Dossier: "Morire di carcere"

 

Morire di carcere: dossier 2002 - 2003

Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose

 

Le morti in carcere nell'anno 2002

 

Morte per cause non chiare: 8 gennaio 2002, Carcere di Pozzuoli (Napoli)

 

Licia Roncelli, 20 anni, tossicodipendente, muore: forse a causa dell’assunzione di un "cocktail" di farmaci. Il decesso della ragazza è coperto dal segreto istruttorio: dopo tre mesi, neanche il risultato dell’autopsia è stato reso noto ai familiari e all’avvocato di parte. Licia è morta e non si sa perché. Le voci, sussurrate dal carcere, raccontano di un cocktail micidiale di farmaci. Già, perché lei aveva deciso di disintossicarsi e di cambiare vita; aveva scelto di essere libera e felice e progettava viaggi e passeggiate all’aria aperta, soprattutto negli ultimi mesi, quando il suo legale, Amedeo Valanzuolo, le aveva prospettato una riduzione di pena. Ma "la sera dell’8 gennaio Licia si è sentita male. È diventata cianotica, urlava, chiedeva aiuto, poi si è irrigidita, si muoveva a scatti - ha raccontato all’avvocato un’amica conosciuta in carcere - un minuto prima era viva, gioiosa, sana. Dopo poco non respirava più".

Al primo malore il direttore della casa circondariale ha dato l’allarme. Ma i medici e gli infermieri, provenienti dal vicino ospedale "Santa Maria delle Grazie", non hanno potuto far nulla. "Dalle carte in nostro possesso risulta che la detenuta era già morta quando è arrivata l’ambulanza", dicono i funzionari della direzione sanitaria dell’A.S.L..

Aveva un nome dolcissimo, Licia, e grandi e profondi occhi scuri. Si bucava, aggrappandosi all’oblio del veleno che si iniettava nel sangue. Per questo rubava e per questo era stata punita. Oggi sua madre, Gabriella Roncelli, veterinaria, non vuole che quella storia resti nell’ombra. Così da quattro giorni protesta, seduta all’ingresso della prigione di Pozzuoli, dove era detenuta la figlia. "Era pallida e bellissima, quando l'ho vista, distesa sulla barella dell’obitorio. I capelli scuri e lunghi le sfioravano il volto. Le ho toccato la testa, come quando era bambina. Sembrava addormentata. Non è possibile che si muoia così, a vent’anni, in prigione, senza una ragione. Mia figlia era sana. Da mesi non si bucava, d’altronde era in carcere come avrebbe potuto acquistare droga?", grida Gabriella Roncelli, che non sa darsi pace.

Naturalmente sulla vicenda è stata aperta un’inchiesta. "La famiglia si è costituita parte civile, ma ad oggi non c’è stata neanche la deposizione del referto medico e dei risultati dell’autopsia in Procura - ribatte il legale - La ragazza stava bene. Risale ai primi di gennaio la mia ultima visita in carcere. È stato allora che ho incontrato Licia. Era fiduciosa, sembrava rinata. Aveva iniziato il trattamento di disintossicazione e sognava di andar via. Dalla sua cella vedeva il mare e mi raccontava che aveva voglia di correre. Libera". (Il Mattino, 27 aprile 2002).

 

Morte per cause non chiare: 17 gennaio 2002, O.P.G. di Aversa (Caserta)

 

Maurizio Marazzi, 51 anni, muore in cella, stroncato da un malore improvviso. Ex sociologo, autore di “Inquietudine omicida”, scritto insieme al criminologo Francesco Bruno, Maurizio Marazzi è stato vittima di uno strano scherzo del destino e internato per aver commesso un omicidio. Maurizio aveva imparato però a trasferire il suo amore per la scrittura sul giornalino dell’O.P.G., “La storia di Nabuc”, dimostrando ogni volta il suo interesse per temi d’attualità. Ed è proprio sul prossimo numero che doveva partire la rubrica “Profili Criminali”, ideata da lui, con l’intento di raccontare la vita degli internati, materiale che sarebbe poi servito alla pubblicazione di un suo prossimo libro durante gli anni di ricovero. (Il Corriere di Caserta, 8 febbraio 2002)

 

Suicidio: 17 gennaio 2002, Carcere di Sassari

 

Un giovane slavo, s’impicca con una corda fatta di stracci nel terzo braccio, quello dove solitamente sono messi i detenuti affetti da qualche problema psichico. Il giovane aveva già manifestato, in più occasioni, atteggiamenti da schizofrenico.

L’autoambulanza rimane fuori dal portone dell’Istituto, perché dall’interno arriva la notizia che "Si è ripreso, ce l’hanno fatta". Invece il medico del carcere ha già constatato il decesso. Il magistrato di turno, Roberta Pischedda, apre un’inchiesta e chiede una dettagliata relazione alla vicedirettrice del "San Sebastiano", dott.ssa Incollu. L’autopsia, disposta dal giudice, è eseguita il 19 gennaio. (L’unione Sarda, 19 gennaio 2002)

 

Overdose: 20 gennaio 2002, Carcere di Is Arenas (Cagliari)

 

Detenuto muore in cella: probabile overdose. Nell’istituto si registrano tensioni tra gli agenti e i detenuti, ma anche tra le varie categorie di operatori. Accuse di eccessiva severità nei confronti del direttore. (La Nuova Sardegna, 27 gennaio 2002)

 

Assistenza sanitaria disastrata: 22 febbraio 2002, Carcere di Poggioreale (Napoli)

 

Detenuto muore poco dopo il ricovero all’Ospedale "San Paolo". Da circa un mese lamentava forti dolori addominali e respirava a fatica. Aveva più volte chiesto di essere visitato, ma i medici del carcere si erano limitati a prescrivergli dei sedativi. Era abbandonato dalla famiglia. Un gruppo di detenuti, che dichiara di avere assistito al suo calvario, invia una lettera di protesta al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia. (Il Mattino, 4 febbraio 2003)

 

Morte per cause non chiare: 22 gennaio 2002, Carcere di San Vittore (Milano)

 

Detenuto algerino muore dopo aver subito l’estrazione di due denti. Non si conoscono altri particolari sulla vicenda. (La Repubblica, 28 marzo 2002)

 

Tentato suicidio: 26 gennaio 2002, Carcere di Cassino (Frosinone)

 

Tony C., 35 anni, di Latina, tenta di impiccarsi. Soccorso dagli agenti e trasportato all’Ospedale di Frosinone, in Rianimazione. È in coma farmaceutico, indotto per cercare di limitare i danni al cervello. Condannato per reati contro il patrimonio, con una pena residua di un anno. Negli ultimi tempi era apparso depresso, in preda a frequenti crisi di pianto. Inchiesta avviata dalla Direzione degli Istituti di Pena, già interrogati alcuni detenuti, previsto anche l’interrogatorio dello staff psicologico e medico del carcere di Cassino. (Il Messaggero, 28 gennaio 2002)

 

Suicidio: 30 gennaio 2002, Carcere di Poggioreale (Napoli)

 

Raffaele Montella, 40 anni, napoletano, si impicca. Due giorni prima l’avevano "chiuso" dagli arresti domiciliari, per essersi allontanato dalla sua abitazione; era in attesa di giudizio per reati di droga. I suoi parenti non credono al suicidio, ma lui, prima di essere riportato in carcere, aveva detto: "Se torno in cella mi ammazzo". (La Repubblica, 1 febbraio 2002)

 

Suicidio: 2 febbraio 2002, Carcere di Foggia

 

Luigi Cavaliere, 24 anni, foggiano, si impicca, poco prima di mezzogiorno, mentre era in cella di "osservazione". Soccorso dagli agenti e trasportato in ambulanza al Policlinico di Foggia, vi arriva morto. Era in attesa di giudizio, per rapina e associazione per delinquere. Gli era stata diagnosticata una patologia ansioso-depressiva, a causa della quale il suo avvocato aveva chiesto (una settimana prima del suicidio) che gli concedessero gli arresti domiciliari. Il G.I.P. ha rigettato l’istanza, nonostante il parere favorevole di una perizia psichiatrica e, dopo il suicidio del detenuto, è stato denunciato dal legale. (Gazzetta del Mezzogiorno, 3 febbraio 2003)

 

Assistenza sanitaria disastrata: 2 febbraio 2002, Carcere di Teramo

 

Luigi Martera, 36 anni, muore per un’emorragia interna, causata da un paio di forbicine che aveva ingerito 3 giorni prima. Condannato a 24 anni di reclusione, per reati di criminalità organizzata, era stato ammesso al programma di protezione per i collaboratori di giustizia. Però era evaso dalla detenzione domiciliare e, per questo, l’avevano rimesso in carcere, all’Aquila. Dopo aver ingerito le forbicine aveva rifiutato il ricovero in ospedale, quindi era stato trasferito nel carcere di Teramo, che è dotato di un Centro Clinico. (Gazzetta del Mezzogiorno, 4 febbraio 2003)

 

Assistenza sanitaria disastrata: 3 febbraio 2002, O.P.G. di Montelupo Fiorentino (Firenze)

 

Giovanni Pietro Bonomo, 40 anni, romano, muore durante la notte. Alle 5.30 del mattino gli agenti se ne accorgono e tentano di soccorrerlo, chiamano l’autoambulanza, ma il medico può solo constatare il decesso dell’uomo. Bonomo era in carcere dal 25 novembre 2001 per avere forzato un posto di blocco della polizia, a Roma. Portato prima nel carcere di Civitavecchia, il 21 gennaio 2002 viene trasferito all’O.P.G. Montelupo perché "ogni tanto andava in escandescenze", come racconta la moglie. L’Osservatorio per i diritti dei detenuti, che si batte per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, denuncia l’episodio e rivolge un appello al Ministro della Salute e a quello della Giustizia: "Le persone con problemi psichiatrici andrebbero curate, non incarcerate" (Il Tirreno, 8 febbraio 2003)

 

Morte per cause non chiare: 3 febbraio 2002, Carcere Femminile della Giudecca (Venezia)

 

Manuela S., 30 anni, muore per "probabile malore". Nessun segno di violenza sul corpo. Il Sostituto Procuratore di Venezia, Susanna Menegazzi, ha disposto l’autopsia. (Il Gazzettino, 4 febbraio 2003) Era una ragazza di origine zingara e sembra avesse perso il sostegno della famiglia a causa dei suoi problemi di tossicodipendenza. In carcere assumeva molti psicofarmaci. (Redazione della Giudecca di Ristretti Orizzonti)

 

Morte per cause non chiare: 3 febbraio 2002, Carcere di Secondigliano (Napoli)

 

Giovanni Troncone, napoletano, muore nel padiglione "Alta Sicurezza". Si sospetta il suicidio. La Procura chiede l’archiviazione del caso ma il G.I.P., Giuseppe Campa, rifiuta l’archiviazione e chiede che un ispettore di polizia penitenziaria sia indagato per omicidio. Il Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria) protesta, attraverso segretario regionale Emilio Fattorello: "…a pagare, ancora una volta, è l’anello debole della catena", l’agente di polizia penitenziaria. (Il Mattino, 4 febbraio 2002)

 

Suicidio: 6 febbraio 2002, Carcere di Spoleto (Perugia)

 

Salvatore Damiani, 62 anni, si impicca nella sezione di "Alta Sicurezza". Era in carcere dal 22 giugno 2001, con una condanna definitiva a 12 anni per associazione di stampo mafioso. (La Sicilia, 8 febbraio 2002)

 

Suicidio: 7 febbraio 2002, Carcere di Sassari

 

Detenuto marocchino, 31 anni, si impicca, usando come cappio un fazzoletto, dopo aver atteso che i compagni di cella uscissero per "l’aria". Avrebbe finito di scontare la pena il 15 agosto 2003. Soffriva di esaurimento nervoso ed era seguito da uno psichiatra: la sua situazione era giudicata "sotto controllo". (La Nuova Sardegna, 8 febbraio 2002)

 

Suicidio: 7 febbraio 2002, Carcere di Rebibbia (Roma)

 

