale di Sulmona, sarebbe morto durante il tragitto. Nel novembre del 1992 era stato condannato all’ergastolo per l’attentato del 23 dicembre 1984 al rapido 904, una strage nella quale morirono 16 persone e 267 rimasero ferite. Cercola era stato accusato di aver aiutato il presunto cassiere della mafia Pippo Calò ad organizzare l’attentato. Si tratta del quarto suicidio consumatosi nel carcere di massima sicurezza abruzzese dal 2003. Il primo risale alla vigilia di Pasqua di due anni fa, quando la direttrice dell’Istituto di Pena, Armida Miserere, si tolse la vita con un’arma da fuoco, all’interno del suo studio. Nei mesi successivi seguirono altri due casi: a suicidarsi due esponenti legati ai clan della criminalità organizzata. E nel corso dell’estate, il 16 agosto, quello di Camillo Valentini, il sindaco di Roccaraso. "La notizia di un suicidio non fa mai piacere e inoltre, quanto accaduto a Sulmona, rischia di allontanare maggiormente dalla verità" ha commentato il presidente dell’associazione familiari vittime del rapido 904, Antonio Celardo. "Con la sua morte viene meno un’ulteriore possibilità di fare piena luce sulla vicenda. Era uno degli uomini chiave del processo. Credo che sarebbe stata necessaria una maggiore sorveglianza all’interno del carcere". (Adnkronos, 2 gennaio 2005)
Suicidio: 6 gennaio 2005, Ragusa (arresti domiciliari)
Lucilla Trovato, 29 anni, si impicca in casa, dove era agli arresti domiciliari. Ha lasciato due bambine, una di sei mesi, l’altra di quattro anni. Arrestata dai carabinieri il 22 dicembre scorso nell’operazione "Sylvie", con altre otto persone, accusate di spaccio di stupefacenti in concorso, Lucilla aveva ottenuto gli arresti domiciliari nella sua casa di Bruca, per accudire la sue bambine, troppo piccole per stare lontane dalla madre o, ancora peggio, sopportare la vita carceraria. Uscita dal carcere però ha vissuto il trauma della morte della sorella Giovanna che viveva a Bagnocavallo, in provincia di Ravenna. Suicida. Giovanna, dopo essersi allontanata dalla Sicilia per cambiare aria e vita, si è tolta la vita a Natale. A Pozzallo, dove era nata, Giovanna è tornata in una bara. Una vita difficile quella di Lucilla che risultava essere vittima della droga, dell’ambiente che in cui viveva e probabilmente di sé stessa. In un biglietto, che riguarda Lucilla e i suoi cari, forse ha spiegato perché ha scelto di fermarsi. Alle figlie però nessuno potrà mai spiegare perché la loro mamma non c’è più. Ha lasciato un posto vuoto nel letto di notte. Quando il marito si è svegliato di soprassalto e non l’ha vista nel letto, si è alzato a cercarla. L’ha trovata e ha tentato di tutto per riportarla in vita. Come i medici dell’ospedale. Troppo tardi. Alle 3, come dice il manifesto funebre, Lucilla si è spenta. Lo stesso manifesto che tra i familiari che l’hanno persa, annovera i nonni. Quasi a rimarcare la giovane età di una bella ragazza, moglie e mamma di due bimbe, incappata in vicende più grandi di lei. Vicende che vedono protagonista, ancora una volta, quel lento veleno che fa pagare a caro prezzo, e non poche volte con la vita, quei pochi attimi di incoscienza scambiati per estasi. Lucilla ha capito. Troppo tardi per avere la forza di tornare indietro. Troppo presto per morire. Alle 10 i funerali di Lucilla saranno celebrati a Pozzallo nella chiesa di San Paolo Apostolo. Poi, sarà sepolta nel cimitero di contrada Carpintera. (La Sicilia, 8 gennaio 2005)
Omicidio: 8 gennaio 2005, Carcere di Pavia
