Dossier: "Morire di carcere"

 

Morire di carcere: dossier 2002 - 2003

Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose

 

Intervista a Pietro Buffa, direttore del carcere "Le Vallette"

(Realizzata nel mese di marzo 2003)

 

Pietro Buffa, direttore del carcere Le Vallette di Torino, ci parla dell’esperienza dei "Gruppi di attenzione": una risposta non formale al disagio che si esprime attraverso gli atti di autolesionismo, i tentativi di suicidio, i suicidi riusciti.

 

Se dovessimo descrivere il direttore del carcere Le Vallette di Torino, faticheremmo a "fissarlo" in una immagine da fermo: è infatti una persona perennemente in movimento, movimento fisico e, soprattutto, mentale. Uno per cui sembra che "gli esami non finiscano mai", perché mai si sottrae a un bisogno di studiare, sperimentare, tentare nuove strade. Ora sta lavorando a un progetto, avviato da più di un anno, che, studiando gli "eventi critici" così diffusi in carcere, suicidi, tentativi di suicidio, atti di autolesionismo, cerca una soluzione, a partire da una verità mai abbastanza sottolineata: il bisogno di attenzione che esprimono le persone detenute quando si fanno del male. E a Torino, non a caso, sono nati dei "Gruppi di attenzione". Ne abbiamo parlato con Pietro Buffa, dietro a un tavolo del suo ufficio coperto di carte, tipico delle persone che non la smettono mai di studiare.

 

L’ultima volta che ci siamo visti eravamo esattamente partiti con una discussione sugli atti di autolesionismo e il disagio che esprimono. Ora vorremmo avere qualche idea più precisa sul bilancio e sui punti critici di questa esperienza dei "Gruppi di attenzione".

Abbiamo organizzato questi Gruppi di attenzione partendo da alcune considerazioni molto semplici. Ci si è chiesti prima di tutto se l’attenzione alle persone in difficoltà fosse una attenzione efficace, se le comunicazioni fossero o meno tempestive, e ci si è resi conto che c’è un forte rischio nelle istituzioni, che è quello di un approccio più formale che sostanziale a fenomeni come l’autolesionismo, nel senso che c’è più attenzione appunto alla forma, al fatto che determinate questioni vengano segnalate, e non si cura poi abbastanza la parte organizzativa, la ricerca di soluzioni. Allora ci si è detti "Diamoci innanzitutto un obiettivo", e l’obiettivo sembra piccolo, ma in realtà io lo trovo enorme: facciamo in modo che la gente non si faccia male.

 

La potremmo chiamare una specie di "riduzione del danno prodotto dal carcere"?

Sì, facciamo almeno in modo che la gente non si faccia male, e questo ha voluto dire innanzitutto capire perché la gente si possa fare del male in carcere. Cominciamo a dire che il farsi male non deriva sempre da un quadro psicopatologico che determina tali atti autolesionistici. Ma se questa affermazione è vera, questo apre uno scenario nuovo: significa che l’intervento nei confronti di queste persone non potrà essere un intervento esclusivamente medico, psichiatrico o psicologico. Allora, abbiamo scoperto che l’autolesionismo in questo carcere, ma penso pure negli altri, non si estende su tutto il carcere, ma interessa solo alcune sezioni, e anche in modo significativo, non casuale. Su questa non casualità ci siamo interrogati e inventati un indice di misurazione del tipo di sezione dove noi raccoglievamo dati significativi sull’autolesionismo, scoprendo così che il regime di quei luoghi è un regime peggiore, in termini di apertura delle celle, di attività, di presenza di operatori, di opportunità, di "stanzialità" della persona detenuta, di accettazione sociale di quella sezione da parte del restante carcere. Ma quando noi andiamo a fare un altro calcolo, cioè a scoprire da un punto di vista economico come si distribuisce l’autolesionismo, scopriamo un’altra cosa: che, stabilito qual è un livello ipotetico di soglia di povertà, stabilito che se il 25% di una sezione non riesce a superare questa soglia, a questo punto l’intera sezione diventa povera perché, secondo la logica penitenziaria, c’è un carico distribuito su tutti gli altri, allora laddove noi troviamo sezioni povere, lì vedremo una forte presenza di atti di autolesionismo. La terza cosa è che esiste una correlazione fra la povertà e la possibilità di accedere al trattamento, per adesso presunta, perché lo studio fatto non è uno studio ancora fondato nel tempo.