Detenuto di 33 anni, tossicodipendente, si impicca dopo un colloquio con il Magistrato di Sorveglianza. Aveva manifestato le sue intenzioni sia con il giudice, sia, sembra, con un ispettore, al quale avrebbe detto "Io mi ammazzo", ricevendo come risposta "Fai come ti pare". L’uomo era tornato in carcere da poco, dopo che gli era stata sospesa la semilibertà a causa della sopravvenienza di una nuova condanna definitiva. Stava aspettando che il tribunale di sorveglianza verificasse se il cumulo delle pene gli consentisse di riavere la misura alternativa. (Il Messaggero, 12 febbraio 2003)

 

Tentato suicidio: 10 febbraio 2002, Carcere di Sassari

 

A.S., 35 anni, tenta di darsi fuoco in cella. Gli agenti intervengono in tempo, viene ricoverato al Centro ustioni dell’Ospedale cittadino. Da tempo soffriva di crisi depressive e, per questo, educatori ed agenti avevano aumentato l’attenzione intorno a lui. (L’Unione Sarda, 11 febbraio 2002)

 

Suicidio: 12 febbraio 2002, Carcere di Monza

 

Detenuto di 25 anni, originario del sud Italia ma residente a Seregno (MI), si impicca in una cella dell’infermeria, dove stava da solo, dopo un colloquio con gli operatori del Ser.T.. In attesa di giudizio per una serie di rapine a tabaccai e benzinai, compiute con una pistola giocattolo, doveva essere interrogato a giorni. Considerato un giovane "fragile e problematico" era "costantemente seguito dagli operatori": sembra che l’intenzione di uccidersi fosse legata alla vergogna per avere deluso la sua famiglia (La Repubblica, 14 febbraio 2003)

 

Assistenza sanitaria disastrata: 20 febbraio 2002, Carcere di Verona

 

Carmine Proietto, 57 anni, di origine calabrese ma residente a San Bonifacio (VR), muore per una crisi cardiaca nell’infermeria del carcere. Era stato arrestato un mese e mezzo prima, con l’accusa di aver partecipato ad un’estorsione. Aveva già subito tre infarti e, per questo motivo, il suo avvocato aveva chiesto che gli fossero concessi gli arresti domiciliari. Il giudice, dopo aver disposto una perizia medica – dalla quale risultò che le sue condizioni di salute erano compatibili con la detenzione – respinse la richiesta. La Procura ha aperto un’inchiesta.

 

Tentato suicidio: 24 febbraio 2002, Carcere di Sanremo (IM)

 

Gianni Cretarola, 19 anni, tenta di impiccarsi e viene salvato da un agente. In attesa di giudizio per l’omicidio di un coetaneo, avvenuto all’uscita di una discoteca, il ragazzo aveva già tentato il suicidio tagliandosi le vene e, per questo, era stato per qualche tempo nel reparto psichiatrico dell’Ospedale Civile di Sanremo. Successivamente l’avevano riportato in carcere, dove è seguito dagli psicologi e sottoposto ad una sorveglianza intensificata.

 

Morte per cause non chiare: 27 marzo 2002, Carcere di San Vittore (Mi)

 

Karim Charkaoui, 20 anni, marocchino, muore in una cella di San Vittore, senza una ragione apparente, spiegabile ad un primo esame. È il terzo giovane detenuto, nel giro di un paio di mesi, che esce dal carcere con i piedi davanti. Anche in questo drammatico caso, com’era successo a gennaio, per un algerino che aveva appena subito l’estrazione di due denti, e a febbraio per un ragazzo italiano, sarà l’autopsia a certificare che cosa l’ha ucciso e perché, mentre stava chiuso in galera. Le ipotesi estreme di omicidio e suicidio sembrano già escluse, gli accertamenti subito avviati hanno, per ora, consentito di mettere a fuoco i suoi ultimi, movimentati giorni di vita.

Lunedì Karim, lo spiega la documentazione poi acquisita dalla polizia penitenziaria, finisce al pronto soccorso di un grande ospedale milanese. Racconta che è stato picchiato qualche ora prima, aggiunge che, accidentalmente, ha bevuto dell’ammoniaca e l’ha subito risputata. È un po’ rintronato e confuso, sulla testa ha il segno di una ferita non recentissima. E i medici, appena si riprende, a metà pomeriggio, gli rilasciano un certificato con il referto e una indicazione che ieri nessuno era in grado di spiegare con precisione: “si affida agli agenti delle forze dell’ordine”.

Sta di fatto che la notte successiva, alle 2.30, il ragazzo marocchino rispunta vicino alla stazione Centrale. Gli agenti di una Volante in transito da Viale Lunigiana - è uno dei tasselli del puzzle ricostruiti in questura - all’incrocio con Via Edolo scorgono due stranieri che bisticciano. E si fermano. Quello rimasto lì spiega che il “rivale” gli ha rubato il cellulare e gli ha tirato addosso dei sassi. Così i poliziotti rincorrono l’altro, Karim. Il ventenne, scappando, viene toccato da una macchina. Cade. Si rialza. Riprende a correre. Ma pochi metri dopo viene acchiappato e identificato. Gli agenti, anche se apparentemente sta bene, chiamano un’ambulanza. Lui, però, rifiuta le cure. Viene allora portato prima in una cella di sicurezza di Via Fatebenefratelli e, la mattina dopo, nell’aula dove è fissato il processo per direttissima per “tentata rapina”. L’udienza slitta al 29 marzo e Karim, ripassato dalla questura per prendere la sua roba, in attesa di giudizio viene scortato fino a San Vittore. La visita medica d’ingresso e gli esami specialistici non riscontrano alcun problema particolare. Ma alle cinque del mattino un compagno si accorge che non respira più. Una morte, per adesso inspiegabile, che si aggiunge alle due di quest’anno e a quelle contate nei mesi precedenti. Nelle carceri lombarde, l’aggiornamento è stato fatto in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, tra il luglio 2000 e il giugno 2001 si sono contati 7 suicidi, 6 decessi per Aids ed altri 12 per non meglio precisate “cause naturali”. (La Repubblica, 28 marzo 2002)

Assistenza sanitaria disastrata: 28 febbraio 2002, Carcere di Marassi (Genova)

 

Mario V., 54 anni, originario di Pesaro, muore mentre attende di essere chiamato per un colloquio con la moglie. Era in cella con altri otto detenuti, che l’hanno visto barcollare e poi cadere, sbattendo la testa contro lo spigolo di un tavolino. Trasferito nell’ambulatorio del carcere, non si è più ripreso. Mario V. stava scontando una pena definitiva, per il furto in un’abitazione, e l’avrebbe terminata entro un mese. Nei giorni precedenti aveva lamentato uno "strano formicolio" ad un braccio, forse segnale di latenti problemi cardiaci, ma non era stato disposto nessun accertamento sulle sue condizioni di salute. Sulla morte sono state aperte due inchieste, una dal Provveditorato regionale alle Carceri e una dalla Procura di Sanremo.

 

Morte per cause non chiare: 1 marzo 2002, Carcere di Rebibbia (Roma)

 

Stefano Guidotti, 32 anni, è trovato impiccato alle sbarre del bagno. Sono i tre compagni di cella a dare l’allarme, ma una serie di particolari fa sorgere dubbi ai carabinieri del centro investigazione scientifica di Roma, che conducono le indagini. A cominciare dalle escoriazioni presenti sul suo volto: ferite inconciliabili con l’ipotesi del suicidio. Poi alcune inspiegabili macchie di sangue sul pavimento. Infine il cappio - fatto con la cintura del pigiama – che per gli inquirenti non avrebbe potuto sostenere il peso del corpo. Ad alimentare il dubbio anche una lettera, ritrovata tra gli effetti personali di Guidotti: contiene progetti per il futuro, troppo lontani dall’idea di farla finita. Era detenuto per associazione mafiosa ed estorsione. Il P.M. Giancarlo Amato, titolare dell’inchiesta, per ora ha chiesto soltanto gli accertamenti di rito per un suicidio in carcere. (La Repubblica, 5 marzo 2002)

 

Suicidio: 10 marzo 2002, Carcere di Castrovillari (Cosenza)

 

Giuseppe Pirrone, 42 anni, si uccide strangolandosi con una corda. Era in carcere dal 21 maggio 2001, per scontare un cumulo di pene di un anno e otto mesi per minacce e lesioni. Verso le dieci del mattino ha fissato la corda all’inferriata della finestra del bagno; qualcuno, dall’esterno, s’è accorto delle sue intenzioni ed è subito scattato il "piano d’emergenza", con l’intervento del medico dell’istituto. Il sanitario, accortosi della gravità del caso, ha disposto il trasferimento immediato di Pirrone all’Ospedale "Ferrari", dove è morto poco dopo il ricovero. Il P.M. Carmen Ciancia ha disposto accertamenti investigativi sul cadavere, mentre tutti si chiedono come abbia fatto ad entrare nel carcere la corda che Pirrone ha usato come "strumento di morte". Nei giorni precedenti il suicidio 113 detenuti del carcere di Castrovillari avevano inviato delle lettere di protesta al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, per denunciare le difficili condizioni di vita nell’Istituto. (Gazzetta del sud, 12 marzo 2002)

 

Tentato suicidio: 14 marzo 2002, Carcere delle Vallette (Torino)

 

Carmine Aquino, 38 anni, dopo un tentativo di suicidio viene trasferito al repartino detenuti dell’Ospedale "Le Molinette". L’uomo si è tagliato le vene dei polsi e si è salvato soltanto grazie al tempestivo intervento degli agenti penitenziari: si trovava in carcere nonostante sia gravemente malato e pesi appena 48 chili. Il 26 marzo il Tribunale di Sorveglianza si esprimerà sulla richiesta di sospensione della pena e sul trasferimento in un ospedale in grado di prestare le cure adeguate; ma in attesa della decisione l’avvocato di Aquino, Walter Campini, ha presentato una nuova istanza al giudice di Sorveglianza, chiedendo l’immediato ricovero del detenuto presso l’istituto riabilitativo Fatebenefratelli di San Maurizio Canavese, che ha dato la sua disponibilità ad accogliere il detenuto. (La Stampa, 17 marzo 2002)

 

Suicidio: 17 marzo 2002, Carcere di Foggia

 

Ignazio Carpano, 42 anni, detenuto per tentata estorsione e droga, muore nell’ambulanza che lo trasportava agli Ospedali Riuniti, dopo essersi impiccato alla finestra della sua cella. L’allarme è scattato alle 12, quando un agente di custodia ha visto il corpo penzolare: la vittima aveva fatto un cappio usando le lenzuola. Il medico del carcere ha praticato tutte le tecniche di rianimazione, proseguite anche sull’ambulanza, ma non c’è stato nulla da fare. Carpano era stato arrestato il 15 settembre 2000, per scontare 5 anni e 3 mesi di reclusione. Il primo anno e mezzo di detenzione l’aveva trascorso agli arresti domiciliari e, dal 7 febbraio 2002, si trovava nel carcere foggiano (Gazzetta del Mezzogiorno, 18 marzo 2002)

 

Suicidio: 22 marzo 2002, Carcere di Lecce

 

Gioacchino Sammali, 22 anni, si impicca. Era in attesa di giudizio, con l’accusa di avere ucciso un’anziana donna, nel corso di una rapina avvenuta nel 1998 e che aveva fruttato 200.000 lire. (Gazzetta del Mezzogiorno, 24 marzo 2002).

 

Suicidio: 2 aprile 2002, carcere di Trento

 

Stefano Santolini, 28 anni, si impicca in cella. Ha solo 15 anni quando viene denunciato la prima volta, uno di più quando partecipa all’omicidio di un tassista in Valsugana. Quindi la vita di Stefano Santolini è stata una discesa nel buio, fino all’altro giorno quando si è suicidato nella sua cella del carcere di via Pilati. Aveva un fisico imponente, ha aspettato che i compagni di cella si addormentassero e si è impiccato alle sbarre della finestra.

Dice di lui il cappellano del carcere: "Ha pagato molto, per colpe che non sono solo sue". Una frase per spiegare una vita che ha avuto solo qualche breve sprazzo di futuro, pronunciata da padre Bortolotti, che ha parlato per l’ultima volta con Santolini sabato scorso: "Questi gesti sono sempre una coda di situazioni difficili, per lui la situazione era diventata pesantissima".