Ennio Bertoglio, 57 anni, viene ucciso dal compagno di cella, perché sospettato di pedofilia. "L’ho colpito con la caffettiera perché non sopportavo di dividere la cella con un uomo responsabile di abusi sui minori. Tra detenuti esiste un codice d’onore che va rispettato". Diego Cantone, napoletano di 26 anni, in carcere per reati contro il patrimonio, ha spiegato così ai magistrati le ragioni che il 3 gennaio lo hanno portato a picchiare selvaggiamente il suo compagno di cella. Il detenuto napoletano adesso dovrà rispondere dell’accusa di omicidio colposo. I magistrati hanno disposto l’autopsia sul corpo di Bertoglio. Gli esami dovranno chiarire la dinamica della lite e far luce su ciò che è successo il pomeriggio del 3 gennaio, quando il capo turno della polizia penitenziaria di Torre del Gallo ha scoperto Bertoglio agonizzante sul pavimento della sua cella con la cintura legata al collo e la fronte fracassata a colpi di caffettiera. Diego Cantone, che inizialmente era stato indagato per tentato omicidio, sarà ascoltato nuovamente dai magistrati questa mattina. L’aggressore avrebbe ammesso le sue responsabilità richiamandosi a un "codice d’onore" che esiste fra le mura del carcere e che prevede vita dura ai condannati per pedofilia. Ennio Bertoglio doveva ancora scontare un anno e mezzo di carcere per reati comuni e in passato era stato coinvolto anche in indagini per abusi su minori. Un particolare che avrebbe innescato la rabbia del suo compagno di cella, come ha rilevato il suo legale, Pierluigi Vittadini. "Aspettiamo i risultati degli esami autoptici per chiarire la dinamica - ha sottolineato l’avvocato -. Il mio assistito ha risposto a una provocazione che lo ha portato a perdere la testa". Intanto i medici del San Matteo hanno provveduto all’espianto degli organi di Ennio Bertoglio come espressamente chiesto dai parenti. Sono state salvate le vite di quattro ammalati pavesi. (Corriere della Sera, 10 gennaio 2005)
Suicidio: 8 gennaio 2005, Casa di Reclusione di Padova
Bayrem Mestiri, 21 anni, tunisino, si uccide infilando la testa in un sacchetto di plastica, normalmente usato per raccogliere la spazzatura. Per rendere la fine più rapida riempie il sacchetto con il gas della bomboletta da camping, prima di infilarselo in testa. Poche ore prima aveva tentato di uccidersi, impiccandosi alle sbarre della finestra, ma era stato salvato in tempo. Però si è deciso di lasciarlo nella sua cella, invece di trasferirlo nella cosiddetta "cella liscia" (priva di qualsiasi suppellettile), come spesso avviene in questi casi. (Ristretti Orizzonti, 11 gennaio 2004)
Suicidio: 12 gennaio 2005, Carcere di Piacenza
Mohamed El Mansouri, 30 anni, marocchino, si impicca nella sua cella della casa circondariale di Piacenza con l’elastico dei boxer. Si è suicidato nel giorno della ripresa del processo, per corruzione tra detenuti e guardie penitenziarie al carcere di Monza per introdurre alcol e droga, che lui stesso aveva in parte innescato con la sua denuncia. Mohamed era detenuto per omicidio e tentato omicidio di due ucraini, durante una rissa avvenuta nel capodanno del 2003 nell’hinterland milanese. Il pm del processo monzese Flaminio Forieri, amareggiato per la tragica notizia, non collega necessariamente il suicidio alla vicenda di Monza. Ma, se di coincidenza si tratta, è senz’altro una coincidenza angosciante. Di certo c’è che l’extracomunitario si era fatto terra bruciata tra i detenuti dopo avere sporto la sua denuncia tanto che da Monza era stato trasferito prima ad Alessandria, poi a Cremona e poi ancora a Piacenza, perché tacciato di essere un "infame". (Il Giorno, 14 gennaio 2005)
Suicidio: 12 gennaio 2005, Cpt di Lamezia Terme (CT)
