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"Morire di carcere": dossier giugno 2004 Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, episodi di overdose
A giugno abbiamo registrato 13 "morti di carcere": 9 suicidi, 2 per malattia e 2 per cause non accertate. è iniziata l'estate, anche per i detenuti...
Suicidio: 6 giugno 2004, Carcere di Bologna
Bebika Husovic, 38 anni, di origine bosniaca, si impicca nella sua cella. Era stata prelevata solo 24 ore prima dal campo nomadi bolognese di Via Peglion, nel quale era agli arresti domiciliari, perché doveva scontare un cumulo di pene di 3 anni e mezzo. Lascia 6 figli (5 le erano stati tolti dal Tribunale di Minori e il più grande vive con i nonni) e il marito, detenuto nel carcere di Terni. I parenti e l’avvocato accusano: "Il suo è un suicidio annunciato, ci aveva già provato". La direttrice della Dozza replica: "Non c’erano precedenti, non era una detenuta a rischio". Al campo di via Peglion, il clan degli Husovic non si da pace. Disperazione e proteste, tanto che sono dovuti intervenire vigili urbani e poliziotti. Uno dei suoi figli piange a dirotto. "Lo sapevano che qualche mese fa mia madre aveva cercato di ammazzarsi là dentro. Uno di noi, un "nomade", come voi ci chiamate, non resiste in un penitenziario. L’ha fatto per noi, per il dolore di stare lontana dai suoi figli. Soprattutto per i miei fratelli più piccoli. Cinque, tutti in istituto, allontanati dal Tribunale. Mia madre era stanca. Da tre mesi chiedeva un permesso per incontrare mio padre Ibrahim, detenuto a Terni. Glielo hanno negato. Nemmeno questo. La seppelliremo qui, a Bologna. Ma non faremo il funerale se mio padre non otterrà un permesso per vederla l’ultima volta. E non vogliamo l’autopsia". Due le inchieste sul suicidio in cella: quella ordinaria della Procura (il Pm Enrico Cieri ha disposto l’autopsia, ma ieri le forze dell’ordine hanno detto ai parenti che verranno fatti solo degli accertamenti esterni) e quella "interna" alla Dozza, un accertamento per verificare eventuali lacune nella sorveglianza. Ma secondo i primi riscontri, non ci sarebbero responsabilità o anomalie nei controlli. Beba, come la chiamano tutti al campo, viveva in Italia da 30 anni. In marzo era stata rinchiusa alla Dozza per una decina di giorni, poi aveva ottenuto gli arresti domiciliari nell’accampamento di via Peglion. Baracche nel fango e bimbi scalzi e pochi metri dalla Bologna - Padova. Sabato pomeriggio i carabinieri sono andati lì per eseguire il nuovo d’arresto, ordinato dalla magistratura di Firenze. Bebika ha trascorso la notte nella sezione femminile della Dozza in cella con un’altra detenuta. "Ma domenica mattina è stata spostata in una cella singola - spiega la direttrice - perché la compagna si era lamentata per il suo comportamento. Bebika continuava a chiedere insistentemente degli abiti di ricambio, ma nessuna protesta che potesse far pensare a qualcosa di più grave". Il comportamento della donna, spiega Emanuela Ceresani, è rimasto propositivo e orientato. "Ha partecipato all’ora d’aria in cortile, domenica mattina ha parlato con un ispettore delle Guardie, chiedendo solo il cambio d’abiti e all’ingresso il controllo dello psicologo non aveva rivelato niente di strano. A mezzogiorno la donna ha chiesto a una detenuta che distribuisce il pranzo nella sezione femminile a che ora le avrebbero portato da mangiare". Il pranzo è arrivato un quarto d’ora dopo. E in quindici minuti Beba ha apparecchiato il suo teatrino di morte nella cella della Dozza. Ha fatto a pezzi il lenzuolo della branda, l’ha tagliato in piccole strisce, le ha intrecciate, poi ha fatto un rudimentale cappio. Ha fissato l’altra estremità all’attaccapanni sulla porta del bagno, a non più di un metro e 80 d’altezza. Tanto è bastato. Non è la prima volta che accade alla Dozza. Sulla storia che ha spinto gli Husovic verso il crimine grava una controversa vicenda: anni fa avevano acquistato a Bologna il terreno sul quale vivevano ma il Comune li aveva espropriati - senza alcun indennizzo - appunto perché la zona era troppo a ridosso della tangenziale. Beba e suo marito erano ricorsi al Tar (Tribunale amministrativo regionale) che non ha ancora definito la causa. (Repubblica 9 giugno 2004)