Per capire quanto quel ragazzo soffrisse dietro le sbarre basta ricordare la lunga serie di evasioni di cui è stato protagonista. Ottobre 1992: fugge assieme a due compagni dal carcere minorile di Bologna rimuovendo una grata da una finestra. Maggio 1993: fugge dalla finestra del locale docce del carcere minorile di Milano, si arrampica su un cornicione e si cala per dieci metri lungo una corda di lenzuola annodate. Marzo 1994: si allontana mentre gode di un permesso premio concesso per frequentare un corso di roccia. Aprile 1994: fugge assieme a due compagni di cella dal carcere minorile di Torino, dopo aver saltato un muro alto sei metri. Viene sempre ripreso, perché i ragazzi come lui - per quanto abili a saltare dalle finestre - non sanno dove nascondersi in una società dove per loro non c’è posto.

Il racconto delle sue evasioni dice quanto Santolini amasse la libertà. Ma non fu in grado di mantenerla quando, nel 1998, terminò di scontare la sua pena. Tornò nella sua casa di Levico Terme dove - come spiega il suo avvocato, Stefano Giampietro - non riuscì mai più ad integrarsi: nessun lavoro, nessun contatto sociale. Così dopo qualche mese venne nuovamente arrestato con gravi accuse: sequestro di persona, violenza sessuale, atti osceni in luogo pubblico, tutto per un episodio in cui si era appartato con una ragazza in Valsugana. Stefano Santolini aveva provato a rifarsi una vita con l’aiuto dell’Apas (l’associazione trentina che si occupa della riabilitazione dei detenuti). Solo che la sua situazione personale e familiare era troppo difficile, terribilmente complicata. Una volta in carcere il suo equilibrio era peggiorato, tanto che per alcuni periodi era stato detenuto nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino.

Da un anno era tornato in via Pilati in attesa degli ultimi processi per le sue scorribande, in corte d’appello a Trento. L’altra notte l’ultimo gesto disperato, ma non il primo. Altre volte Stefano Santolini aveva tentato il suicidio e negli ultimi tempi non voleva vedere nessuno, nemmeno i genitori, nemmeno una ragazza che in passato gli aveva scritto lettere disperate in carcere. Quando voleva parlare con il suo legale scriveva lunghe lettere in un italiano corretto in modo sorprendente, almeno per uno che con le scuole non aveva avuto un buon rapporto. I giornali l’avevano chiamato "Faccia d’angelo" perché nelle redazioni circolava una vecchia fotografia di quando venne arrestato la prima volta, ancora ragazzino. Ma la sua faccia in realtà non era più angelica da tempo.

Nel settembre 2001 si era tolto la vita il fratello di Stefano, Massimo Santolini, in una stanza del convento di Cles dove era agli arresti domiciliari. L’anno precedente si era tolto la vita Eduard Bellin, compagno di cella di Santolini. In precedenza aveva scelto la stessa estrema soluzione Andrea Rinaldo (uno dei giovani condannati per l’omicidio del tassista). Giovani per cui non c’era posto né fuori, né dentro il carcere. (L’Alto Adige, 4 aprile 2002).

 

Suicidio: 24 aprile 2002, Ospedale "Maria Vittoria" di Torino

 

Fabrizio Linetti, detenuto nel carcere delle Vallette, dice di aver ingerito un tagliaunghie. È una scusa (come accerterà l’autopsia) per andare in ospedale. Al pronto soccorso s’impadronisce di una specie di taglierino usato in ambulatorio. C’è una colluttazione con un agente penitenziario e Linetti riusce ad afferrare la pistola dell’agente, con la quale poi si uccide, quando vede inutile ogni tentativo di fuga. Un fatto anomalo, dicono gli inquirenti, perché Linetti non aveva alcuna possibilità di scappare, ma anomalo è anche il suicidio, che non sembra avere una giustificazione precisa. (La Stampa, 25 aprile 2002).

 

Tentato suicidio: 1 maggio 2002, Carcere di Udine

 

"Nordafricano di 30 anni", da alcuni anni detenuto nel carcere udinese, si ferisce alla gola con una lametta per la barba. I compagni di cella danno l’allarme e, fortunatamente, vicino c’è un agente che fa scattare i soccorsi. La rapidità, in questo caso, è decisiva: al pronto soccorso i medici possono intervenire prima che la situazione diventi critica. (Messaggero Veneto, 3 maggio 2002).

 

Tentato suicidio: 2 maggio 2002, Carcere di Udine

 

"Detenuto friulano di 35 anni" tenta di impiccarsi, utilizzando delle lenzuola appese ad un letto a castello. I compagni di cella, svegliati dal rumore, lo soccorrono e chiamano gli agenti. L’uomo è trasportato al pronto soccorso del "Santa Maria della Misericordia", dove i medici lo sottopongono alle terapie del caso. Il trentacinquenne si riprende, tanto che non si rende nemmeno necessario il ricovero. (Messaggero Veneto, 3 maggio 2002).

 

Suicidio: 4 maggio 2002, Carcere di Marassi (Genova)

 

Antonio D. S., di 30 anni, si impicca in una cella nel Centro Clinico con una rudimentale corda, ricavata da un lenzuolo tagliato a strisce. Su quest’ultimo particolare gli accertamenti saranno rigorosi: gli inquirenti non riescono a spiegarsi come e quando Antonio D. S. abbia formato la "corda" senza essere visto da alcuno. In proposito si ipotizza comunque una giustificazione: l’assoluta carenza di personale; in quel reparto la sorveglianza per una ventina di detenuti è affidata a un solo agente. Una situazione paradossale, che però alleggerirebbe la posizione delle guardie carcerarie. L’uomo stato condannato a 15 anni, per un omicidio commesso in provincia di Taranto. (La Repubblica, 24 maggio 2002).

 

Suicidio: 5 maggio 2002, Carcere di Marassi (Genova)

 

Fabio B., di 38 anni, residente a Sestri, si uccide nel Centro Clinico del carcere di Marassi. Poco prima delle 14, le guardie carcerarie hanno trovato il detenuto impiccato, con la cintura dei pantaloni usata come cappio. Era stato arrestato la sera del 15 febbraio 2002 nella casa dei genitori, con i quali aveva avuto una violenta lite. Sarebbe stata una lettera della sua fidanzata a fare crollare Fabio B. in una depressione ancora più profonda di quella che lo affliggeva: lo ha rivelato Giorgio P., il compagno di cella: la scoperta dell’amico penzoloni da un cappio formato dalla cintura dei calzoni, ebbe effetti negativi anche su di lui, tali da indurre i medici delle Case Rosse a trasferirlo all’Ospedale "San Martino". Fabio B., dopo avere letto la missiva, si sarebbe chiuso in un mutismo assoluto. Tentativi di farlo parlare non avrebbero avuto successo. Rimasto momentaneamente solo perché Giorgio P. era stato accompagnato alle docce, entrò nel cucinino della cella e attuò così il gesto disperato. Non è dato conoscere ancora il contenuto della missiva: il P.M. Biagio Mazzeo ne ha disposto il sequestro; lo stesso magistrato ha chiesto alla direzione del carcere anche un memoriale che il suicida aveva scritto. È il terzo suicidio, in cinque mesi, a Marassi e il secondo in due giorni nel Centro Clinico della Casa Circondariale. (La Repubblica, 24 maggio 2002).

 

Assistenza sanitaria disastrata: 5 maggio 2002, Ospedale "Hesperia" di Modena

 

Domenico Di Gioia, 39 anni, muore in ospedale, dove era stato ricoverato per una crisi cardiaca che lo aveva colto nel carcere "S. Anna" di Modena. Il 25 aprile Di Gioia ha un edema polmonare ed è ricoverato in ospedale, ma opta per le dimissioni volontarie e torna in carcere. La notte del 30 aprile ha un arresto cardiaco e, dopo un massaggio cardiaco di 30 minuti, viene nuovamente portato in ospedale e sottoposto ad intervento chirurgico. L’operazione riesce, ma l’arresto cardiaco ha già prodotti danni irreparabili al cervello, che poi conducono al decesso.

L’avvocato Roberto D’Errico, presidente della Camera penale di Bologna, ha annunciato che presenterà un esposto dettagliato sulla vicenda. D’Errico, che aveva chiesto più volte al G.I.P. e al Tribunale della Libertà di Bologna, gli arresti domiciliari per Di Gioia, chiederà nell’esposto che "se sono sussistenti responsabilità di ogni ordine - amministrative, disciplinari ed eventualmente penali - vengano individuate e perseguite". L’uomo era stato arrestato nell’ottobre 2001, su ordinanza di custodia cautelare del P.M. di Bologna Elisabetta Melotti, per un traffico di droga tra la Puglia e l’Emilia. Una consulenza del medico legale della difesa, Michele Romanelli, aveva concluso per l’incompatibilità di Di Gioia con la condizione carceraria. Una perizia del G.I.P. però aveva concluso per la compatibilità dello stato di salute dell’uomo con la detenzione.

L’On. Paolo Cento (Verdi) ha inviato un’interrogazione urgente al Ministro della Giustizia sulla vicenda. "Di Gioia era riuscito a sopravvivere a cinque gravi crisi cardiache - ha detto il parlamentare - il ministero deve intervenire, per verificare le eventuali omissioni e le responsabilità di questo decesso". La perizia del G.I.P., comunque, aveva accertato che Di Gioia si era sottratto volontariamente alle terapie e che il peggioramento era riconducibile in parte ad una condotta volontaria. (Il Resto del Carlino, 8 maggio 2002).

 

Suicidio: 17 maggio 2002, Carcere di Pesaro

 

Marco Zampetti, 35 anni, bolognese, si impicca con un laccio da scarpe. Era detenuto dal 27 agosto 2001, per avere ucciso la madre in un raptus di follia. Il giovane, che aveva interrotto gli studi di Ingegneria a Bologna e aveva svolto lavori saltuari, era in cura da uno psichiatra ed era stato anche sottoposto a trattamenti sanitari.

Dopo l’omicidio confessò subito tutto e cercò di spiegare il suo gesto con una serie di screzi e liti, l’ultimo dei quali una banale discussione su dove collocare una pianta grassa nel balcone. Dietro le liti continue, uno stato di oppressione e frustrazione, dovuta anche alla sua condizione di disoccupato, che lo spingeva a chiedere di continuo soldi alla madre.

Zampetti fu sottoposto anche a una perizia psichiatrica, dalla quale risultò che i suoi disturbi erano molto gravi e che poteva rappresentare un pericolo per sé e per gli altri. Da qui la decisione di tenerlo in isolamento, in regime di "alta sorveglianza". Negli ultimi tempi, a detta dei familiari, c’era stato un apparente miglioramento: Zampetti aveva anche riallacciato i contatti con il padre, a cui aveva scritto alcune lettere.

Poco meno di un mese fa, però, il giudice Barberini lo aveva interrogato di nuovo, sulla base delle ultime perizie psichiatriche. Perizie che lasciavano pochi dubbi: Zampetti aveva ucciso la madre in uno stato di follia e avrebbe potuto uccidere ancora, perché le sue condizioni erano gravissime. Di fronte al giudice, Zampetti non aveva mostrato segni di pentimento e aveva ricordato che la madre, quella mattina, lo aveva guardato storto e aveva spostato in malo modo il vaso sul balcone, scatenando la sua reazione. Molto probabilmente, avrebbe dovuto essere trasferito in un manicomio giudiziario. Non è andata così. (Il Messaggero, 18 maggio 2002)

 

Suicidio: 20 maggio 2002, O.P.G. di Reggio Emilia

 

Kolica Andon, 30 anni, albanese, si uccide, dopo 35 giorni di sciopero della fame. La notizia trapela solo all’inizio di luglio. "Preferisco morire, piuttosto che restare qui dentro da innocente": ora, quella frase ripetuta fino all’ossessione, suona ancora più terribile e accusatoria. Faceva sul serio, Kolica Andon, si è impiccato in una cella dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, dov’era arrivato da pochi giorni, proveniente dal carcere di Mantova. Due settimane prima del suicidio una sua nipote, Maria, aveva lanciato un appello pubblico perché la posizione processuale di suo zio venisse rivista. "È in sciopero della fame da metà aprile e dice che si lascerà morire, se non verrà accertata la sua innocenza. Bisogna fare qualcosa, ha già perso 18 chili e non si fermerà". Arrestato il 22 aprile 2001 a Ponti sul Mincio (MN), insieme ad un suo connazionale, era stato condannato a quattro anni di carcere per detenzione e spaccio di cocaina. Nel garage dell’abitazione dove si trovava, i carabinieri avevano trovato un chilo e 680 grammi di coca.