 

Di questo abbiamo discusso recentemente anche nel carcere femminile della Giudecca, dove le donne, che siano già condannate o in attesa di giudizio, vivono comunque insieme, e allora si nota che c’è un nucleo di donne che fanno tutto, attive, vivaci, pronte, e la restante parte che vive nella passività. Sembra in un certo senso un problema di auto-esclusione, per mancanza di mezzi culturali, di risorse personali minime. Il grave problema è che in carcere arrivano sempre più persone che già fuori avevano pochissime risorse, e il carcere aggrava questa condizione. 

Io posso garantire che da un punto di vista istituzionale il carcere non discrimina, non può farlo e non lo fa. Il problema è che, esattamente come all’esterno, nell’approccio alle risorse offerte si crea una dinamica che mette in rapporto capacità diverse. Su questo c’è un fondamentale modello di interpretazione, che è contenuto in un testo ormai vecchio, ma tuttora valido che è "La pena del non lavoro" di L. Berzano, dove si fa una tabella a doppia entrata e si mettono in correlazione da un lato le risorse individuali del soggetto, dall’altro le risorse sociali dello stesso soggetto, per cui si creano situazioni dove sussistono sia le risorse individuali, intelligenza, modo di relazionarsi, sia una capacità sociale, quindi una famiglia, una rete amicale, il lavoro all’esterno etc., poi ci sono situazioni miste, dove c’è o l’uno o l’altro, e situazioni all’opposto della prima, dove non ci sono né risorse individuali né risorse sociali.

È evidente che quest’ultimo quadrante è il quadrante che nella competizione di cui discutevamo prima non entra. Fatta questa premessa, che ripeto è frutto di una serie di considerazioni, lavori, riflessioni, ci si è detti: va bene, d’accordo, noi abbiamo a che fare quindi con un universo che non è più un universo totale, ma è un universo diviso in due parti, di cui una è in una situazione di disagio più pesante. La letteratura scientifica dice: laddove la persona non è più dotata di capacità, è anche una persona non dotata di potere. E allora il fatto autolesionistico è un tentativo di una riacquisizione di potere rispetto ad una istituzione o rispetto ad un contesto. Quindi l’attenzione viene richiamata e la contrattazione viene effettuata attraverso gesti di questo tipo. Allora c’è un primo problema: concentriamo più attenzione possibile nelle sezioni maggiormente a rischio. Ma poiché partiamo dal presupposto che non siamo sempre e comunque in un quadro di psicopatologia, siamo in un quadro di disperazione, siamo in un quadro di bisogno, allora una cosa collaterale che abbiamo fatto è stata di chiedere agli assistenti volontari di presidiare queste sezioni, presidiare nel senso che sto in sezione, e parlo con le persone, e mi faccio portavoce delle loro esigenze, che sono quasi sempre o di tipo materiale, o anche richieste di mera attenzione umana, e questo è un esperimento che abbiamo messo in piedi nell’ultimo quadrimestre.

L’altra parte invece del progetto, quella che è stata denominata "Gruppi di attenzione", è nata quando ci siamo resi conto che, se c’era un rapporto che segnalava un caso di autolesionismo, le decisioni standard che venivano prese non prevedevano affatto l’incarico specifico a un operatore di andare a sentire la persona che stava male. Ci siamo resi conto che queste richieste venivano indirizzate all’ufficio educatori, ma l’ufficio educatori non ha i numeri per poter fare fronte a questa situazione. Ragioniamo allora in termini più estesi: al di là delle etichette, noi siamo tutti persone, c’è il gruppo degli educatori, il gruppo degli esperti, il gruppo dei volontari, se io vado a sommare queste persone scopro di avere un centinaio di operatori, che io ritengo essere una buona risorsa. Quindi si è dato il compito all’educatore, al quale viene segnalato il fatto nel più breve tempo possibile, di segnalarlo a sua volta, secondo una valutazione sua rispetto alla gravità e intensità del problema, o a uno psicologo o a un assistente volontario, con un obbligo però, che ci sia un ritorno dell’informazione.

