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Biella: violenze sui detenuti, 59 inquisiti tra gli agenti
Il Secolo XIX, domenica 5 gennaio 2003
Maurizio Minghella ha lasciato Biella, destinazione Cuneo. Il suo destino, almeno per i prossimi tempi, è quello di rimanere rinchiuso in una cella del carcere di massima sicurezza. Una decisione annunciata e anche attesa, soprattutto dai familiari che ieri hanno rinunciato ad andare a trovarlo a Biella proprio per questo. Accade sempre, dopo ogni tentativo di evasione, che il detenuto venga trasferito altrove. Ma la decisione questa volta ha un imprimatur diverso, l'ordine arriva dall'alto. È stato "suggerito" da Roma. "Perché - avrebbero spiegato i vertici del dipartimento del ministero di Grazia e giustizia - del carcere di Biella non ci si può più fidare". Giudizio pesante, ma scontato. Neppure tre settimane fa si è infatti conclusa una delicatissima inchiesta penale della procura di Biella. Nel fascicolo, ricco di accuse e deposizioni, si parla di abusi e pestaggi dei detenuti, di omissioni e silenzi dei medici, di intimidazioni da parte delle guardie. Un quadro fosco, quello disegnato dal procuratore capo Ugo Adinolfi, che dipinge il carcere di Biella come una vera e propria Caienna. Le persone indagate sono 59. Si tratta soprattutto di guardie carcerarie. Ma anche di medici, il cui ruolo, tuttavia, sarebbe risultato marginale: la loro colpa, sostanzialmente sarebbe stata quella di non essersi mai accorti di nulla. Tra i principali protagonisti di questa vicenda giudiziaria, invece, ricorre il nome di Mauro Calesini, il direttore sanitario che è stato appena rimosso per l'evasione di Minghella: per lui l'accusa è più pesante. Avrebbe omesso di disporre accertamenti sanitari sui detenuti che glielo chiedevano. Nei giorni scorsi il procuratore capo ha inviato a 59 persone l'atto di conclusioni delle indagini. E adesso altrettante richieste di rinvio a giudizio sono pronte a partire. Secondo l'accusa, le guardie carcerarie avrebbero usato violenza contro moltissimi detenuti, fisica e morale. C'era una stanza, dentro il carcere, che era detta la "cella liscia", perché priva di arredo, dove i detenuti venivano perquisiti. E poi dove venivano "massaggiati" con violenti getti d'acqua sparati da un idrante. Gli agenti, inoltre, accompagnavano il detenuto "ferito" in infermeria in gruppi formati da cinque, sei anche sette persone. Secondo l'accusa volevano assistere ai racconti che facevano ai medici, per controllare che ripetessero la "solita" storia: "Sono caduto". Tutto bene. Per molti mesi. Fino a quando un detenuto non ha deciso di aprire il libro e di raccontare la sua verità. Il PM ha cercato di ricostruire uno a uno tutto gli episodi. Ha controllato registri, prognosi, ha interrogato medici e agenti. Adesso che l'inchiesta è conclusa, il fascicolo finirà in aula per il dibattimento. Ma a Palazzo di giustizia, sono in molti a giurare che non sarà un processo "facile" per l'accusa. I giudici dovranno valutare le dichiarazioni contrastanti di figure contrapposte: quelle dei detenuti contro quelle delle guardie. Per ora una sola cosa è certa. La fuga di Minghella, l'altro giorno, è riuscita a provocare una "reazione" che neppure questa inchiesta giudiziaria era riuscita a provocare. L'altra mattina il provveditore generale Giusepppe Rizzo ha decapitato i vertici del personale penitenziario. Durante l'inchiesta della procura sono rimasti al loro posto.
C. Cav.
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