"Ma io non ne sapevo nulla - ha ripetuto a tutti fino all’ultimo - in quella casa ero ospite solo per quella notte". Nessun Tribunale però ha mai creduto alla sua tesi: dopo la condanna in primo grado è arrivata anche quella in appello, a Brescia. Poi, passando da un legale all’altro, in una corsa contro il tempo dopo l’inizio dello sciopero della fame, i suoi familiari le hanno tentate tutte: un’istanza per la sostituzione del carcere con un’altra misura cautelare, al Tribunale della Libertà, una seconda istanza, analoga, al Tribunale del Riesame, ma non c’è stato niente da fare: tutte respinte.

E, mentre gli avvocati stavano preparando una nuova istanza, per chiedere almeno gli arresti domiciliari per motivi di salute, Kolica ha anticipato tutti sul tempo. Accanto al suo cadavere, più magro di venti chili di quando era entrato in carcere a Mantova, i primi agenti che hanno tentato inutilmente di soccorrerlo hanno trovato una lettera. "Ero innocente", ha voluto ribadire ancora una volta in punto di morte, prima di dedicare un ultimo pensiero ai suoi due figli: "Voglio che dei miei due piccoli si occupi mio zio, che sta in provincia di Brescia". Una morte annunciata, che forse si poteva evitare? (Gazzetta di Mantova, 2 luglio 2002)

 

Suicidio: 25 maggio 2002, Carcere di Sassari

 

Patrizia Piu, 23 anni, detenuta per reati di droga, si è impiccata nella cella del carcere di San Sebastiano, approfittando dei pochi attimi in cui la vigilatrice penitenziaria incaricata di controllare ogni sua mossa si era allontanata per soddisfare un bisogno fisico. Forse Patrizia ha maturato la sua decisione in quel maledetto pomeriggio di sabato, trascorso a pensare e a scrivere su alcuni fogli protocollo una lunga lettera. Senza indirizzo. Una sorta di memoriale. Sequestrato dalla magistratura.

Sul fronte delle indagini la situazione è in un momento di stallo. Il Procuratore della Repubblica, Giuseppe Porqueddu, sta esaminando tutti gli elementi raccolti durante il sopralluogo che gli esperti della polizia scientifica hanno eseguito nella cella, ma si sarebbe soffermato soprattutto sulle due lettere che Patrizia Piu ha lasciato sulla branda prima di togliersi la vita. Quella più breve sarebbe un vero e proprio atto d’accusa, contro qualcuno che avrebbe avuto un ruolo determinante nella tragica, quasi obbligatoria, scelta fatta da Patrizietta e dal suo amato Alessandro. Anche lui era morto impiccato. E proprio questo particolare potrebbe aver indotto la ragazza a fare la stessa scelta.

Durante la sua breve latitanza, Patrizia non avrebbe pensato a nascondersi e a sfuggire ai controlli delle forze dell’ordine, ma soltanto a cercare la verità sulla morte di Alessandro Vitiello. Avrebbe affrontato a muso duro, come era sua abitudine, anche personaggi pericolosi e incontrato gente che sapeva che lei sapeva che volevano farle del male. Ma lei non si era mai tirata indietro, non era nel suo carattere. Voleva sapere la verità su Alessandro ed era disposta a tutto. Anche a morire. Forse l’aveva già messo in preventivo quando si era data alla latitanza, inspiegabilmente, a metà marzo. Stava finendo di scontare la pena, ma era stanca di subire minacce e intimidazioni continue per qualcosa legato alla fine del fidanzatino. E allora aveva preferito sparire. Per capire.

Si era arresa venerdì pomeriggio in piazza Tola a tre carabinieri del nucleo radiomobile che l’avevano avvicinata e fermata senza alcuna difficoltà. Forse perché Patrizia si era stancata di fuggire. Ma soprattutto perché era convinta di aver capito il motivo della morte del "suo" Alessandro. E stava maturando l’ipotesi di accusare chi glielo aveva portato via in quel modo così assurdo. Forse avrebbe collaborato con la giustizia, forse avrebbe affidato al suo diario il racconto della verità, forse l’avrebbe raccontato all’amatissima Nonna Michela, nelle tante lettere che le spediva dal carcere. (La Nuova Sardegna, 28 maggio 2002).

 

Suicidio: 27 maggio 2002, Carcere di Pavia

 

Miguel Bosco, 30 anni, nomade, si uccide infilando la testa in un sacchetto di plastica riempito con il gas della bomboletta da camping. Era stato arrestato nel tardo pomeriggio del 26 maggio, per il furto di una motocicletta. Non ha resistito nemmeno 24 ore.

Il suicidio ha provocato un intervento della CGIL, che ha chiesto un incontro con il direttore. "La morte nel carcere - si legge in un comunicato della CGIL - ci lascia carichi di dubbi e perplessità: è stato fatto tutto il possibile per evitarla? Lo stesso evento si sarebbe verificato anche fuori dal carcere? Il suicidio del nomade Miguel Bosco impone alle istituzioni carcerarie una riflessione sulle condizioni di vivibilità, ma richiama anche i cittadini ad aumentare il controllo su quanto accade dietro quelle mura. Qualche giorno fa il direttore di un carcere simbolo, come è quello di San Vittore, sollevava il problema dei suicidi. Il tono provocatorio e la novità delle proposte lanciate dal dottor Pagano, non ci devono distogliere dalla gravità del problema. La CGIL di Pavia chiede alla direttrice della Casa Circondariale un incontro per analizzare la situazione carceraria". (La Provincia Pavese, 30 maggio 2002).

 

Morte per cause non chiare: 4 giugno 2002, Carcere di Rimini

 

Roberto Muccioli, 36 anni, ex tossicodipendente, muore in cella durante la notte. Nessuno si accorge di nulla, neppure i compagni di cella: solo quando la guardia carceraria passa, per un normale controllo, lo trova privo di vita. Roberto Muccioli, un passato di tossicodipendente, era stato arrestato l’ultima volta all’inizio dell’anno per una serie di scippi messi a segno in sella ad uno scooter rubato. L’ipotesi più accreditata è che l’uomo sia morto per infarto. Il magistrato ha disposto l’autopsia sul corpo, per l’esito degli esami tossicologici occorreranno 2 mesi. (Il Resto del Carlino, 6 giugno 2002).

 

Tentato suicidio: 4 giugno 2002, Carcere di Parma

 

"Trentenne, originario della Sicilia", tenta di uccidersi impiccandosi nella propria cella. È salvato in extremis dagli agenti della polizia penitenziaria e dagli operatori di Parmasoccorso, che lo hanno trasportato all’ospedale Maggiore di Parma. Visitato dai medici del pronto soccorso, le sue condizioni non sono parse particolarmente gravi. (Gazzetta di Parma, 6 giugno 2002)

 

Assistenza sanitaria disastrata: 10 giugno 2002, Reparto Detenuti dell’Ospedale di Salerno

 

La notizia della morte del detenuto è stata diffusa dal consigliere regionale Franco Specchio (Rifondazione Comunista), che ha effettuato un’ispezione al Reparto dell’Ospedale incontrando il dirigente Salemme e verificando uno stato di carenza strutturale preoccupante: "La divisione versa in condizioni pietose, gli standard igienico - sanitari non sono rispettati, le celle sono prive di bagni e lavandini, in estate le temperature sono sahariane, d’inverno antartiche, con spazi troppo angusti per gli operatori sanitari. Mancano pavimenti, campanelli per le emergenze, riscaldamenti e addirittura defibrillatori - ha spiegato Alessandro Longo - soprattutto la dignità del carcerato è calpestata, in quelle piccole celle non possono portare neanche indumenti intimi o libri". Il Reparto Detenuti è al quarto piano dell’edificio centrale: l’ascensore ferma al terzo piano. Per accedere al quarto esiste una chiave in dotazione solo agli agenti di custodia. Morale: in caso d’emergenza, è difficilissimo garantire celerità ed efficienza medica. Salemme ha promesso un intervento sollecito, garantendo l’attivazione di un presidio medico permanente ed i tanto auspicati lavori di ristrutturazione dell’edificio. Rifondazione Comunista chiederà alla Regione Campania l’approvazione immediata del progetto "Salute in carcere", esigendo la previsione di adeguate risorse finanziarie per la ristrutturazione dei reparti detenuti. (La Città. Quotidiano di Salerno, 15 giugno 2002).

 

Suicidio: 18 giugno 2002, Carcere di San Vittore (Milano)

 

Detenuto marocchino si impicca. La notizia viene data dal direttore dell’Istituto, Luigi Pagano, durante un incontro con dei giornalisti: "Ieri si è impiccato un marocchino: il suicidio rimane la nostra vera sconfitta". (Panorama, 19 luglio 2002).

 

Suicidio: 18 giugno 2002, Carcere di Tolmezzo (Udine)

 

Renzo Carraro, 45 anni, si uccide con il gas. A trovarlo, verso le 19.30, è il compagno di cella: ha un sacchetto di plastica in testa, e accanto la bomboletta del fornello a gas. Ha fatto in modo che il gas riempisse il sacchetto, lasciandosi stordire fino a perdere conoscenza e poi morire. Il medico di turno, intervenuto tempestivamente, fa risalire il decesso ad un quarto d’ora prima. Carraro era in carcere da poco più di un anno, con l’accusa di omicidio. Da mese fa era stato trasferito da Vicenza a Tolmezzo e non aveva mai dato segni di sofferenza o manifestato intenzioni suicide, assicura la direzione del carcere: "Non ha mai chiesto assistenza medica o di parlare dei suoi problemi con qualcuno. Tra l’altro aveva un avvocato molto attento e presente, che lo seguiva costantemente". All’inchiesta amministrativa, che sarà aperta dalla direzione del carcere, si affiancherà quella avviata dalla Procura di Tolmezzo. (Il Gazzettino, 20 giugno 2002)

 

 

Morte per cause non chiare: 30 giugno 2002, Carcere di Cuneo

 

Mauro Fedele, 33 anni, muore in carcere. La versione ufficiale parla di "arresto cardiocircolatorio" ma Giuseppe Fedele, padre di Mauro, lancia accuse contro gli agenti di custodia. "Il corpo di mio figlio è pieno di lividi: ha la testa fasciata e ha segni blu su collo, sul petto, specialmente a destra, come uno zoccolo di cavallo; e poi sui fianchi e all’interno delle cosce, sia a destra sia a sinistra. È chiaro che lo hanno riempito di botte, forse con i manganelli, e che è morto per questo. Chiederemo che un nostro medico di fiducia assista all’autopsia, perché dopo quello che abbiamo visto non possiamo subire passivamente e credere a quello che ci hanno detto e cioè che Mauro è morto per arresto cardiocircolatorio. Il nostro avvocato presenterà una denuncia per omicidio, perché pensiamo che sia morto in seguito ad un pestaggio".

Mauro Fedele era in carcere alle Vallette di Torino, in attesa di giudizio per reati connessi allo spaccio di stupefacenti. Una decina di giorni prima della sua morte ne è stato deciso il trasferimento al carcere di Cuneo, per ragioni legate al sovraffollamento della Casa di reclusione torinese. Sabato un fratello e una sorella lo avevano potuto incontrare nel parlatorio del carcere di Cuneo. "Stava bene - racconta Franco Fedele -, sono certo che non aveva ferite, non mi ha detto che aveva problemi. Sono stato anch’io in carcere a Cuneo; so che il regime è un po’ più duro, ma se avesse avuto guai me lo avrebbe detto". Non passa un’intera giornata: a casa della famiglia Fedele, in via Fratelli Garrone, a Torino, alle dieci di ieri mattina arriva una pattuglia dei carabinieri.