 

Lei ha detto che non è l’istituzione a operare una discriminazione, però noi poniamo un problema: un fenomeno di ghettizzazione indiretta è il fatto che si investe sempre meno sul "trattamento", per cui molte persone si auto-escludono perché non hanno le risorse, non reagiscono, stanno in branda, e non ci sono i mezzi per aiutarle. Ci sono sezioni in cui l’educatore non lo vedi mai, certo i volontari possono contribuire a far diminuire gli atti di autolesionismo, ma il problema di quello che comunque fa l’istituzione carcere per queste persone resta. 

Voi ponete una questione molto complessa. La mia prima risposta è questa: sicuramente siamo in una situazione in cui ci sono risorse scarse, il che significa che comunque, se noi siamo in due e c’è una risorsa, nella competizione che noi poniamo in essere per prenderla qualcuno soccombe, e non soccombe a caso. In questo momento in questo carcere è in atto una azione di prevenzione, nel senso che nelle situazioni meno floride, più pesanti, oggi viene garantita una possibilità di avere un contatto con dei volontari e attraverso questo contatto si attiva un dialogo, in questo dialogo vengono espressi dei bisogni e a questi si dà in qualche modo soddisfazione, o quanto meno ascolto. Questo risolve il primo gradino dei bisogni, quello del comunicare, dopo di che ci deve essere altro, e io su questo concordo con voi, però vi dico: nel percorso che stiamo facendo, siamo arrivati a scavalcare questo gradino e ad affrontare il secondo, io la vedo in questo modo la mia progressione.

Voi poi dicevate un’altra cosa: in certe sezioni non si vedono neppure gli educatori, ed è vero, basta prendere i numeri e fare dei rapporti per capire che la probabilità che ci si incroci è limitata. Io stesso sono qui da due anni e mezzo e di udienze con i detenuti ne ho fatte 600, ma qui sono passate 17.500 persone. Allora anche se ne fai di più, anche se fai 1.000 udienze, tu te ne sei "persi" più di 16.000. Io però ho superato nella mia testa il problema di dire che è l’educatore che deve fare un certo intervento, perché il bisogno qui dentro non è un bisogno "tecnico", qui non siamo di fronte a un ingegnere che deve costruire un ponte, qui siamo di fronte a persone, che stanno in cella buttate 20 ore su 24 e le altre quattro ore se le passano in un vascone di cemento. Questo è il problema, per cui io supero l’altro problema, quello delle "etichette", e non dico più che non riesco a fare il trattamento perché mi mancano gli educatori. Anche perché bisogna capire che cosa significa la richiesta del detenuto rispetto all’educatore, che spesso è solamente "Io devo parlare con l’educatore, perché l’educatore mi fa la relazione, e la relazione va al Magistrato di Sorveglianza". Non c’è nulla, in questi casi, che abbia a che fare con l’attenzione alla persona.

Creare delle iniziative, secondo me, è importante al di là del tipo di divisa, camice o camicetta che porti, perché in un posto come questo, dove lavorano mille persone, non posso dire che mi mancano risorse. Sembra forse banale, o forse troppo rivoluzionario, però il problema è che tutti qui contribuiamo al fatto che questo posto deve avere un certo livello di tranquillità, un certo livello di civiltà, di umanità, e anche di flessibilità rispetto a certe questioni, e a questo devono contribuire tutti, non siamo organi separati l’uno dall’altro.

 

C’è però da dire che di queste mille persone, ottocento sono agenti. 

Però io ho sempre pensato che, al di là delle funzioni, al di là dei ruoli, il carcere è proprio quel posto dove alla fine tutti lavorano per qualcosa, ma nel momento in cui noi creiamo una divisione, una pesante differenza di interessi, noi creiamo un problema. Io qui ho trovato a volte disponibilità rispetto ai problemi di cui stiamo discutendo in persone che vestono una divisa e non l’ho trovata in volontari. Quindi non possiamo dire che a seconda del gruppo di cui farai parte sarai orientato o non sarai orientato in un certo modo. Guardate che a fronte di una ottantina di volontari che operano qui, saranno stati venti quelli che mi hanno detto: "Io vado a presidiare le situazioni più "sporche", più pesantemente disagiate".

 

D’altra parte la scelta è diversa, per un agente è una scelta legata a una necessità lavorativa, per un volontario è in gioco il suo tempo che mette a disposizione gratuitamente. 

