Pagine sul carcere

 

La dimensione dell’organizzazione e l’attività progettuale

 

Un progetto è tale se dispone di un’impalcatura organizzativa che ne supporti lo svolgimento e la realizzazione. Se questo è vero per qualunque progetto, ancora di più lo è se si vuole realizzare un’azione progettuale in ambito penale.

Tuttavia nel settore psico-sociale in generale e nel nostro settore di riferimento in particolare, si registra un atteggiamento di sostanziale rifiuto di fronte a questioni di carattere organizzativo: si teme sempre che parlare di funzioni, ruoli, meccanismi decisionali, risorse, conduca alla sottovalutazione o addirittura alla snaturamento dei principi e dei valori che stanno a monte di un progetto.

Si pensa, in modo più o meno manifesto, che la dimensione organizzativa, per la razionalità che la contraddistingue, "impoverisca" il potenziale creativo, la spontaneità, la immediatezza e l’umanità di un’azione. La parola "efficienza" "iene immediatamente sovrapposta a logiche aziendali in cui il profitto la fa da padrone e quindi richiama fantasmi ideologici da cui è molto difficile difendersi.

Tuttavia, da quando anche il Terzo Settore è diventato un attore a pieno titolo del mercato del lavoro, l’attenzione a questi temi si sta sviluppando maggiormente: termini come "impresa sociale", "marketing sociale", "management", stanno diventando più familiari e danno vita a ri-definizioni molto interessanti e feconde pur all’interno di un dibattito che non sempre ci sembra sia caratterizzato da serenità di giudizio e larghezza di vedute.

Non è nostra intenzione, tuttavia, entrare nel merito di questo dibattito: desideriamo affrontare questo tema, indipendentemente dalle resistenze che potrà provocare, nella convinzione che una buona organizzazione è un imprescindibile punto di forza di un progetto, soprattutto nel settore penitenziario.

È in gran parte attraverso la struttura organizzativa che si possono garantire canali comunicativi efficaci, livelli di interconnessione significativi, integrazione delle risorse, attività permanenti e consolidate, sviluppo di un fare che diventa anche "cultura" su cui è possibile il confronto.

Spesso, inoltre, è solo attraverso una buona organizzazione che è possibile raggiungere gli obiettivi stessi che ci si prefigge (basti pensare a esperienze come quelle degli aiuti internazionali in caso di guerre per capire che non basta mandare viveri e coperte, ma bisogna avere anche chiaro come distribuirli).

li nostro interesse è dunque identificare le variabili organizzative che possono essere utili a chi intende lavorare in questo settore in modo efficace e anche efficiente (ponendosi cioè la questione di un buon uso delle risorse che generalmente sono denaro pubblico), offrire strumenti operativi che consentano di muoversi con disinvoltura anche sul piano organizzativo, proporre ipotesi di lavoro in cui sia possibile lavorare in un’istituzione chiusa contro la logica che "poiché non c’è niente va bene tutto", offrire spunti di riflessione che consentano alla buona volontà e alle motivazioni personali o di gruppo di non diventare inconsapevolmente fonte di legittimazione del sistema carcerario.

In questa prospettiva la dimensione organizzativa viene assunta come uno strumento cardine affinché il "fare" di un progetto possa essere sottoposto al necessario controllo interno ed esterno che gli consenta di non assumere le caratteristiche di autoreferenzialità tipiche del contesto in cui va a collocarsi.

Potremmo dire che nella realizzazione di un progetto in ambito penitenziario è necessario organizzarsi innanzitutto per non sfuggire al doveroso controllo del nostro agire con le persone detenute e consentire loro di esercitare un attivo ruolo di verifica di quanto si sta producendo insieme a loro. È in gran parte attraverso la struttura organizzativa che si possono garantire canali comunicativi efficaci, livelli di interconnessione significativi, integrazione delle risorse, attività permanenti e consolidate, sviluppo di un fare che diventa anche "cultura" su cui è possibile il confronto. Spesso, inoltre, è solo attraverso una buona organizzazione che è possibile raggiungere gli obiettivi stessi che ci si prefigge (basti pensare a esperienze come quelle degli aiuti internazionali in caso di guerre per capire che non basta mandare viveri e coperte, ma bisogna avere anche chiaro come distribuirli).

li nostro interesse è dunque identificare le variabili organizzative che possono essere utili a chi intende lavorare in questo settore in modo efficace e anche efficiente (ponendosi cioè la questione di un buon uso delle risorse che generalmente sono denaro pubblico), offrire strumenti operativi che consentano di muoversi con disinvoltura anche sul piano organizzativo, proporre ipotesi di lavoro in cui sia possibile lavorare in un’istituzione chiusa contro la logica che "poiché non c’è niente va bene tutto", offrire spunti di riflessione che consentano alla buona volontà e alle motivazioni personali o di gruppo di non diventare inconsapevolmente fonte di legittimazione del sistema carcerario.