Said Zigoui, 45 anni, marocchino, si uccide gettandosi dalla finestra dell’Ospedale di Lamezia Terme. Era stato ricoverato il 7 dicembre 2004, poiché accusava forti dolori all’addome. Fino a quella data era "trattenuto", in attesa dell’espulsione, presso il Centro di Permanenza Temporanea della cittadina calabrese. Scarcerato nel novembre 2004, dal carcere di Frosinone, aveva già scontato 5 anni di pena, per reati connessi allo spaccio di stupefacenti. Avrebbe dovuto uscire dal carcere, un uomo libero. Invece era stato trasferito nel Cpt calabrese. Gli avvocati della moglie hanno chiesto che vengano effettuati gli esami autoptico e tossicologico. L’autopsia si svolgerà questa mattina. (Il Manifesto, 14 gennaio 2005)
Assistenza sanitaria disastrata: 17 gennaio 2005, Carcere di Cagliari
Nabil Jlassi, 32 anni, tunisino, sofferente per problemi cardiaci, muore in cella: per motivi religiosi rifiutava le cure dei sanitari del carcere. Lo hanno trovato i compagni di cella quando ormai non respirava più. La morte del 32enne tunisino mette fine all’inchiesta sull’omicidio di Luciano Zucca, il muratore assassinato il 20 maggio nel suo appartamento di via Nebida, al termine di un rapporto sessuale a pagamento. Questa mattina, al Policlinico universitario di Monserrato, sarà effettuata l’autopsia ordinata dal sostituto procuratore Danilo Tronci, che coordinava le indagini sul delitto e che era di turno quando la direzione del carcere di Iglesias ha comunicato la morte dell’algerino. La notizia, avanti ieri pomeriggio, è stata data anche alla ex compagna di Nabil Jlassi, una donna cagliaritana che dal tunisino ha avuto tre figli e che si era riavvicinata al giovane dopo l’arresto, avvenuto due giorni dopo la scoperta del delitto. Il tunisino, difeso dall’avvocato Sandro Mereu, aveva subito confessato di essere l’autore di quel delitto. In sostanza, aveva ucciso Zucca, col quale aveva concordato un rapporto sessuale a pagamento, perché quest’ultimo si sarebbe rifiutato di pagargli il compenso pattuito: neanche un euro. "L’ho placcato sul letto, gli ho stretto il braccio attorno al collo, poi col cavo del ferro da stiro ho stretto ancora. Non lo volevo uccidere, ma soltanto stordirlo per poter frugare in casa e mettere insieme quanto mi spettava": il tunisino aveva risposto così davanti al Gip Luisanna Melis, nell’udienza di convalida del fermo nel carcere di Buoncammino. Era la prima volta, il 20 maggio 2003, che Nabil vedeva il muratore di Is Mirrionis: "L’ho incontrato in piazza Matteotti, dove andavo spesso: sono padre di tre figli e non ho un lavoro, lo facevo per raccogliere i soldi necessari alla mia famiglia. Mi ha dato appuntamento per il pomeriggio in via Is Mirrionis, erano le 16.30, siamo andati a casa sua. Non gli ho chiesto una cifra precisa, ho lasciato che decidesse lui, invece: eravamo ancora a letto quando mi ha comunicato che non mi avrebbe dato nulla. Non sono riuscito a contenere la rabbia, l’ho bloccato sul letto e soffocato col braccio, non poteva reagire. Poi ho preso il ferro da stiro e ho stretto il cavo al collo. Non lo volevo uccidere ma stordire, per poter poi frugare in casa. Non mi sono accorto che fosse morto: ho preso due cellulari, li ho rivenduti per 20 euro". Il racconto collimava con l’autopsia effettuata dal medico legale Francesco Paribello: morte per strangolamento. L’improvviso decesso - le cui cause sono da chiarire - del tunisino arriva quando il pm si accingeva a chiudere l’indagine. Molto probabilmente l’avvocato Mereu avrebbe suggerito l’abbreviato, il rito che, in caso di condanna, assicura lo sconto di un terzo sulla pena. Ora invece il caso è definitivamente chiuso. A Nabil Jlassi si era arrivati attraverso un’indagine negli ambienti omosessuali, poi l’acquirente di uno dei due cellulari aveva riconosciuto Nabil attraverso le foto segnaletiche: il tunisino aveva precedenti per traffico di droga. Quanto alla vittima del delitto, Luciano Zucca, soffriva di una grave insufficienza renale e ogni settimana si sottoponeva alla dialisi. La mattina del 21 maggio, però, aveva saltato l’appuntamento, i medici si erano insospettiti e avevano cercato di rintracciarlo al cellulare prima di telefonare alla nipote. La donna era andata a casa e aveva trovato il corpo senza vita dello zio sul letto, la pancia in giù, le braccia rivolte verso l’alto, maglietta bianca, slip, calzini. Attorno al collo, il cavo del ferro da stiro. (L’Unione Sarda, 19 gennaio 2005)