Sì, d’accordo, però perché tu mi dici di no? Questo carcere è un grosso carcere, e prima tutti giravano dappertutto. Cominciamo allora a dividerci in gruppi e ogni gruppo si prende cura di un padiglione. Su questo c’è gente che ha fatto la guerra: "Ah no, io i detenuti li devo vedere tutti!". E io rispondo: "E perché?". Tu facendo in questo modo hai girato dappertutto incrociando altre persone, operatori anche, che in modo altrettanto disordinato giravano, per cui la probabilità che io e te ci siamo visti una volta, tra operatori, è talmente bassa, che io e te siamo dei perfetti sconosciuti, ma se noi due parliamo con una terza persona, che è detenuta, e poi non ci parliamo tra di noi, la prima cosa che succede è che quella persona può esprimere dei bisogni che tu non riesci a risolvere, ma che io potrei invece risolvere, ma siccome non ci parliamo non riusciamo a combinare nulla. E oltre tutto, siccome io e te non ci conosciamo, nasce una diffidenza, perché in carcere l’estraneo è un rischio. Dunque se ti conosco non sei più un estraneo e non sei più un rischio, se non sei più un rischio io posso lavorare con te, ma se tu continui a essere un estraneo io e te siamo due rischi, e non lavoreremo mai insieme. Poi ci sono dei paroloni che parlano di sinergia, di collaborazione, ma se non si parte da queste banali affermazioni, noi non riusciamo a creare una macchina organizzata che riesca quanto meno a capire quello che ha di fronte. Tutto questo però ci ha portato via un anno. Oggi mi sento dire: "Ma sai che effettivamente ci parliamo di più, facciamo riunioni, ci scambiamo più informazioni, abbiamo più attenzione alle cose!". Però è stata dura. Anche per quel che riguarda gli agenti, ora ogni padiglione ha quel contingente di uomini che lavora stabilmente lì, e tutto questo ha migliorato la situazione. Ci sono degli indicatori a dirlo, c’è il fatto che ogni mattina per me è una sorpresa se posso affermare "Anche questa notte ce l’abbiamo fatta", e questa è una situazione che si verifica sempre più spesso. Un altro dato è che da un anno all’altro c’è stato un abbattimento del 50% degli atti di autolesionismo. Naturalmente lo diciamo con molto pudore e magari facendo dei gesti scaramantici.

 

Come intervenite quando viene segnalata una persona particolarmente "a rischio"?

Il passo iniziale è il "primo colloquio", cioè se una persona, per esempio, si fa male, nell’arco del minor tempo possibile viene da lei qualcuno per capire perché si è fatta male, che cosa succede, su che cosa vuole richiamare l’attenzione. Ma superato questo primo gradino, poi che succede? Il poi deve essere quelle iniziative che stiamo cercando di fare e che riguardano ancora oggi poche persone, ma che è nella nostra speranza che ne riguardino molte. L’intervento che dovremo fare non deve essere però di immagine: io ho una idea molto semplice del carcere, io li farei lavorare tutti, perché pensate che cos’è il tempo passato in una cella o in un vascone di cemento, pensate solo se noi dovessimo passare venti ore in questo ufficio. Se siamo d’accordo insomma sul fatto che si debba dare un senso alle cose, venti ore di cella e quattro di aria che senso hanno?

 

Sì, però anche il concetto del solo lavoro che salva la vita è da riconsiderare. Basta vedere fuori: una persona che ha un lavoro, ma non ha una rete di rapporti amicali, un sostegno, la possibilità di coltivare degli interessi, è una persona che rischia, dopo qualche mese, di tornare a fare una rapina perché la vita che fa è insopportabilmente vuota. 

Sì, certo, ma io dico però: diamo un senso alla giornata, e dare un senso alla giornata significa avvicinare quella che è la vita di dentro alla vita di fuori. Ognuno di noi, del resto, non fa una vita "di salti e di lazzi", ognuno di noi si sveglia alla mattina e si mette a lavorare, dopo di che cerca di crearsi qualcosa che riempia la vita di altri contenuti e di altri sensi. Però per arrivare a questo i passi sono ancora lunghi, ma noi per lo meno ora abbiamo dei gruppi stabili all’interno dei padiglioni, con degli educatori assegnati, il personale di polizia assegnato, i volontari e i medici assegnati, che si ritrovano periodicamente e per esempio stabiliscono le regole del padiglione, che possono essere diverse da padiglione a padiglione, e a quel punto io faccio un passo indietro, perché se un gruppo si autoregolamenta e si dà delle procedure efficaci, funzionali, perché gliele devo distruggere? E tutto questo passa attraverso il parlare, parlare e cercare di ragionare sulle minime cose. Io non voglio dire che oggi alle Vallette abbiamo 1238 detenuti felici, perché sicuramente oggi qui dentro ci sono situazioni drammatiche, ci sono situazioni di forte disagio e di incazzatura profonda, però si sono aperte delle possibilità.