Suicidio: 7 giugno 2004, Carcere di Siracusa
Vincenzo De Rosa, 42 anni, si impicca in cella. Originario di Afragola, ex collaboratore di giustizia, da qualche tempo soffriva di una grave crisi depressiva. Condannato per associazione camorristica e altri reati, ha usato come cappio una maglia-casacca, annodandone una estremità alla presa d’aria. De Rosa si trovava in isolamento, per ragioni connesse all’instabilità mentale derivante dalla crisi depressiva. Nel suo insano gesto ha sicuramente influito non poco la depressione - avvisano i medici e la direzione del carcere. "Per aiutarli a combattere la depressione i detenuti sono sottoposti a visite psicologiche e psichiatriche", asseriscono dalla direzione. Per le stesse occorrono spese, per i medici e per i farmaci ed ultimamente, secondo le linee governative, ci sono stati dei tagli sopratutto per le visite specialistiche negli istituti di pena. Dalla direzione hanno sempre ribadito che è rimasto comunque lo stretto necessario. Vincenzo De Rosa doveva scontare una pena residua di sette anni. Non ha resistito alla depressione di passare altri sette lunghi anni in cella ed, a modo suo, ha preferito una strana libertà. All’arrivo dei soccorsi non c’era più niente da fare. (La Sicilia, 8 giugno 2004)
Suicidio: 11 giugno 2004, Carcere di Sollicciano (Firenze)
Khaled, detenuto algerino, 34 anni, si uccide nella sua cella, impiccandosi ai rinforzi delle sbarre in cemento, apposti in seguito alle ben note evasioni. Il giorno precedente un altro detenuto aveva tentato il suicidio, nell’identico modo, ma era stato salvato in extremis. (Nove da Firenze, 12 giugno 2004)
Suicidio: 12 giugno 2004, Carcere di Bologna
Detenuto italiano, 36 anni, si impicca alle sbarre della finestra della sua cella utilizzando un k-way. Il cadavere viene trovato da un agente di polizia penitenziaria, che solo venti minuti prima era passato davanti alla cella e lo aveva visto ancora in vita. Il detenuto, condannato ad un pena lieve (poco meno di 4 anni), godeva di permessi premio ed era rientrato dall’ultimo l’8 giugno. Tra poco avrebbe ottenuto la semilibertà e già, oltre a godere di numerosi permessi, viveva nella sezione a celle aperte. Inoltre, molto presto avrebbe anche finito di scontare i quattro di anni di carcere che gli erano stati inflitti per un cumulo di pena. (Emilia Net, 16 giugno 2004)
Morte per cause non chiare: 12 giugno 2004, Carcere di Torino
Roberto Leo, 39 anni, muore in carcere, mentre sta facendo il suo lavoro di "scopino". Secondo i primi accertamenti, l’uomo sarebbe morto per infarto, ma soltanto l’autopsia potrà chiarire con precisione le reali cause: ex collaboratore di giustizia, a cui nel 1998 era stato revocato il programma di protezione, Roberto Leo si è accasciato in un corridoio dell’istituto di pena mentre stava facendo le pulizie. È intervenuto immediatamente un medico, ma non c’è stato nulla da fare. Leo era stato arrestato l’ultima volta nel dicembre del 2000 dalla polizia di Torino perché erano diventate definitive alcune condanne per complessivi 24 anni, 10 mesi e tre giorni per omicidio, violazione della legge sulle armi e stupefacenti. Quando fu rinchiuso nella casa circondariale di Torino, all’interno erano già presenti due fratelli per altre vicende. (Ansa, 13 maggio 2004)
Suicidio: 13 giugno 2004, Carcere di Brescia
Detenuto palestinese, 25 anni, si impicca in cella. Lo trovano, all’alba, i suoi compagni di cella. Era stato arrestato da meno di un mese, con l’accusa di furto. Sul caso sta indagando il Pm di turno, Paolo Guidi. (Giornale di Brescia, 14 giugno 2004)