Suicidio: 17 gennaio 2005, Carcere di San Josè (Costarica)
Roberto Robercio, 52 anni, originario di Savona, si impicca nel bagno dell’infermeria situata all’interno del penitenziario di San Josè, dove si trovava rinchiuso per scontare i 25 anni di reclusione inflittigli dal tribunale della capitale del Costa Rica per l’assassinio di un tassista. Due giorni prima di uccidersi Robercio aveva telefonato alla madre, annunciandogli l’intenzione di mettere fine alla sua esistenza. Una telefonata drammatica, raccontata con la voce soffocata dal pianto e dal dolore dalla stessa madre del suicida. "Roberto - racconta Jole Musso, 84 anni, savonese (abita nel quartiere delle Fornaci), madre di Robercio - mi aveva telefonato cinque o sei giorni fa. Mi ricordo che era sabato, verso mezzogiorno. Mi ha chiesto come stavo e poi ha subito aggiunto che non ce la faceva più ad andare avanti, che le sue condizioni di salute con il passare del tempo stavano peggiorando e che se la situazione non fosse cambiata si sarebbe suicidato. So che diceva il vero, anche perché a causa del progredire della sua malattia aveva delle difficoltà a parlare. Gli ho risposto di stare attento a quello che diceva e soprattutto a quello che faceva, ripetendogli più volte di non fare delle stupidaggini. Era rimasto in silenzio per alcuni secondi, poi mi aveva detto soffro troppo, soffro veramente troppo". Subito dopo quella frase Roberto Robercio aveva chiuso la comunicazione e invano la madre aveva cercato a sua volta di mettersi in contatto con il penitenziario di San Josè dove il figlio era rinchiuso. "Temevo che potesse compiere questo gesto disperato - prosegue la signora Musso - Tanto è vero che nella tarda mattinata di ieri (mercoledì per chi legge, n.d.r.;) quando i carabinieri hanno suonato al citofono di casa dentro di me sapevo già cosa stavano per comunicarmi". Jole Musso si è così subito messa in comunicazione con l’ambasciata italiana a San Josè, riuscendo a parlare con la funzionaria del ministero degli Esteri che più di altri teneva i contatti con Robercio. "Mi ha raccontato nei dettagli quello che era successo - spiega ancora Jole Musso - Lunedì mattina Roberto si è svegliato piuttosto presto, verso le sei, e ha subito raggiunto il bagno dicendo che voleva fare una doccia. La sua permanenza prolungata all’interno del bagno ha finito con l’insospettire il personale della struttura che alla fine, dopo averlo inutilmente chiamato più volte, ha forzato la porta. Per Roberto, però, non vi era purtroppo più nulla da fare. Era ormai senza vita... Si era impiccato dentro la doccia". Da quando si trovava rinchiuso in carcere a San Josè, sentiva spesso suo figlio? "Abbastanza - risponde la madre di Robercio - mi telefonava almeno un paio di volte al mese. E poi mi scriveva un sacco di lettere, alle quali ho sempre risposto. Ma nelle ultime settimane avevo percepito che le sue condizioni di salute erano peggiorate. Stava soffrendo e per questo è arrivato al disperato gesto di togliersi la vita". (Secolo XIX, 21 gennaio 2005)
Suicidio: 21 gennaio 2005, Varese (arresti domiciliari)