 

Dalle vostre ricerche risulta che c’è un consistente numero di detenuti per i quali non si riesce neppure a individuare chi li ha spinti a gesti di autolesionismo. Su questo avete poi lavorato di più?

I casi sono due: o non ti dicono i motivi del loro gesto perché non te li vogliono dire, e questo è già un problema, o perché magari non hanno niente da dire, mentre noi invece diamo per scontato che uno si taglia e sa esattamente perché lo fa. A volte uno si fa male e non sa neppure lui perché, sa solo che in quel momento è arrivato al fondo. Di prassi allora si scrive che uno si è tagliato "per motivi personali", ma i motivi personali possono essere di tutto, dal pacchetto di sigarette che non ho al fatto che fuori mia moglie sta male. Voi capite allora che, se non si parte da questa cosa semplice, "Perché l’hai fatto?", difficilmente si potrà andare oltre, però questa è una domanda che non necessariamente deve fare uno psichiatra con titoli accademici. Io non dico che qui abbiamo trovato la soluzione per tutti i mali del carcere, perché non è così, io dico però che dobbiamo cominciare a riflettere su queste cose, che non risaltano dagli atti formali. È il clima che conta, il fatto che se comincio per esempio ad avere più posti di lavoro, non potrò soddisfare le richieste di tutti, ma creerò almeno una situazione in cui chi non lavora ora può comunque sperare che domani potrebbe toccare a lui. Se io sto in un posto dove non c’è speranza, la competizione diventa davvero più forte e più dura, perché se tu hai un maggior numero di neuroni e li sai usare meglio di me, tu prevali ma io muoio, là dove non c’è speranza. Dove non c’è attenzione, io per procurarmi l’attenzione devo fare qualcosa che sia talmente eclatante, che alla fine qualcuno deve per forza venire a vedere che cosa succede.

Ma se hai poche risorse per intervenire, devi almeno cominciare a distribuirle dove pensi che siano utili. Chi lasci fuori? Chi in carcere ce la fa. Perché anche lì, l’educatore che va nella sezione dove c’è una attività, dove ci sono altri operatori, va lì perché deve fare delle relazioni, perché quella è la richiesta, ma sa anche che ha a che fare con persone che le sigarette le hanno, i colloqui con i famigliari pure e probabilmente anche la possibilità di andare in permesso. Questo è un livello di situazioni che io non dico debba essere lasciato lì, ma se ho solo quattro persone a disposizione, il mio sarà anche un concetto banale, minimalista, ma l’obiettivo di base mio non è di fare il più bel carcere del mondo per pochi, ma di far sì che la gente prima di tutto non si faccia male.

Io sto poi verificando un’altra cosa: la percezione che ha la polizia delle sezioni. Perché se la nostra indagine ci dice che abbiamo un carcere a due marce, uno tranquillo e uno con disagi più accentuati, dobbiamo capire se questa percezione che ci viene dai gesti dei detenuti, dai fenomeni di disagio, corrisponde alla percezione del personale. Il fatto è che è probabile, questa è una mia ipotesi, che anche l’assegnazione dei posti di servizio avvenga non secondo criteri formali, ma secondo criteri informali: pure lì il più forte finisce nella situazione migliore e il più debole nella situazione peggiore. Queste cose non le ho dette io, le ha dette Goffman (E. Goffman: Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza) più di quaranta anni fa: l’istituzione è fatta di tante parti, ci sono le parti cattive e quelle buone, ogni mattina chi sta in quella cattiva vuole andare in quella buona e chi sta in quella buona non vuole andare in quella cattiva, e su questo funziona la dinamica istituzionale. Ma se ciò è vero significa che i più deboli finiscono con i più deboli, e le due debolezze si scontrano. Questo succede anche nella vita militare, nelle USSL, nelle famiglie, perché non deve succedere qui? Però se succede qui, che tipo di riflesso ha complessivamente su certi fenomeni? Allora se c’è attenzione e riflessione anche su questo, probabilmente riuscirai a tamponare un’altra serie di problemi, a trovare una soluzione. Però è un cammino lungo, e le idee ti vengono facendo anche dei piccoli passi.