Suicidio: 13 giugno 2004, Carcere di Lanciano (Chieti)
Tommaso Bolletta, 36 anni, viene trovato senza vita nella sua cella. Era stato trasferito nel carcere di Lanciano, proveniente da Vasto, per scontare 6 anni e 6 mesi di reclusione, relativi a un condanna per rapina. Bolletta, dopo la cena e il momento di socialità, era andato in bagno. Dopo un quarto d’ora non è stato visto tornare, è stato trovato privo di vita, con avvolto al collo un giubbino. La magistratura ha aperto un’inchiesta. Bolletta risiedeva a Cesano Boscone (Milano), ma si sentiva "frenano" perché il padre Donato è originario di Bardella di Ortona e la mamma, Chiarina Altobelli, di S. Vito Marina. Tommaso non stava bene ultimamente. Forse la detenzione, l’attesa di altri processi per rapina, forse il mancato ottenimento della semilibertà, la fine di un amore con una ragazza di S. Maria Imbaro, a lui vicinissima durante il processo. Ma nessuno può immaginare la scelta di una fine così tragica. (Il Messaggero, 15 giugno 2004)
Assistenza sanitaria disastrata: 14 giugno 2004, Carcere di Carinola (Caserta)
Raffaele Ascione, 50 anni, si accascia a terra nella sua cella e, subito soccorso, muore durante il trasporto all’ospedale di Caserta. Secondo quanto raccontato dagli inquirenti, Raffaele Ascione non aveva alcuna particolare patologia. Proprio per questo i sanitari, dopo averne accertato il decesso, hanno subito disposto l’autopsia. Probabilmente gli esami saranno svolti nella giornata di oggi. Nel frattempo, presso l’obitorio dell’ospedale, sono state predisposte ingenti misure di sicurezza. Molte anche le persone che dalla provincia di Napoli sono giunte a Caserta per essere vicini alla sua famiglia. Esponente di spicco della guerra di camorra che fin dagli anni Ottanta ha insanguinato le strade di Ercolano, Raffaele Ascione ha un trascorso criminale di rilievo. Imprenditore degli affari illeciti, gestiva spaccio di droga, estorsione, usura. È sopravvissuto a diverse faide per il controllo del territorio. Ha alternato periodi in carcere ad altri di libertà. Clamoroso, tre anni fa, l’episodio della scarcerazione per un cavillo, per poi essere nuovamente riarrestato su disposizione dell’autorità giudiziaria di Milano, dopo poche ore. (Mattino, 15 giugno 2004)
Assistenza sanitaria disastrata: 20 giugno 2004, Carcere di Torino
Laudovino De Sanctis, 69 anni, ma malato di tumore, muore in carcere. "Mio padre è morto disperato, ora vogliamo sapere se in carcere è stato curato davvero". Non c’è rancore nella voce di Marco De Sanctis, solo dolore. Lui è il figlio di Laudovino De Sanctis, conosciuto come Lallo "lo zoppo", che è morto ieri alle 15.15 nel carcere torinese delle "Vallette". Laudovino, il capo dei testaccini, figlio della gang dei marsigliesi. È la mala degli anni ‘70, tra fiumi d’oro e champagne. Condannato in maniera definitiva 11 volte, a partire dal 1964, per omicidio, rapina e sequestro di persona, "Lallo" era ai domiciliari a Centocelle, in via dei Giunchi. Aveva un permesso di quattro ore, due ore la mattina e due il pomeriggio per uscire, per la chemioterapia al San Raffaele. "De Sanctis lei ha ucciso, ha ucciso". "Sì, ma ho pagato", aveva detto Lallo al giudice durante l’udienza per la sospensione della pena, "non voglio morire in carcere". Nell’aprile scorso è tornato a Regina Coeli con l’accusa di spaccio di droga, poi dal carcere romano è stato trasferito al carcere di Torino, per permettergli di curare il linfoma che lo mangiava. Ma il figlio sostiene che il padre ha interrotto la cura al San Raffaele e il male lo ha divorato. "L’ultima persona che lo ha visto vivo è stata mia sorella, è andata a trovare nostro padre due settimane fa e mi ha detto che era un relitto". Marco dice che la malattia avanzava in modo velocissimo ogni volta che il padre interrompeva la chemioterapia. "Bastava che saltasse una sola seduta per vedere subito gli effetti devastanti. Andremo fino in fondo a questa vicenda. Mio padre è stato quello che è stato, e per questo ha pagato". "Non voglio morire in carcere", aveva detto. (Il Messaggero, 21 giugno 2004)