Efisio Serra, 55 anni, di origini cagliaritane, si uccide con un colpo di pistola dopo aver ucciso la sorella Teresa, la nipote Isabella e una cliente del loro bar. Aveva ottenuto gli arresti domiciliari poco prima di Natale, lasciando il carcere di Ferrara, dove scontava 9 anni per rapina: al beneficio avevano contribuito il fatto che Serra aveva collaborato con la giustizia e che era in precarie condizioni di salute. I parenti delle vittime hanno chiesto conto dell’opportunità di quel provvedimento che, all’inizio, pareva fosse stato firmato dai giudici di sorveglianza di Bologna, competenti sul carcere di Ferrara. Ma ieri dall’Emilia una dichiarazione a sorpresa: "Abbiamo sì concesso la detenzione domiciliare - dice Giampietro Costa, presidente del Tribunale di sorveglianza bolognese -, ma le modalità esecutive sono state stabilite dai giudici di Varese, dove risiedeva il detenuto. È altrettanto vero che fa parte dell’istituto della detenzione domiciliare la facoltà di uscire per le esigenze vitali". Ma a Varese questa versione non collima: dal palazzo di giustizia fanno sapere che il provvedimento riguardante Serra è stato trasmesso da Bologna completo già di tutti i dettagli, compresa la facoltà di uscire durante il giorno, e che qui non è stato più modificato. Il dubbio, dunque, rimane. Da Bologna, infine, giunge notizia che gli ispettori ministeriali sono arrivati nelle ultime ore proprio negli uffici del tribunale di sorveglianza. Ufficialmente si tratterebbe di un controllo di routine, legato alla concessione di alcuni permessi premio. Tuttavia un’analoga verifica era stata effettuata, nei medesimi uffici, appena quattro mesi fa. (Corriere della Sera, 25 gennaio 2005)
Suicidio: 22 gennaio 2005, Carcere di Reggio Emilia
Detenuto italiano, 43 anni, si impicca con i lacci delle scarpe. Gli agenti della polizia penitenziaria lo trovano quando ormai è troppo tardi e al medico non rimane che constatare il decesso. Tra le cause scatenanti forse anche l’onta di essere finito dietro alle sbarre agli occhi della figlioletta, che adorava. Era stato arrestato venerdì mattina dopo aver tentato di rapinare una farmacia a Borzano di Albinea. Voleva un farmaco, ma non aveva la ricetta. Davanti al rifiuto del farmacista, ha estratto un coltello da cucina, di quelli con la punta arrotondata. Immediatamente immobilizzato dal titolare, ha atteso in modo pacifico l’arrivo dei carabinieri che l’hanno arrestato per tentata rapina e portato in carcere. Era già dietro le sbarre quando ha telefonato alla moglie. "Non riesco ad andare a prendere la bambina a scuola - le avrebbe detto -. Per favore, pensaci tu". Nessun accenno a dove fosse e perché. Non voleva che la figlia sapesse quello che aveva fatto. All’indomani, non avendo più notizie del marito, la donna ha telefonato ai carabinieri. Solo allora ha saputo dell’arresto. Da lì a poche ore l’uomo si sarebbe tolto la vita. L’udienza di convalida dell’arresto era in programma per ieri, ma non ha voluto attendere. La notizia della morte è arrivata nella casa della coppia, in un anonimo condominio poco fuori dalle mura cittadine, sotto sera. Poche parole per telefono: "Suo marito è morto, si è suicidato". Parola all’avvocato. "Presenteremo un esposto alla Procura (il titolare dell’inchiesta è il sostituto procuratore Luciano Padula, ndr) affinché questo accerti, anche tramite autopsia, se l’arresto è stato legittimo, se lo stato psichico e emotivo dell’indagato al momento dell’ingresso in carcere è stato sottovalutato e se i soccorsi sono stati efficaci e tempestivi". La vedova ha affidato all’avvocato Maria Napolitano il compito di far luce sull’intera vicenda. "Con ogni probabilità sarebbe uscito dal carcere oggi (ieri, ndr) - continua il legale -. Era incensurato e non ha opposto resistenza, elementi che ci fanno pensare che il suo stato psichico e emotivo dovesse escludere la detenzione per 48 ore. Depositeremo anche un’istanza per avere la copia integrale del procedimento penale a carico della vittima. Voleva un farmaco per il quale non aveva la ricetta, e dalla reazione che ha avuto possiamo desumere uno stato di dipendenza. Chiederemo infine di sentire i farmacisti. Era un padre di famiglia, incensurato, ha estratto un coltello innocuo e ha atteso in modo pacifico l’arrivo dei carabinieri. Era disperato. Occorrevano cautele diverse". (Il Resto del Carlino, 25 gennaio 2005)