 

Lei diceva che in una seconda fase di questo progetto i gruppi di attenzione hanno coinvolto di più i volontari. Ci spiega come?

Il fatto è che, quando noi siamo andati a vedere che c’erano sezioni peggiori di altre e abbiamo capito che cosa peggiorava queste situazioni, abbiamo detto: "Scusate, noi lì non dobbiamo andarci solo quando c’è "il caso", andiamoci con maggior frequenza, secondo criteri che diano la maggior continuità possibile". Tra i volontari più di uno mi ha detto di no, e una spiegazione semplicissima c’è: lavorare con gli sfigati è più brutto che lavorare con gli intelligenti, è molto meno gratificante. L’altro giorno io parlavo con un detenuto, che è un pezzo di storia carceraria, un rapinatore vecchia maniera, che quando gli parli entri dentro un film, uno che non ha un fascicolo, ha una cassa di fascicoli, una storia con 4 o 5 evasioni, dove è successo di tutto. Con persone così è facile, è interessante parlare, sono persone che non hanno bisogno di usare una lametta per attirare l’attenzione. Il problema è quando hai a che fare con qualcuno che non sa cosa sta dicendo, che è incoerente, ha una situazione così disastrosa che in partenza non sai da dove prenderla. Allora che fare? Questo fa parte di un percorso, durante il quale tu su queste cose rifletti parlando con tutte le persone trasversalmente, cercando di capire, con tutta l’umiltà del caso, che cos’è il carcere, qual è la tua visione del carcere, e poi metti in pista delle esperienze, che funzionano o non funzionano, sapendo che tutte le volte che tenti qualcosa di nuovo ottieni consenso, ma anche dissenso, resistenze. E tu non lo fai né per avere ragione né per avere torto, ma perché comunque non puoi fare altro, non puoi dire "Vada come vada", perché quando poi ti dicono che è successo qualcosa di grave tu stai male, stai male davvero. Lei sostiene che il sistema carcere produce naturalmente una selezione e spinge i deboli in una situazione ancor più marginale. Il lavoro di gruppo dovrebbe quindi riguardare l’approccio a questa, come la chiama lei, "zona grigia". Si può allora non dare per scontato che una parte consistente della popolazione carceraria non avrà nessuna attenzione dal carcere, e uscirà anzi peggio di come è entrata?

Io non so se questo carcere produca una minor zona grigia, oggi però posso dire onestamente che in questo carcere quella zona grigia è senza dubbio interessata da una maggiore attenzione. Ma non possiamo dimenticare che abbiamo a che fare con 7.000 persone che ogni anno entrano qui dentro, e sono veramente tante. Il che significa che dovresti fare anche un grosso sforzo per convincere queste persone che qui si opera in modo diverso. E noi non riusciamo a fare questo. Chi entra in carcere non coglie il senso di tutte queste elucubrazioni e le risposte e le pratiche che ne derivano. Coglie il fatto che viene portato qua, smanettato, immatricolato e mandato in cella. Punto. E da quel momento là comincia a ragionare su come "sfangarsela" prima possibile. Nel fare questo si può abbrutire, e quindi entrare a far parte della zona grigia, o invece cercare di arrivare a una zona meno grigia.

 

La sua relazione su questa esperienza si intitola "Dalla responsabilità formale al pragmatismo etico". Ci spiega meglio questa definizione di "pragmatismo etico"?

Assumersi la responsabilità, in questo appunto sta l’eticità della persona. La responsabilità di prevenire nel miglior modo possibile fatti che determinano reazioni serie, concrete come il farsi male fino anche a uccidersi, questa è l’eticità della questione. È un’etica semplice, per carità. Mia nonna mi diceva sempre: se un problema è risolvibile, non ti preoccupare, se non è risolvibile, non ti preoccupare lo stesso, tanto non serve a niente. Però se è risolvibile, non ti far angosciare, affrontalo. Non so se tutto questo allora derivi da mia nonna, ma altrimenti come si fa a dirigere un carcere così? Io quando sono in aereo e guardo giù su questo carcere, mi spavento e mi dico: ma è enorme questo posto, chissà chi è il direttore!

 

Intervista a cura di Ornella Favero e Paola Soligon

 

 

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