Morte per cause non chiare: 21 giugno 2004, Carcere Sollicciano (Firenze)
Giuseppe Mazzantini, 30 anni, viene trovato morto nella sua cella. Dall’autopsia, disposta dal Pm Tommaso Picazio e eseguita all’istituto di medicina legale di Firenze, non emerge nulla, a livello macroscopico, sulle cause della morte, quindi serviranno nuovi esami. Il medico legale incaricato dal Pm sta anche cercando di acquisire la documentazione medica del detenuto. Da quanto risulta, infatti, l’uomo sarebbe sottoposto a terapie fuori dal carcere: detenuto con fine pena nel 2009, era rientrato in carcere domenica scorsa, dopo aver usufruito di un permesso di quattro giorni. Era stato sottoposto a visita medica e sembra che stesse bene. (Nove da Firenze, 24 giugno 2004)
Suicidio: 23 giugno 2004, Livorno (arresti domiciliari)
Detenuto (agli arresti domiciliari), 71 anni, si uccide alla vigilia del processo che lo vedeva accusato dell’omicidio della moglie, gettandosi dal terzo piano dell’appartamento della sorella, dove viveva agli arresti domiciliari, dopo aver trascorso nove mesi di carcere. L’uomo cercò di uccidersi subito dopo aver ammazzato la moglie, con lo stesso fucile, ma in quella occasione si era procurato solo alcune ferite. La giudice Maria Grazia D’Onofrio non vedeva chiaro nella situazione dell’uomo, che da una decina d’anni almeno soffriva di una forte depressione: aveva disposto, il 30 aprile scorso, una perizia psichiatrica, per valutare la reale capacità di intendere e di volere dell’uxoricida. (Agi, 24 giugno 2004)
Suicidio: 28 giugno 2004, Carcere di Sulmona (L’Aquila)
Francesco Di Piazza, 58 anni, condannato all’ergastolo per reati di mafia, si impicca con le stringhe delle scarpe alla grata della sua cella. Era stato trasferito a Sulmona nel marzo scorso, proveniente dal carcere di Lanciano (Chieti). L’allarme è stato dato da un agente di polizia penitenziaria il quale, nel normale giro di conta, ha trovato Piazza appeso con i lacci delle scarpe attorno al collo. L’uomo era ancora in vita, ma è morto durante il trasporto d’urgenza all’ospedale di Sulmona mentre i medici tentavano di rianimarlo. Sull’episodio la Procura ha aperto un’inchiesta disponendo l’autopsia. Francesco Di Piazza era considerato un detenuto tranquillo e non aveva mai dato l’impressione di voler mettere in atto episodi autolesionistici. (La Sicilia, 29 giugno 2004)
Suicidio: 29 giugno 2004, Carcere di Livorno
Domenico Bruzzaniti, 50 anni, si impicca con la cintura dei pantaloni nella sua cella. Già tre giorni prima aveva provato a farla finita, usando una bomboletta di gas da campeggio infilata in una busta, con cui si era avvolto la testa. Le esalazioni del gas fuoriuscite dalla busta avevano attirato l’attenzione degli agenti penitenziari, che in quell’occasione sono riusciti a salvarlo. Trasferito nella sezione di Alta Sicurezza, sotto stretta sorveglianza, ieri è riuscito ad eludere ogni controllo. La cronica carenza di personale delle Sughere, più volte denunciata dai sindacati, potrebbe aver facilitato il gesto del detenuto, che sembra fosse afflitto da crisi depressive. Ancora ignoti i motivi. L’unica cosa certa, per la procura, è proprio il suicidio. Il medico legale Luigi Papi ha eseguito l’autopsia "ma solo per scrupolo, non ci sono elementi che possano far pensare a una causa di morte diversa" spiega il sostituto Giuseppe Rizzo. Bruzzaniti era rinchiuso nel braccio di massima sicurezza delle Sughere, in una delle aree più sorvegliate. Le guardie lo descrivono come una persona tranquilla. Eppure, fino al suo arresto, Bruzzaniti era considerato pericoloso, uno degli uomini emergenti della ‘ndrangheta. (Il Tirreno, 30 giugno 2004)
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