"Ci hanno spiegato - dice la madre di Mauro Fedele, Santina Di Fazio - che avevano ricevuto un fax che diceva che Mauro era morto, per arresto cardiocircolatorio, all’alba, verso le 5". "Abbiamo telefonato al carcere - prosegue il padre Giuseppe - dove ci hanno detto che potevamo andare direttamente all’obitorio dell’ospedale. Siamo partiti subito per Cuneo, ma quando siamo arrivati per più di un’ora non ci hanno permesso di vedere nostro figlio: gli addetti dell’impresa di pompe funebri ci hanno detto che dovevano ancora sistemarlo. Abbiamo iniziato a protestare, fino a quando si sono decisi a farcelo vedere. È allora che ci siamo accorti di come era ridotto". Le circostanze della morte di Mauro Fedele, al momento, non sono chiarite da uno scarno referto medico, tecnicamente ineccepibile, che dice che il suo cuore si è fermato, ma non spiega le cause di questo arresto. Forse le chiarirà l’autopsia, già disposta dal procuratore aggiunto della Repubblica a Cuneo Guido Bissoni. Resta l’accusa dei parenti: "Mio fratello è morto perché qualcuno lo ha picchiato - dice Franco Fedele -, e lui non aveva mai avuto problemi con gli atri detenuti". (La Stampa, 1 luglio 2002)

 

Assistenza sanitaria disastrata: 3 luglio 2002, Carcere di Torino

 

Remo Bartoli, 55 anni, romano, colpito da infarto durante una visita medica, muore. L’uomo, apparentemente in buone condizioni, si è accasciato mentre un medico gli stava visitando una banalissima cisti sul collo. Il direttore sanitario del carcere, Remo Urani, non si è ancora pronunciato, "anche se tutto fa pensare a un infarto acuto". Remo Bartoli aveva alle spalle un passato di ladro, con qualche episodio di relativa violenza. L’ultimo arresto, nel giugno 2001, alla darsena di San Bartolomeo a Mare, vicino Imperia, mentre cercava di introdursi in un cabinato. Dopo un anno nel carcere di Imperia, Bartoli era stato trasferito alle Vallette il primo di luglio: nessun problema di salute. Il primo e l’ultimo ieri: aveva chiesto di essere visitato, per poi farsi togliere la cisti sul collo. La magistratura ha aperto un’inchiesta. (La Stampa, 4 luglio 2002).

 

Suicidio: 8 luglio 2002, Carcere di Sanremo (Imperia)

 

Ibrahim Nazgas, 23 anni, marocchino si impicca nella cella dove era rinchiuso da qualche settimana. Quando i compagni di detenzione, rientrati dall’ora d’aria, lo vedono immobile in quella posizione, accasciato al muro e con quel terribile cappio intorno al collo, danno subito l’allarme ma per lui, purtroppo, non c’è ormai più nulla da fare. L’intervento della polizia penitenziaria e il trasporto immediato nel centro sanitario del carcere di Valle Armea, non hanno permesso di salvare la vita al giovanissimo detenuto extracomunitario. Un rapporto sull’accaduto è stato trasmesso in serata al procuratore della Repubblica Mariano Gagliano, che questa mattina scioglierà la riserva sull’eventuale autopsia (una scelta condizionata alla necessità di fare chiarezza sulla morte del nordafricano). Secondo quanto si è appreso il detenuto non aveva dato particolari segni di problemi psichici. Insomma, nessuno avrebbe potuto prevedere un epilogo così drammatico dell’esperienza carceraria. (La Stampa, 9 luglio 2002).

 

Suicidio: 8 luglio 2002, Carcere di Siracusa

 

Claudio Scala, 26 anni, tossicodipendente, si uccide al terzo giorno di carcere. Divideva la stanza con altri due detenuti, ma questi non si sono accorti di nulla: il giovane è entrato nel bagno, ha legato la cintura dell’accappatoio alle sbarre della finestra, si è passata l’altra estremità attorno al collo, e si è lasciato soffocare. Quando é stato trovato in quello stato non era ancora morto e, per quasi un’ora, si è avuta la speranza di poterlo salvare. La scoperta è stata fatta verso le 3. A quell’ora le guardie eseguono "la conta", verificano, cioè, la presenza nelle celle dei detenuti. L’agente entrato nella stanza di Scala ha notato subito l’assenza del giovane e ha chiesto notizie agli altri due reclusi, trovati entrambi che dormivano. Hanno avuto subito la sensazione che fosse accaduto qualcosa di grave, visto che Claudio Scala, sin dal momento in cui era entrato in carcere, era apparso particolarmente depresso e aveva anche manifestato intenzioni suicide. La guardia e i due detenuti sono corsi nel bagno e hanno trovato Claudio Scala impiccato. Immediatamente lo hanno liberato dal cappio che gli stringeva il collo. Il giovane era ancora vivo, anche se non riprendeva conoscenza. A bordo dell’ambulanza fatta intervenire per trasportarlo in ospedale, si è tentato di rianimare il detenuto, ma è stato tutto inutile. Lungo il tragitto, il cuore del povero Claudio Scala ha cessato di battere. Quando è arrivato al pronto soccorso dell’Ospedale Umberto I° i medici non hanno potuto fare altro che constatare l’avvenuto decesso.

Claudio Scala era finito in cella sabato scorso. Due le condanne che doveva scontare: una ad un anno, tre mesi e 24 giorni di reclusione, per spaccio di droga, un’altra a quattro mesi, per avere disertato quando era stato chiamato a svolgere il servizio militare. I carabinieri avevano avvertito la direzione della Casa di Reclusione dello stato di profonda depressione dell’arrestato. La raccomandazione non era caduta nel vuoto: "Vista la situazione - afferma il direttore pro tempore del carcere di contrada Cavadonna, Giovanni Mazzone - gli avevamo dato la possibilità di scegliere in quale cella stare. Aveva scelto quella dove si trovava un suo conoscente di Pachino ed era stato accontentato. I compagni di stanza erano stati anche informati delle sue condizioni, affinché lo aiutassero. Purtroppo, tutte queste attenzioni non sono servite a niente".

Claudio Scala, più volte arrestato per droga, in carcere non ci voleva tornare e poteva riuscirvi. Aveva, a quanto pare, le carte in regola per chiedere la sospensione dell’esecuzione della pena e l’affidamento al Ser.T. Ma non ha mai presentato alcuna domanda. Aveva contattato il Ser.T. di Noto, che è il più vicino a Pachino, dove abitava, ma si era poi posto il problema di come vi si doveva recare ogni giorno, visto che non aveva un mezzo e - diceva - nemmeno i soldi per l’autobus. Insomma, davanti a tanti problemi, apparentemente piccoli ma che lui sarebbero sembrati insormontabili, si sarebbe arreso, aggrappandosi solo all’impossibile speranza che la Giustizia si dimenticasse di lui. Una speranza che si è dissolta sabato scorso, quando a casa sua si sono presentati i carabinieri per eseguire il provvedimento di carcerazione. (Gazzetta del Sud, 9 luglio 2002)

 

Tentato suicidio: 9 luglio 2002, Carcere di Viterbo

 

Fabio Ciaralli, 40 anni, tenta di impiccarsi in una cella del carcere di Viterbo. Un agente di custodia vede il suo corpo che penzola. Sta ancora respirando, quando viene dato l’allarme: trasportato all’ospedale, lo strappano alla morte.

Il 24 novembre 2000 Ciaralli uccise la moglie, ferendo gravemente anche il nuovo compagno di quest’ultima. Il 5 marzo 2002 si era concluso il processo in Corte d’Assise e Ciaralli era stato condannato a 28 anni di carcere. Era stato giudicato in grado di intendere e di volere. In pratica, era stata accolta la tesi dell’accusa, che aveva sostenuto la lucidità dell’omicida al momento del tragico evento. Dopo la sentenza aveva chiesto di essere trasferito dal carcere di Pisa a quello di Roma, dove abitano i suoi genitori.

La domanda era stata accolta, ma in parte. Invece di Rebibbia, per Ciaralli si apre la possibilità di andare a Viterbo. Così, negli ultimi giorni di giugno, Ciaralli lascia il Don Bosco per una cella del carcere viterbese. Ma alla quarta notte crolla. Vuole mettere la parola fine alla propria vita. È il quinto tentativo di suicidio dal giorno della tragedia. La prima volta ci tentò quel terribile 24 novembre tagliandosi la gola e i polsi; per ben due volte, mentre era in terapia intensiva al "Santa Chiara", aveva manomesso la cannula dell’ossigeno procurandosi due broncospasmi; nel luglio dell’anno scorso rifiutò il cibo per diversi giorni. Per contrastare questo grave stato depressivo, al carcere di Pisa, era sotto cura ed i medici gli somministravano gli psicofarmaci.

"Quando è stato trasferito a Viterbo - afferma Ezio Menzione, legale di Ciaralli - non è stato posto sotto controllo continuo e non gli sono stati dati i farmaci necessari. Se fosse stato soccorso un minuto più tardi, sarebbe morto. Ciaralli è rimasto quattro giorni in rianimazione. Quest’ultimo grave episodio, purtroppo, avvalora quello che la difesa ha sempre sostenuto. Ovvero che Ciaralli al momento dell’omicidio non era in grado di intendere e di volere".

Dopo essere stato dichiarato fuori pericolo dall’ospedale di Viterbo, la procura viterbese ha chiesto il trasferimento di Ciaralli all’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo. Ma la Corte d’Appello di Pisa si è opposta poiché Ciaralli è ritenuta una persona in grado di intendere e di volere, come - del resto - è stato affermato nella sentenza di condanna. Pertanto, Fabio Ciaralli è stato inviato alla clinica psichiatrica "Santa Chiara" di Pisa dove è stato curato. Successivamente, è stato trasferito al centro clinico del carcere Don Bosco. In pratica, è tornato dove si trovava. (Il Tirreno, 17 luglio 2002).

 

Morte per cause non chiare: 13 luglio 2002, Carcere di Cagliari

 

Luca Saba, 31 anni, muore in cella dopo una settimana dall’arresto. La madre è andata al colloquio, ma Luca non poteva esserci: "Suo figlio è morto", l’hanno liquidata sul portone di "Buoncammino", a Cagliari. C’è voluto l’arrivo di un avvocato, per riuscire a saperne di più. Poco di più: "Il detenuto Saba Luca, di anni trentuno, nato e residente a Carbonia, è deceduto per arresto cardiocircolatorio". Secche e brutali, le informazioni della polizia penitenziaria si sono fermate qui. Per riuscire ad avere altri particolari, è stato necessario raccogliere indiscrezioni non confermate. Di sicuro si sa che è stata aperta un’inchiesta. La segue il sostituto procuratore Giangiacomo Pilia, che ha fatto eseguire l’autopsia nell’istituto di medicina legale. Luca è stato probabilmente stroncato da un infarto, ma ci sono alcuni dettagli poco chiari.

Tossicodipendente, un passato tempestato di piccoli reati (soprattutto furti), Luca doveva scontare tre anni di reclusione. Venerdì aveva ricevuto la visita del padre e, prima ancora, quella del suo avvocato: "Era tranquillo, sembrava finalmente sereno". Sabato mattina, improvvisamente, è morto. Alle 17 del pomeriggio un fax della direzione del carcere è arrivato ai carabinieri di Carbonia. Chiedevano di informare i familiari. A nessuno è venuto in mente che, forse, sarebbe stato meglio informare la caserma con una telefonata: i fax che piovono al centralino sono una quantità infinita e s’è perso in mezzo a mille noticine e ordini di servizio. Solo lunedì mattina i carabinieri di Carbonia si sono recati a casa dei familiari di Luca, in via Mazzini. Hanno bussato ma non ha risposto nessuno, perché da qualche tempo si sono trasferiti in una villetta a Punt’e Trettu.

In quel momento, comunque, non avrebbero potuto rintracciare la madre. Che era a Cagliari, in sala attesa-colloqui a Buoncammino. Quando ha chiesto di parlare col figlio, la donna si è sentita rispondere nel peggiore dei modi, senza un minimo di tatto: "Suo figlio è morto, non lo sa?". A quel punto ha cominciato a gridare ed è stata allontanata. Nel giro di una mezz’ora l’ha raggiunta il marito, ma anche per lui il portone del carcere è rimasto implacabilmente chiuso. L’avvocato Aste è arrivato in un meno di un’ora: "Così ho saputo dagli agenti di polizia penitenziaria che la madre di Luca era stata cacciata perché gridava. Cos’altro avrebbe potuto fare una madre che apprende in quel modo la morte del figlio?"

