Morte
di Acquaviva, otto agenti a giudizio
Sono
accusati di omicidio colposo per non avere vigilato sul prigioniero
Procura
e familiari del giovane napoletano non credono al suicidio
La
Nuova Sardegna,
16 luglio 2002
NUORO. Otto poliziotti penitenziari saranno processati il 27 novembre per la
morte di Luigi Acquaviva, il detenuto di San Giuseppe Vesuviano che il 23
gennaio di due anni fa morì nella sua cella, nel carcere di Badu ‘e carros.
Suicidato, secondo la versione ufficiale, messa in discussione dai familiari del
recluso e dalla stessa procura della Repubblica che ieri, dal Giudice delle
udienze preliminari del tribunale di Nuoro Teresa Castagna, ha ottenuto il
rinvio a giudizio degli agenti. Il Gup (su richiesta della parte civile) ha
ammesso la chiamata in causa del ministero della Giustizia quale responsabile
civile. Le accuse per gli otto poliziotti (tra ispettori e agenti) vanno
dall’omicidio colposo alle lesioni. Il reato più grave, omicidio colposo per
non aver vigilato sul detenuto, è contestato solo a uno degli imputati,
Angelino Calaresu di 40 anni. Gli altri imputati sono Antonio Deidda di 43 anni,
Vittorio Leoni, di 45 anni, Giovanni Dessì e Franco Ignazio Trogu di 39 anni,
Guido Nurchi di 35 anni, Mario Crobu e Antonio Salis di 43 anni. Sono difesi
dagli avvocati Giuseppe Luigi Cucca, Antonio Busia, Lorenzo Soro, Pasquale
Ramazzotti, Gianfranco Siuni. Tutti gli agenti avrebbero partecipato a un
violento pestaggio su Acquaviva, che il giorno prima di morire, armato di un
punteruolo artigianale, aveva sequestrato nella sua cella l’agente Emilio
Firinu.
Acquaviva stava scontando l’ergastolo per un delitto di camorra. A Badu 'e
Carros era stato trasferito dopo che, il 7 marzo del 1999, aveva accoltellato un
suo compagno di cella a Sulmona, un fatto per il quale era in attesa di
giudizio. Ma non voleva saperne di stare a Nuoro, tante volte aveva chiesto di
essere trasferito in un penitenziario campano. Per riavvicinarsi alla famiglia,
alla moglie (originaria di Alghero) e ai loro tre figli. Una richiesta rimasta
inascoltata. Il giorno prima del decesso, Luigi Acquaviva si era reso
protagonista di un gesto clamoroso. Lui, che era detenuto in Alta sicurezza, era
riuscito ad attirare nella sua cella un agente, Raimondo Firinu, e poi lo aveva
sequestrato. Perché voleva parlare con il direttore del carcere, Francesco
Gigante, e sollecitare ancora una volta il trasferimento. Nella sua cella, con
l’agente Firinu, Acquaviva era rimasto alcune ore. Aveva lasciato andare
l’ostaggio soltanto dopo l’intervento del suo avvocato di fiducia,
l’avvocato Antonello Spada, che ora è il legale di parte civile per conto dei
familiari del detenuto. Il giorno dopo questa vicenda, Luigi Acquaviva era
morto. Suicida, secondo la ricostruzione ufficiale, impiccato alle sbarre della
cella (dove non c’era nemmeno una finestra ma le nude sbarre) con un cappio
costituito da una serie di calzini annodati. Ma i familiari non avevano creduto
a questa versione, e avevano subito sollevato pesanti sospetti sulla vicenda.
Fatti propri dalla Procura, e in qualche modo avvalorati dalla perizie
necroscopica dei consulenti del pubblico ministero, Vindice Mingioni e Roberto
Demontis. Che certificarono un fatto inequivocabile: alcune ore prima della
morte (il referto parla delle sei del 23 gennaio) Acquaviva subì un
violentissimo pestaggio. Aveva ecchimosi su tutto il corpo, violenti traumi agli
arti, alla testa. In qualche parte mancavano lembi di pelle. Un uomo fortemente
debilitato quindi, che, stando alla ricostruzione ufficiale, avrebbe trovato la
forza di impiccarsi. E che, per di più, avrebbe dovuto essere sorvegliato a
vista. Ora si attende il processo, (giudice monocratico Lepore), per conoscere
la verità. Almeno quella processuale.