In questa prospettiva la dimensione organizzativa viene assunta come uno strumento cardine affinché il "fare" di un progetto possa essere sottoposto al necessario controllo interno ed esterno che gli consenta di non assumere le caratteristiche di autoreferenzialità tipiche del contesto in cui va a collocarsi.

Potremmo dire che nella realizzazione di un progetto in ambito penitenziario è necessario organizzarsi innanzitutto per non sfuggire al doveroso controllo del nostro agire con le persone detenute e consentire loro di esercitare un attivo ruolo di verifica di quanto si sta producendo insieme a loro.

È in gran parte attraverso la struttura organizzativa che si possono garantire canali comunicativi efficaci, livelli di interconnessione significativi, integrazione delle risorse, attività permanenti e consolidate, sviluppo di un fare che diventa anche "cultura" su cui è possibile il confronto.

Spesso, inoltre, è solo attraverso una buona organizzazione che è possibile raggiungere gli obiettivi stessi che ci si prefigge (basti pensare a esperienze come quelle degli aiuti internazionali in caso di guerre per capire che non basta mandare viveri e coperte, ma bisogna avere anche chiaro come distribuirli).

li nostro interesse è dunque identificare le variabili organizzative che possono essere utili a chi intende lavorare in questo settore in modo efficace e anche efficiente (ponendosi cioè la questione di un buon uso delle risorse che generalmente sono denaro pubblico ), offrire strumenti operativi che consentano di muoversi con disinvoltura anche sul piano organizzativo, proporre ipotesi di lavoro in cui sia possibile lavorare in un’istituzione chiusa contro la logica che "poiché non c’è niente va bene tutto", offrire spunti di riflessione che consentano alla buona volontà e alle motivazioni personali o di gruppo di non diventare inconsapevolmente fonte di legittimazione del sistema carcerario.

In questa prospettiva la dimensione organizzativa viene assunta come uno strumento cardine affinché il "fare" di un progetto possa essere sottoposto al necessario controllo interno ed esterno che gli consenta di non assumere le caratteristiche di autoreferenzialità tipiche del contesto in cui va a collocarsi.

Potremmo dire che nella realizzazione di un progetto in ambito penitenziario è necessario organizzarsi innanzitutto per non sfuggire al doveroso controllo del nostro agire con le persone detenute e consentire loro di esercitare un attivo ruolo di verifica di quanto si sta producendo insieme a loro.

L’organizzazione come strumento dunque e non come fine, tuttavia strumento imprescindibile di un agire consapevole e responsabile.

Il primo passaggio richiede la definizione delle variabili organizzative di cui daremo conto:

  1. I meccanismi decisionali

  2. Il lavoro di gruppo

  3. La gestione delle risorse umane

  4. La gestione delle risorse economiche.

I meccanismi decisionali La realizzazione di un progetto comporta strutturalmente la necessità costante di prendere decisioni, sul piano delle strategie, del metodo, dei contenuti, ecc.

Prendere decisioni è un’attività molto complessa e ancora di più lo diventa all’interno di una dimensione collettiva, tanto che sovente, in particolare nel mondo del Terzo Settore, è questa la variabile dell’organizzazione che più di ogni altra si presenta come fortemente problematica.

È all’interno dei meccanismi decisionali, infatti, che si manifestano situazioni conflittuali a volte di difficile ricomposizione: a fronte di una cultura dichiaratamente democratica e partecipativa come deve essere quella delle attività rivolte alla persona, diventa difficile identificare metodi e strumenti decisionali che la rendano perseguibile.

Non basta infatti affermare il principio della democrazia come dato strutturale di un progetto, bisogna anche essere in grado di muoversi nelle dinamiche personali e collettive che rimandano alla questione del potere, identificare luoghi e spazi che facilitino il processo decisionale, individuare i criteri sui quali devono fondarsi le decisioni, condividere i diversi livelli di responsabilità, acquisire metodi di lavoro di gruppo che consentano lo sviluppo del processo decisionale.