La morte, per quel poco che si è riusciti a sapere, è dovuta a cause naturali. Sul cadavere non sarebbero stati riscontrati traumi o altro che possa far pensare a tragiche conseguenze di una lite. All’ufficio-matricola di Buoncammino, Luca aveva dichiarato di essere tossicodipendente e come tale ha chiesto assistenza medico-farmacologica. Non c’è ragione di ritenere che gli sia stata negata. Anzi. I dubbi sono altri. Nonostante il fisico debilitato, le sue condizioni generali erano buone. Mai avuto problemi cardiaci, né fastidi che potessero in qualche modo segnalare l’arrivo di un infarto. Ecco perché il difensore vuole vederci chiaro e ha chiesto, per questa ragione, l’aiuto di un perito. Il P.M. disporrà, intanto, nuovi accertamenti. Nell’arco di qualche giorno il giallo, se di giallo si tratta, dovrebbe essere risolto. (L’Unione Sarda, 17 luglio 2002)

 

Suicidio: 17 luglio 2002, Carcere di Salerno

 

Antonio Rinaldi, 31 anni, tossicodipendente, si impicca. Avrebbe terminato la pena entro pochi giorni. Era da solo in una cella del reparto "comuni", è stato un agente a dare l’allarme, ma inutilmente. Antonio Rinaldi aveva un passato di tossicodipendenza, era noto alle forze dell’ordine per numerosi reati quali detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti e diversi furti, ma suo debito con la giustizia era già quasi saldato. Aveva scontato sette mesi e qualche settimana di carcere ed, ora, stava per ritornare ad essere un uomo libero, ma forse la prospettiva di tornare in libertà e poter ricadere nell’errore lo ha spinto ad un atto così estremo.

Forse la vita del carcere, forse il timore del giudizio degli altri, il rimorso per il dolore provocato ai genitori hanno soggiogato Antonio, che ha deciso di farla finita, con un cappio attorno al collo. Un attimo ed il suo giovane cuore ha cessato di battere. Un attimo ed una famiglia, già tristemente provata, è stata distrutta dalla tragica morte del loro congiunto. (La Città. Quotidiano di Salerno, 19 luglio 2002).

 

Suicidio: 18 luglio 2002, Carcere di Sassari

 

Samuele Catta si impicca con il cavo della televisione in una cella del "San Sebastiano". Dopo sei mesi di indagini il sostituto procuratore Paolo Piras ha ipotizzato, nei confronti del sovrintendente della polizia penitenziaria C.A., 42 anni, di Castelsardo, il reato di omicidio colposo. Un’accusa molto pesante, che va oltre quella "tradizionale" di negligenza nella sorveglianza, che viene formalizzata solitamente in queste situazioni. Secondo il titolare dell’inchiesta quel sovrintendente, capoturno al momento della tragedia, aveva avuto un incarico preciso, dopo che il medico del carcere aveva disposto nei confronti di Samuele Catta la precauzione dell’altissima sorveglianza. Il giovane, infatti, era stato portato in infermeria dopo un atto di autolesionismo e, in quella sede, aveva manifestato propositi suicidi.

L’ordine era quello di condurlo in una cella priva di suppellettili, con le quali potesse attuare quei propositi o anche ripetere gli atti di autolesionismo, e venne eseguito: la stanza dove fu condotto, però, aveva il cavo dell’antenna appeso al muro, anche se a poco più di un metro di altezza, e Samuele Catta lo usò come patibolo impiccandosi con una garza. Secondo il magistrato, C.A. avrebbe disatteso le disposizioni provocando così la morte del giovane, sulla quale all’inizio ci furono due teorie: suicidio, appunto, o un tragico scherzo degenerato poi in una tragedia. La decisione di indagare il capoturno sembra chiaramente indicare che è stato un suicidio e che, secondo il magistrato, la morte di Samuele Catta si poteva evitare.

L’inchiesta ha avuto così una svolta imprevista, dopo che qualche settimana fa sembrava avviata verso una semplice archiviazione. L’episodio aveva però suscitato un enorme clamore, sia per la vittima (Samuele Catta era figlio di Marco, il musicista scomparso a causa di un’esplosione al centro storico e anche in quel caso qualcuno parlò di suicidio), sia perché si trattava del quarto suicidio a San Sebastiano nel giro di poche settimane. Il provveditore aveva chiesto più volte l’autorizzazione per un’inchiesta interna, ma la magistratura l’aveva sempre rifiutata: evidentemente la procura voleva esaminare il caso più da vicino e a breve ci saranno nuovi sviluppi. (La Nuova Sardegna, 2 febbraio 2003).

 

Suicidio: 19 luglio 2002, Carcere di Pavia

 

G.S., 36 anni, originario di Como, muore inalando il gas. Il corpo senza vita è stato trovato verso le 20. L’ipotesi nettamente prevalente è quella del suicidio, anche se non si può escludere che G.S abbia voluto inalare il gas solo per stordirsi, in un momento particolarmente negativo, e sia stato stroncato dall’eccessiva quantità respirata. Sempre in base a quanto risulterebbe dai primi accertamenti, G.S. era solo nella sua cella, quando ha inalato il gas butano contenuto in una bombola, che il regolamento carcerario consente di utilizzare per alimentare i fornelli portatili. Il detenuto è stato trovato privo di conoscenza: i soccorsi sono stati attivati immediatamente, ma il medico del 118 non ha potuto fare altro che constatare la morte.

"Era un ragazzo fragile, molto sensibile". Parla l’avvocato Piercostante Ferrari, che aveva difeso G.S. ad un processo per furto, celebrato il 4 aprile scorso. "Dopo aver commesso qualche errore in passato, aveva trovato un lavoro e cercava di condurre una vita più tranquilla. Finché non ha commesso l’errore che purtroppo l’ha riportato in carcere, con una condanna a due anni e un mese". "È stata respinta - ricorda il legale - anche la richiesta di semilibertà, che gli avrebbe consentito di conservare il lavoro". (La Provincia Pavese, 21 luglio 2002).

 

Morte per cause non chiare: 22 luglio 2002, Carcere di Udine

 

Sergio Franceschinis, triestino, è stroncato da un infarto mentre consuma il pranzo. (Gazzettino del Friuli, 2 agosto 2002).

 

Assistenza sanitaria disastrata: 22 luglio 2002, Carcere di Torino

 

Fabio Benini, 30 anni, muore per infarto cardiaco. Era stato trasferito da dieci giorni, proveniente dal carcere di Forlì, al centro psichiatrico del carcere "Le Vallette" di Torino. Soffriva di anoressia, aveva perso 50 kg negli ultimi mesi, collassava due volte al giorno, l’altra mattina l’hanno trovato morto nel suo letto.

Benini era stato condannato, in primo grado di giudizio, per l’omicidio di Daniele Dall’Ara, avvenuto il 14 febbraio 2001 dopo una lite. L’avvocato Veniero Accreman, ha inviato ieri mattina un esposto alla Procura della Repubblica di Torino, chiedendo non solo un responso diagnostico sulla morte del suo ex assistito, ma una vera e propria autopsia. L’autopsia verrà eseguita domani, giovedì.

"Vogliamo capire - spiega Accreman - se il comportamento medico tenuto nei confronti del detenuto sia stato conforme alle regole. Ci sarà anche un nostro perito, il professor Francesco Zanetti".

Secondo la famiglia e i pochi amici che ancora circondavano Benini no, non è stato conforme alle regole, questo comportamento, e quindi non è da escludere in un secondo momento una denuncia contro le autorità penitenziarie. A più riprese Accreman aveva chiesto una misura detentiva diversa dal carcere per Fabio: gli arresti domiciliari, una clinica privata: "Non gliel’hanno mai concessa - piange oggi Giorgio Benini, il padre - il mio Fabio non si reggeva più in piedi e loro avevano paura che scappasse. È una vergogna, ma adesso mi dispiace io non starò più zitto. Non hanno neanche voluto fargli vedere la nonna, che l’aveva cresciuto".

Il "caso Benini" è finito anche a Palazzo Madama. Il senatore Sauro Turroni (Verdi) ha presentato un’interrogazione al ministero della Giustizia. Turroni chiede, in sostanza: 1) se il ministro ritenga accettabile che nel 2002 si possa ancora essere lasciati morire in carcere, condannati solo in primo grado; 2) per quale motivo non sono state adottate adeguate misure nei confronti di una persona notoriamente malata; 3) perché si è tardato tanto a trasferirlo a Torino; 4) se giunto in Piemonte è stato sottoposto a tutte le cure necessarie; 5) quali determinazioni il ministro abbia assunto per accertare se da parte della direzione delle due carceri vi siano stati ritardi od omissioni; 6) se il ministro non intende avviare un’inchiesta interna volta ad accertare eventuali responsabilità. (Il Resto del Carlino, 24 luglio 2002).

 

Suicidio: 3 agosto 2002, Carcere di Bari

 

Gianluca Frani, 31 anni, paraplegico, si uccide impiccandosi. Una morte "annunciata", con le lettere scritte alla famiglia, in cui chiedeva di non essere seppellito sotto terra e di aver con sé la maglia della sua squadra, la Roma. L’uomo, che stava scontando una condanna di 8 anni e 9 mesi per un cumulo di pene relative ad una serie di reati, si è suicidato nel carcere di Bari, dove era stato trasferito due anni fa perché paraplegico. Uno dei pochi istituti di pena, secondo il ministero della Giustizia, dotato di un centro clinico per gente malata come lui.

Ma la famiglia accusa: era depresso, veniva curato solo con il valium e nessuno ne ha impedito il suicidio. Come può un carrozzellato - si chiedono i parenti - riuscire ad impiccarsi al tubo dello scarico del water senza che nessuno si accorga di nulla? Gianluca Frani aveva subito una lesione al midollo spinale nel ‘97: qualcuno gli sparò contro, proprio sotto casa, e man mano le sue condizioni erano peggiorate fino a costringerlo alla sedia a rotelle.

Poi erano andati a stringersi anche i nodi della giustizia, con l’arresto per il cumulo di pena. E il trasferimento a Bari, dove la famiglia poteva raggiungerlo saltuariamente, aveva acuito la sua malattia fino a spingerlo alla morte. "Ci siamo costituiti parte civile - dice l’avvocato Luca Colaiacomo, legale della famiglia Frani - nel procedimento avviato sulla morte, soprattutto per capire la complessa dinamica dei fatti. Abbiamo fiducia nell’operato della magistratura, che sta indagando per chiarire quanto è accaduto". Sotto sequestro la cella, sentito anche il detenuto che aveva il ruolo "accompagnatore" di Gianluca Frani, data la sua difficoltà a muoversi. E il rammarico della famiglia per il fatto che le richieste di avvicinamento a casa siano sempre state rigettate dal Tribunale di Sorveglianza. Certo, le pene detentive vanno scontate, ma qualcuno doveva accorgersi che in questo caso si era imboccata la via del non ritorno. (Il Messaggero, 9 agosto 2002)

 

Suicidio: 3 agosto 2002, Carcere di Opera (MI)

 

A.M., 40 anni, tossicodipendente si uccide mentre era in una cella di "osservazione". S’era ripresentato in carcere, non trovandosi bene in una comunità terapeutica. Grazie all’imminente cumulo di due pene, tra meno di 2 anni sarebbe uscito. (Corriere della Sera, 6 agosto 2002).

 

Tentato suicidio: 7 agosto 2002, Carcere di Vicenza

 

"Giovane cinese", detenuto da quasi due mesi, per ricettazione, cerca di togliersi la vita per due volte in un pomeriggio. In entrambe le occasioni viene salvato dall’intervento degli agenti della polizia penitenziaria. Il primo episodio accade poco prima delle 15.30. Il ragazzo, con un lenzuolo, forma un cappio e tenta di impiccarsi alla finestra della cella. La guardia interviene subito e lo blocca. Mezz’ora più tardi, il cinese utilizza del detersivo, in dotazione per la pulizia delle celle. Memori di quant’era accaduto poco prima, gli agenti lo sorvegliano a vista e intervengono accompagnandolo in infermeria. Le sue condizioni fisiche non sono preoccupanti. Quelle psicologiche, invece, parrebbe di sì. (Il Giornale di Vicenza, 8 agosto 2002)

 

Tentato suicidio: 8 agosto 2002, Carcere di Sanremo (Imperia)

 

Omar Talala, 35 anni, marocchino, tenta di uccidersi bevendo l’intero contenuto di una confezione di ammorbidente "Coccolino". Durante il giro d’ispezione notturna gli agenti lo trovano steso a terra, privo di sensi, con la bava alla bocca. Ricoverato all’Ospedale cittadino e sottoposto a una lavanda gastrica e a terapie disintossicanti, è fuori pericolo. (La Stampa, 9 agosto 2002).

