Picchiato
e seviziato in cella: "è pedofilo, se lo merita"
Il
Giorno,
24 luglio 2002
MILANO — L'hanno violentato, torturato, seviziato dietro le sbarre. Lo
dovevano punire perché la legge non scritta del carcere prevede che non ci sia
pietà per chi finisce in cella con l'accusa di aver abusato sessualmente di
minori. E G.G., 32 anni, era un pedofilo. Così, nella cella 225 nel VI raggio
di San Vittore, per giorni e giorni è stato quasi sequestrato dai suoi
carnefici, che lo hanno picchiato e umiliato in tutti i modi, secondo l'accusa
tra il disinteresse e perciò la «complicità» passiva di una decina di agenti
di sicurezza.
Un episodio nel quale le violenze più brutali vanno al di là
dell'immaginazione, peggio di certi film americani ambientati nelle carceri di
paesi lontani ed esotici. Queste sequenze dell'orrore sono avvenute però nella
civile Milano, nel carcere di San Vittore dove, per altro, da sempre chi dirige
la struttura denuncia il sovraffollamento e le difficili condizioni di vita di
chi sta dietro e oltre le sbarre.
G.G. venne sottratto quasi per caso ai suoi torturatori, quando finalmente
qualcuno si accorse che da giorni non usciva di cella e non ritirava nemmeno le
medicine. Il giovane mise a verbale una denuncia-choc in cui si parlava di
sodomizzazioni subite, di bruciature, di violenze di ogni tipo. Dal suo racconto
sono nate poi due inchieste affidate al PM Giovanna Ichino: una nei confronti di
due compagni di cella, che saranno processati a ottobre con rito abbreviato per
le violenze sessuali e le lesioni subite dal pedofilo; l'altra contro dieci
agenti di polizia penitenziaria, accusati di abuso e di omissione d'ufficio. E
ieri davanti al giudice Cesare Tacconi, nel corso di un incidente probatorio,
M.A., il principale torturatore di G.G., ha in pratica confermato quel
racconto-horror, anche se ha tentato di giustificarsi: «G. quando è arrivato
è stato subito accettato da tutti i detenuti del raggio. Poi ha cominciato a
fare lo spiritoso a strusciarsi». Da quel momento per lui cominciò l'inferno.
Tutti gli episodi di violenza avvenivano nel bagno della cella, e sul corpo del
giovane potevano infierire tutti i presenti. Lo seviziavano in modo orribile,
picchiandolo, violentandolo, legandogli i testicoli con una corda e portandolo
in giro per il carcere al guinzaglio. Il tutto nella più agghiacciante
indifferenza dei secondini: «Davanti alla nostra cella che era ritenuta a
rischio e quindi doveva sempre rimanere aperta - ha spiegato A. - c'era una
scrivania alla quale doveva essere sempre seduto un agente di custodia: in realtà,
succedeva che di giorno c'erano ma non facevano niente; e di notte erano tutti
nell'altra stanza a guardare la tv».
E proprio nelle ore notturne succedeva di tutto. «Una volta, eravamo nel cuore
della notte, da una cella vicino alla nostra c'era qualcuno che implorava aiuto,
era disperato. Le sue grida si sentivano per tutto il raggio. Ma nessuno
interveniva. A un certo punto si sono messi a urlare aiuto anche i compagni di
cella, la situazione doveva essere disperata: ma gli agenti erano nella loro
stanza a guardare la tivù. Quando sono intervenuti era troppo tardi e quel
ragazzo è morto». Una fortuna, che G. a un certo punto sia riuscito a
liberarsi. «Una sera l'ho colpito al volto. Uno schiaffo violento - ha
raccontato M.A. - l'agente di guardia stava facendo le parole crociate, ha
alzato lo sguardo per un momento e poi ha ricominciato a scrivere».
A San Vittore la legge del carcere non è uguale per tutti. Nel sesto raggio,
per esempio, comandava un travestito chiamato Veronica. «Aveva una cella con
phon e faceva quello che voleva, adescando clienti in giro per il raggio».
Tutto questo, ha fatto capire il detenuto – imputato - testimone, grazie a una
serie di attenzioni particolari che riservava ai suoi carcerieri. Personaggi
incredibili, violenti e minacciosi. Il peggiore era quello noto come Tavernello.
Un ragazzo incline evidentemente all'alcool che ogni volta che partiva riempiva
di botte mezzo raggio. Stessa passione, quella dell'alcool, condivisa da uno dei
responsabili del piano: «Quando beveva lui - ha raccontato A. - c'era davvero
da aver paura».