Suicidio: 28 gennaio 2005, Carcere di Modena
Francesco Pastoia, 62 anni, s’impicca in cella. Era stato fermato a Castelfranco Emilia solo tre giorni prima. Era accusato di essere uno dei gregari più fidati del capomafia latitante Bernardo Provenzano e un sicario delle cosche. Lo hanno scoperto venerdì mattina gli agenti della polizia penitenziaria del carcere di Sant’Anna. Pastoia era il perno dell’inchiesta che ha portato lunedì notte al fermo di 50 persone. Contro di lui c’erano prove schiaccianti della sua colpevolezza in molti affari illeciti che riguardavano gli appalti pubblici, ma soprattutto l’omicidio di un imprenditore, assassinato lo scorso ottobre a Palermo e di cui gli agenti della squadra mobile hanno registrato in diretta le fasi di preparazione, intercettando le parole di Pastoia mentre si preparava ad effettuare l’agguato. Ma era anche il gestore delle comunicazioni della "primula rossa" con gli altri capimafia. Pastoia, che diverse volte in passato era entrato e uscito dal carcere, anche dopo aver scontato condanne per mafia, durante l’udienza di convalida davanti al gip di Modena si era avvalso della facoltà di non rispondere. Il giudice aveva convalidato l’arresto e stava trasmettendo ai colleghi di Palermo il fascicolo. Pastoia ha avuto modo di leggere nel provvedimento di fermo che lo riguardava le centinaia di conversazioni registrate di cui non si sarebbe mai aspettato. Il boss, che per molti anni ha organizzato e gestito la latitanza di Provenzano, rivela, involontariamente, di aver violato diverse regole di Cosa nostra, e di aver tentato di "prendere in giro" Provenzano su alcuni delitti. Non solo, parlando con un suo amico, confessa involontariamente di aver commesso omicidi senza l’autorizzazione dei capimafia delle zone in cui sono stati effettuati. Secondo gli investigatori questi comportamenti, svelati dalle sue stesse parole registrate dalle microspie, hanno rovinato la figura di Pastoia agli occhi di Provenzano. (Corriere della Sera, 28 gennaio 2005)
Suicidio: 31 gennaio 2005, Carcere di Piacenza
Roberto Del Nero, 49 anni, si impicca in cella. Era detenuto dal novembre 2004, in quanto accusato dell’omicidio della convivente ungherese, Melinda Szucs, 34 anni, il cui corpo strangolato e bruciato fu trovato il 19 aprile 2004 nell’area di un cantiere in località Le Mose, alla periferia della città emiliana. Per identificare la donna gli specialisti della polizia impiegarono circa un mese. A dare l’allarme sono stati gli agenti di polizia penitenziaria della casa circondariale, durante un giro di controllo. Del Nero si era dichiarato innocente negli interrogatori ai quali era stato sottoposto dai magistrati piacentini. Indagato con l’ipotesi di accusa di omicidio volontario già a fine giugno, era stato arrestato il 28 novembre dalla Squadra Mobile in un albergo di Stresa mentre stava facendo colazione con un facoltoso amico americano. Il Tribunale della Libertà aveva rigettato la successiva istanza di scarcerazione presentata dal difensore, l’avvocato milanese Alessandro Bastianello, che negli ultimi giorni aveva preparato il ricorso in Cassazione. (Corriere della Sera, 2 febbraio 2005)
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