 

Suicidio: 9 agosto 2002, Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia

 

Franco Valinetti, 32 anni, veronese, si impicca in cella. La notizia è data dal cappellano dell’O.P.G., che si rivolge al vescovo di Reggio Emilia, Adriano Caprioli, e al sindaco della città, Antonella Spaggiari, con una drammatica lettera aperta. In pochi mesi quello di Franco Valinetti è il quinto suicidio che avviene nella struttura. (Gazzetta di Reggio, 15 agosto 2002).

 

Morte per cause non chiare: 13 agosto 2002, Carcere di Rebibbia (Roma)

 

Massimo De Rossi, 39 anni, tossicodipendente, muore nel suo letto e viene trovato senza vita dai compagni di cella, all’alba. Malore, oppure overdose: sono queste le due ipotesi sulla sua morte. Ma neanche l’autopsia, effettuata all’istituto di medicina legale della Sapienza, ha ancora chiarito le cause: sul corpo dell’uomo non sono stati trovati segni di violenza e sono stati disposti esami tossicologici per capire se si sia trattato di un’overdose. Il primo ad escludere il suicidio è il direttore del Nuovo Complesso, Carmelo Cantone: "Al momento non si può escludere alcuna ipotesi, ma non abbiamo elementi per supporre il suicidio. È stato trovato morto steso nel suo letto, non aveva segni di violenza, né ha lasciato lettere. Poi sarebbe stato scarcerato il prossimo febbraio". L’associazione Papillon chiede di chiarire i motivi della morte, sostenendo che "È ugualmente grave sia se Massimo è morto per overdose, per l’assunzione di un mix di droghe, o a causa delle carenze del sistema sanitario". (Il Nuovo on line, 23 agosto 2002).

 

Morte per cause non chiare: 16 agosto 2002, Carcere di Poggioreale (Napoli)

 

Vittorio Montescuro, 39 anni, muore in carcere 9 giorni prima del termine della pena. Il fratello lo scopre solo dopo diversi giorni, quando già stavano eseguendo l’autopsia. Sulla vicenda - resa nota ieri dall’avvocato Vittorio Trupiano, che ha raccolto la denuncia dell’uomo - la Procura della Repubblica di Napoli aveva già aperto un’inchiesta giudiziaria. La scoperta del decesso sarebbe stata fatta da due detenuti di colore. Nessuno degli organi preposti, secondo Carmine Montescuro, lo avrebbe però avvertito della morte di suo fratello, e la notizia sarebbe arrivata tre giorni dopo, grazie ad alcuni conoscenti. Nessuno gli avrebbe inoltre detto se il fratello si sia suicidato, se è morto per cause naturali, o se è stato ucciso. Quando si è rivolto ai carabinieri della caserma Arenaccia, per chiedere spiegazioni, afferma Montescuro nella denuncia, i militari gli avrebbero risposto che lo avevano cercato già una volta e che "non erano dei postini". Nella denuncia Montescuro ha scritto di aver "trovato il corpo di Vittorio sottoposto ad autopsia e immerso in una vasca piena d’acqua gelida, con il torace aperto in due". (Il Mattino, 30 agosto 2002).

 

Tentato suicidio: 30 agosto 2002, Carcere di San Gimignano (Siena)

 

F.S., 35 anni, di origine nordafricana, cerca di togliersi la vita, probabilmente con un vetro o una specie di lametta, tagliuzzandosi entrambi i polsi. I compagni di cella sono i primi ad accorgersi delle ferite. Lo straniero è subito soccorso dagli agenti, per le prime cure, poi viene trasferito al pronto soccorso di Campostaggia. Non si conoscono i motivi all’origine del disperato gesto: depressione o trasferimento negato? (La Nazione, 31 agosto 2002)

 

Assistenza sanitaria disastrata: 2 settembre 2002, Carcere di Forlì

 

Umberto Tubelli, 54 anni, muore durante la notte nel letto della sua cella. Una morte che scotta. Per vari motivi. Di certo perché s’è subito innescata un’inchiesta giudiziaria, coordinata dal sostituto procuratore Filippo Santangelo. Che ha disposto l’autopsia al cadavere di Tubelli, che pare soffrisse di diversi disturbi da alcuni giorni: avrebbe pure chiesto di uscire per essere visitato e curato adeguatamente fuori dal carcere. Permesso non concesso. Ci sarebbero comunque già degli indagati. Il riserbo è massimo. Tutti si tengono in equilibrio sopra evasivi "non so".

L’autopsia sarà, comunque, un passo decisivo per stabilire eventuali responsabilità di questa morte. L’esame dovrebbe stabilire le esatte cause della morte. E da lì sarebbe poi possibile risalire ad eventuali responsabilità. Tuttavia, codice alla mano, sarebbero già partite informazioni di garanzia. E questo perché l’autopsia giudiziaria è considerata dalla legge un "accertamento tecnico non ripetibile": in previsione di un eventuale processo, è stabilito che i probabili soggetti imputabili siano già individuati con nomi e cognomi per poter essere presenti all’accertamento e potersi quindi successivamente difendere. Chi e quanti siano gli indagati non è però ancora chiaro. (Il Resto del Carlino, 4 settembre 2002).

 

Assistenza sanitaria disastrata: 7 settembre 2002, Carcere di Rebibbia (Roma)

 

S.P., cardiopatico, muore per una crisi respiratoria. È il terzo morto, in poche settimane, a Rebibbia. La denuncia arriva dell’Associazione Papillon: ci sarebbero stati ritardi nella somministrazione dell’ossigenoterapia, di cui l’uomo aveva bisogno. "La cosa più incredibile è che tutto questo è accaduto durante la visita di due rappresentanti politici, Deiana e Bonadonna, del PRC - afferma Vittorio Antonimi, di Papillon – e la direzione, che li accompagnava, ha fatto in modo che i due non si accorgessero di nulla". Sulla vicenda è intervenuto anche il deputato verde Paolo Cento, vicepresidente della Commissione Giustizia della Camera: "Stamane mi sono recato in visita a Rebibbia e sono venuto a sapere di quello che è successo. Presenterò un’interrogazione parlamentare su questa grave vicenda". (Il Nuovo on line, 8 settembre 2002).

 

Assistenza sanitaria disastrata: 23 settembre 2002, Carcere di Pisa

 

Adolfo Nocchi, 30 anni, muore durante la notte. Era arrivato a Pisa da poco, dal carcere di Livorno. A stroncarlo, pare nel sonno, sarebbe stato un infarto: la salma però è stata composta all’istituto di medicina legale dell’università, a disposizione dell’autorità giudiziaria. Sarà sottoposta ad autopsia. Il giovane, un passato purtroppo legato alla tossicodipendenza, potrebbe avere avuto un malessere, culminato nell’attacco cardiaco che ha posto fine alla sua esistenza. (Il Tirreno, 24 settembre 2002).

 

Assistenza sanitaria disastrata: 5 ottobre 2002, Ospedale "Fazzi" di Lecce

 

Sotaj Satoj, 40 anni, albanese, muore nel reparto Rianimazione dell’Ospedale di Lecce dopo tre mesi di sciopero della fame. Gli agenti continuano a piantonarlo per ore, da morto: credevano fosse un éscamotage per tentare la fuga. Era arrivato in Italia su un gommone, attraversando il Canale di Otranto. All’arrivo aveva trovato la Guardia di Finanza, che non aveva creduto fosse un "semplice" clandestino, sbarcato assieme ad altri 50, e che aveva pagato circa duemila dollari agli scafisti. Sul gommone c’era della droga e lui era stato arrestato, assieme ad altri sei connazionali, per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Per ribadire la sua innocenza aveva deciso di adottare l’unica forma di protesta possibile: lo sciopero della fame. "Sono turbata e amareggiata – ha detto il suo difensore, l’avvocato D’Amuri – perché la magistratura non si è resa conto della gravità della situazione. Avevo chiesto da tempo una perizia medica. Quell’uomo, colpevole o innocente che fosse, si è consumato come una candela, arrivando a perdere tutte le difese immunitarie. Qualcuno avrebbe dovuto impedire che arrivasse a quel punto. Mi resta l’amaro dubbio che, se fosse stato italiano, la storia di Sotaj non sarebbe finita così". (Il Manifesto, 6 ottobre 2002).

 

Suicidio: 6 ottobre 2002, Carcere di Cagliari

 

Paolo Santona, 48 anni, cagliaritano, collaboratore di giustizia, si impicca. È ancora vivo, quando gli agenti lo soccorrono, ma il loro intervento non serve a nulla: asfissia da soffocamento, sentenzia il medico legale. Stava scontando una condanna di tre anni, per droga. Non era ritenuto "pericoloso" né era tossicodipendente. Sembra, addirittura, che avesse da poco superato senza problemi il test con la psicologa del carcere, nell’ipotesi di essere assegnato in affidamento ai servizi sociali. Sul tragico episodio la Procura ha aperto un’inchiesta. (L’Unione Sarda, 9 ottobre 2002).

 

 

Suicidio: 7 ottobre 2002, Carcere di Cagliari

 

Sandro Fanari, 45 anni, si uccide poco prima dell’alba. Gli agenti di guardia lo trovano agonizzante nel bagno della cella, con il capo infilato in un cappio rudimentale legato alla finestrella. Il giovane viene subito trasportato nel Centro Clinico, ma tutto è inutile. "Direi che era un detenuto abbastanza tranquillo - ha commentato il direttore Gianfranco Pala - e questo ci dispiace molto. Stava in una stanza doppia, quindi lontano dall’affollamento di cui si parla. Né aveva denunciato malattie. Purtroppo, sono gesti imprevedibili, su cui non si può dire molto". (L’Unione Sarda, 9 ottobre 2002).

 

Suicidio: 17 ottobre 2002, Carcere di Marassi (Genova)

 

R.F., 33 anni, genovese, ex tossicodipendente e malato di AIDS, si è uccide mettendosi un sacchetto di plastica in testa e aprendo la bomboletta di gas per cucinare. Era ricoverato nel reparto malattie infettive del carcere. Il suo compagno di cella si è svegliato per il forte odore di gas, ha visto la scena e ha chiesto aiuto. Inutili sono stati i tentativi di rianimazione. Il PM Nicola Piacente ha disposto l’autopsia. È il terzo suicidio, in poco tempo, che avviene nel reparto infettivi di Marassi. R.F. faceva il falegname e come hobby suonava il basso. La musica era la sua grande passione. Aveva grossi problemi caratteriali ed era ben conosciuto dai servizi sociali. (Libertà – Quotidiano di Piacenza, 18 ottobre 2002).

 

Suicidio: 24 ottobre 2002, Carcere di Sondrio

 

Roberto Mainetti, 22 anni, si impicca in cella. Doveva scontare una condanna a dieci anni di reclusione, con l’accusa di quindici tentati omicidi. Il giovane, assieme ad un coetaneo (condannato a otto anni), era stato ritenuto autore di numerosi lanci di sassi dai cavalcavia della Valtellina. (Messaggero Veneto, 25 ottobre 2002).

 

Suicidio: 30 ottobre 2002, Carcere del Piemonte (?)

 

Maurizio Blancato, 26 anni, collaboratore di giustizia, si impicca. Era legato a un clan mafioso catanese e, lo scorso anno, aveva chiesto di parlare con il sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia, Francesco Puleio, che ha coordinato le indagini contro la mafia della zona di Calatabiano, cominciando così la sua collaborazione. Era stato più volte preso a verbale, ma ancora la sua collaborazione non era considerata del tutto convinta. Forse doveva raccontare altro, forse doveva alzare il tiro per narrare le conoscenze che aveva in seno al sodalizio criminale dove era considerato "picciotto" di rilevo. Ma, da qualche mese, Maurizio Blancato era caduto in depressione. Era rimasto in un carcere del Piemonte, mentre ai suoi parenti era stata data la protezione, affidata ai carabinieri. Ha avuto un crollo psicologico e non parlava più con nessuno. Si sentiva abbandonato ed era in crisi poiché era ancora ristretto in carcere, pare lo stesso dove qualche anno addietro si è suicidato - sempre impiccandosi - un altro collaboratore di giustizia catanese. (Gazzetta del Sud, 31 ottobre 2002).

 

Suicidio: 2 novembre 2002, Carcere di Ancona

 

Alfredo Vargas Sanchez, peruviano, muore all’ospedale di Ancona, dopo essersi impiccato in cella. Era in carcere da circa un mese, prima a Camerino, dove aveva compiuto gesti autolesionistici e tentato il suicidio, poi nella casa circondariale di Ancona, dove si è impiccato, legando un lenzuolo alle sbarre della finestra della cella. Gli agenti gli hanno praticato il massaggio cardiaco, facendolo poi trasportare in ospedale, ma nonostante le cure l’uomo è deceduto. Era ricercato per un omicidio commesso in Perù (secondo l’accusa, avrebbe ucciso un connazionale durante una rissa in un bar) però era regolarmente in Italia e lavorava, come badante, a Macerata. (Il Messaggero, 3 novembre 2002).

 

Assistenza sanitaria disastrata: 9 novembre 2002, Carcere dell’Aquila

 

Francesco Mangion, 66 anni, originario di Catania, muore per collasso cardiocircolatorio nel carcere dell’Aquila, dove era detenuto per scontare la pena dell’ergastolo in regime di 41 bis (carcere duro). Mangion, ritenuto per molti anni il braccio destro di Nitto Santapaola, era stato condannato alla massima pena dalla Corte d’Assise di Catania: scarcerato il 14 maggio del 1999, rimase fuori del carcere per soli 12 giorni, poi fu nuovamente ammanettato, su ordine di carcerazione della procura della Repubblica di Catania. (Il Centro, 10 novembre 2003).

 

Suicidio: 11 novembre 2002, Carcere di San Vittore (Milano)

 

Eugenio Podio, 44 anni, si impicca nella sua cella. Doveva essere trasferito, entro pochi giorni, nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia. Aveva annunciato agli psichiatri che avrebbe ucciso il figlio di 6 anni e ha mantenuto la parola. Poi ha annunciato che si sarebbe tolto la vita e, anche in questo caso, è stato sincero. L’omicidio risale a maggio, quando Podio, in preda ad una crisi mistica, soffocò con un cuscino il figlio Nitai, coprendo poi il corpo con immagini di divinità indù. Giudicato seminfermo di mente, era stato destinato all’O.P.G. di Reggio Emilia, per essere sottoposto a una terapia, ma anche per poter essere controllato più agevolmente, visto l’annuncio dei proponimenti suicidi. (Gazzetta di Reggio, 13 novembre 2002).

 

Tentato suicidio: 15 novembre 2002, Carcere di Como

 

Un romeno, di 27 anni, è ricoverato in condizioni disperate nel reparto rianimazione dell’ospedale "Sant’Anna", dopo che ha tentato di togliersi la vita impiccandosi nel bagno della cella. Se ne sono accorte le guardie carcerarie, nel momento in cui hanno fatto la conta dei detenuti. Il giovane romeno non ha risposto all’appello. Oltre agli agenti di polizia penitenziaria, a soccorrere il ventisettenne, in carcere dall’agosto scorso per scontare un anno di reclusione per rapina, sono stati anche gli altri detenuti della sezione. (Il Giorno, 19 novembre 2002).

 

Suicidio: 25 novembre 2002, Carcere di Bologna

 

L. Celeste, 27 anni, tossicodipendente, si infila in testa un sacchetto di plastica e poi si impicca. Era entrato alla "Dozza" solo due giorni prima, rimesso in carcere perché aveva contravvenuto agli arresti domiciliari, in attesa di giudizio per furto e rapina. Per essere sicuro di farla finita, il giovane si è messo un sacco in testa, poi si è legato una corda al collo e si è impiccato. La fune, oltre alla gola, gli stringeva addosso il sacco di cellophane. Neppure un filo d’aria per lui. A trovarlo ciondolante è stato un agente della polizia penitenziaria. Ha aperto l’uscio della prigione in fretta, ha preso quel corpo penzoloni per le gambe e l’ha sollevato con forza, chiedendo aiuto ai colleghi. Purtroppo non è servito. Al padiglione giudiziario del carcere della "Dozza", secondo piano, sono accorsi in tanti, ma per Celeste nessuna speranza di ripigliare fiato. È arrivato anche un medico, vana anche la sua corsa. Il detenuto era già morto per asfissia. Ai soccorritori allora non è rimasto altro da fare che avvisare il P.M. di turno, Walter Giovannini, che è immediatamente andato in carcere per il sopralluogo. Nessuno, almeno all’inizio, poteva escludere, ad esempio, l’omicidio del giovane, eventualità poi risultata priva di ogni fondamento. (Il Resto del Carlino, 26 novembre 2002).

 

Morte per cause non chiare: 27 novembre 2002, Questura di Roma

 

Maurizio Scandura, 28 anni, tossicodipendente, muore nella camera di sicurezza di una Questura. Era stato arrestato al termine di un inseguimento in moto culminato con una caduta, sua e dei due poliziotti che cercavano di fermarlo. Dopo la caduta dalle rispettive moto sia Scandura sia i poliziotti erano stati medicati in ospedale e il giovane era stato dimesso con una prognosi di sette giorni, dopo che la TAC non aveva individuato alcun problema neurologico. Dopo essere stato portato in Questura, visto il suo stato molto agitato, aveva ottenuto una dose di metadone, somministrata da un medico di Villa Maraini (associazione che a Roma si occupa del recupero dei tossicodipendenti). La sera aveva avuto anche una dose di Valium, prescritta dallo stesso medico di Villa Maraini e poi, per tutta la nottata, sembrava essersi tranquillizzato. Invece la mattina seguente i due agenti che avrebbero dovuto scortarlo in Procura, per il processo per direttissima, lo hanno trovato morto. Immediata è stata l’apertura di un’inchiesta e l’avvio degli accertamenti medico-legali, che nella stessa giornata hanno escluso ogni dubbio e ogni incertezza sulla morte di Maurizio Scandura. È morto per arresto cardiocircolatorio, forse provocato anche dalla sua mole – circa 130 chili – e non ci sono elementi che possono far pensare a fatti traumatici che abbiano determinato il decesso. (L’Eco di Bergamo, 29 novembre 2002).

 

Suicidio: 29 novembre 2002, Carcere di Voghera

 

S.A., 30 anni, marocchino, si impicca in cella, dopo aver legato un laccio di scarpe alla maniglia del bagno. Una fine orribile e in qualche modo inspiegabile, se la si collega al regime di detenzione, visto che il giovane nordafricano avrebbe finito di scontare la pena fra pochi mesi: sarebbe tornato in libertà nel luglio 2003. A nulla sono valsi i tentativi di salvarlo messi in atto dai rianimatori del 118. Il suicidio è avvenuto appena tre giorni dopo l’insediamento ufficiale del nuovo direttore, Roberto Festa, subentrato a Massimo Parisi. (La Provincia Pavese, 1 dicembre 2002).

 

Suicidio: 4 dicembre 2002, Carcere di Modena

 

Maria Laurence Savy, belga, claustrofobica, si impicca tre giorni dopo l’arresto. Era detenuta al "Sant’Anna" dopo essere stata arrestata per aver portato a Modena dal Belgio, insieme al marito, cinque chili di cocaina: lascia in Belgio una figlia 16enne e un figlio di 31 anni. La donna, incensurata, ha approfittato di trovarsi da sola nella cella per impiccarsi alla finestra con un lenzuolo. Un modo di togliersi la vita che non lascia scampo. E, infatti, i sorveglianti, che hanno trovato il suo corpo alle 19, quando il dramma si era appena consumato, nulla hanno potuto per soccorrerla. La donna non aveva mostrato in precedenza alcun segno di depressione. Il marito, Nello Cremonesi, ha dichiarato che la moglie al momento dell’arresto ha scritto di suo pugno una dichiarazione, nella quale elencava i propri problemi di salute. La lettera, scritta in francese, sarebbe poi stata tradotta e letta. La stessa traduttrice - secondo le dichiarazioni di Cremonesi - avrebbe poi consigliato alla Savy di consegnarne una copia all’infermeria del carcere. Esiste davvero questo documento? Dov’è finito? L’interprete può confermare? È stato consegnato ai responsabili del "Sant’Anna", agenti di polizia penitenziaria o personale medico? In caso affermativo, la successiva domanda sarà: la detenzione per tre giorni in cella singola e senza sorveglianza continua era compatibile con la claustrofobia e gli altri eventuali disturbi dichiarati dalla donna? (Il Resto del Carlino, 6 dicembre 2002).

 

Overdose: 6 dicembre 2002, Carcere di Busto Arsizio

 

Giancarlo Speroni, 28 anni, muore dopo aver “sniffato” del gas da una bomboletta. Il giovane è stato trovato senza vita dai compagni di cella: si era pensato, sulle prime, ad un decesso per cause naturali, ma la successiva autopsia disposta dal sostituto procuratore Roberto Craveia ha accertato che Speroni aveva tracce consistenti di butano negli organi e nel sangue. Il detenuto, già tossicodipendente prima di finire in manette, dietro le sbarre si dopava col gas. Era finito dietro le sbarre da poche settimane, per scontare una condanna divenuta definitiva di 4 mesi, per spaccio di stupefacenti. (Corriere della Sera, 10 dicembre 2002)

 

Morte per cause non chiare: 25 dicembre 2002, Carcere di Regina Coeli (Roma)

 

Marco Russo, 25 anni, tossicodipendente, muore nel pomeriggio del giorno di Natale, inalando il gas di una bomboletta da campeggio. Il giovane, nel tentativo disperato di drogarsi con il gas, si è intontito fino al punto di cadere a terra. È stato soccorso da un agente e poi dal medico del carcere, ma purtroppo non c’è stato niente da fare. Non era la prima volta che M.R. faceva ricorso al gas pur di riuscire ad estraniarsi dalla realtà della prigione. Proprio per questo gli era proibito sia di acquistare che di tenere le bombolette, usate normalmente dai detenuti per scaldare i pasti. Inoltre su di lui era stata disposta una maggiore sorveglianza. Ma il giorno di Natale, forse proprio per la festività, il livello di attenzione deve essere sceso e M.R. è riuscito a procurarsi la bomboletta che gli è stata fatale. La Procura di Roma ha aperto un’inchiesta e disposto l’autopsia. (Il Messaggero, 27 dicembre 2002).

 

Overdose: 30 dicembre 2002, Carcere di Isernia

 

Nicola Caramanico, 30 anni, muore dopo essersi iniettato una dose di eroina, che gli sarebbe stata consegnata durante l’ultimo incontro con la moglie, il giorno precedente la morte. A lei, Romina Graziani, il magistrato titolare dell’inchiesta contesta i reati di omicidio colposo e cessione di sostanze stupefacenti. Ma la procura della Repubblica ipotizza anche il reato di favoreggiamento, al momento a carico di ignoti. Di questa seconda accusa potrebbero essere chiamati a rispondere alcuni degli agenti del servizio di vigilanza del carcere, se dovesse emergere che non sono state rispettate le norme in materia di controllo durante le visite ai detenuti o nelle celle. In qualche modo quindi sul banco degli accusati finirà l’intera struttura carceraria, definita quasi modello fino a pochi giorni fa ma, evidentemente, con qualche grave inadeguatezza nel sistema di sorveglianza. Nel tardo pomeriggio di ieri, intanto, si è svolta l’autopsia sul cadavere del giovane, le cui risultanze ufficiali saranno note solo fra alcune settimane, ma che avrebbe sostanzialmente confermato la prima ipotesi, avanzata dal medico del carcere subito dopo la scoperta del cadavere, accanto al quale c’erano un cucchiaino annerito dal fuoco e una siringa, cioè una crisi cardiorespiratoria causata da assunzione di stupefacenti. Le analisi di laboratorio diranno poi se la crisi è stata "naturale" o provocata da sostanze da taglio. Il giovane recluso, che doveva scontare due anni per reati connessi con lo spaccio, era stato trasferito ad Isernia da poco più di tre mesi. Nell’istituto molisano il giovane sembra avesse tenuto un atteggiamento tranquillo, pur senza nascondere il malumore per la distanza da casa e quindi le poche opportunità di incontro con la moglie, con la quale un anno e mezzo fa diede vita a una protesta per chiedere un alloggio. (Il Centro. Quotidiano dell’Abruzzo, 31 dicembre 2002).

 

 

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