Quando un progetto si realizza all’interno di un istituto penitenziario, i processi decisionali interni al progetto stesso sono fortemente condizionati dal contesto e soprattutto dai suoi

vincoli formali e informali. Questo vale anche per altri settori, naturalmente, ma in ambito penitenziario la cosa è ancora più evidente e tuttavia può, paradossalmente, costituire spesso un vantaggio.

Un contesto strutturalmente gerarchizzato, in cui le funzioni repressive e di custodia sono esplicite, in cui le dinamiche del potere formale sono indiscutibili, rappresenta una cornice dove è più facile defInire almeno i livelli di esclusione. Vi sono decisioni che in un istituto penitenziario non potranno mai essere prese da chi lavora all’interno di un progetto, ma soltanto dagli interlocutori istituzionali (interni ed esterni).

La consapevolezza di questo vincolo/possibilità e una buona conoscenza dello specifico istituto in cui si lavora sul piano della distribuzione dei diversi poteri consentono a chi opera all’interno dei progetti di sapere fin dall’inizio il grado di flessibilità decisionale entro la quale si può operare. Questo può significare un risparmio di tempo e di energia nei momenti decisionali interni ai progetti, nel corso dei quali spesso si finisce per discutere molto di questioni che comunque devono essere decise da altri.

Tempo ed energia che sarebbero più utilmente spesi nel costruire le alleanze necessarie per acquisire legittimità e consolidamento.

L’esperienza concreta in questo settore dimostra come non sia cosa semplice muoversi nei meccanismi decisionali del carcere, soprattutto nella logica discrezionale che attraversa questa realtà: chiunque abbia messo piede in un carcere come operatore sa che la vita delle persone detenute è scandita da regole che possono cambiare ogni giorno e che l’ordine interno varia a seconda di chi esercita il controllo nel qui e ora.

Tuttavia è possibile forse identificare un percorso metodologico che può aiutare chi lavora ad un progetto a muoversi in meccanismi non sempre trasparenti, a non lasciarsi fagocitare dalle dinamiche interne e anche a rendere sempre leggibile e trasparente ciò che sottende alle dinamiche conflittuali interne al progetto.

Nella sostanza il percorso della presa di decisione di fronte ad un problema dovrebbe seguire le tappe sotto indicate:

l) esplicitazione del problema su cui deve essere presa una decisione;

2) raccolta delle informazioni necessarie a comprendere il problema;

3) defInizione collettiva del problema finalizzata a comprendere se è realmente condiviso anche nella sua analisi finale.

4) collocazione del problema rispetto alle possibilità decisionali (quali aspetti del problema sono sottoposti alla decisione di interlocutori esterni al progetto, quali sono invece da decidere solo all’interno, quali possono essere decisi insieme, ecc.). Analisi quindi dei livelli di potere possibile. Al termine di questi quattro passaggi chi lavora all’interno del progetto può identificare le strategie di negoziazione per tutte le decisioni che devono essere assunte in modo integrato, le strategie per far decidere chi è deputato istituzionalmente, le modalità per decidere ciò che deve essere deciso all’interno.

L’ultima questione si presenta spesso come la più difficile perché rinvia alla struttura stessa del progetto, cioè all’impianto che gli operatori si sono dati per poter prendere le decisioni interne. Rimanda alla questione della leadership, delle attività di coordinamento, degli organi consultivi, del "peso" decisionale da attribuire a ciascuno.

Come sempre, non esiste una struttura migliore o peggiore di altre, ma è un dato che, se si vuole poter lavorare in modo efficace e anche eticamente corretto, la struttura decisionale di un progetto deve essere trasparente.

Devono cioè essere chiari i seguenti punti:

l) organigramma del progetto;

2) compiti decisionali attribuiti alle persone o ai gruppi di lavoro identificati nella struttura;

3) livelli di autonomia decisionale condivisi e tempi di esercizio dell’autonomia;

4) livelli di delega e rappresentanza all’interno e all’esterno;

5) identificazione dei momenti assembleari e loro peso decisionale;

6) identificazione dei momenti consultivi;

7) modalità di lavoro condivise per la gestione dei conflitti interni.

Nella loro apparente semplicità questi punti si mostrano nella pratica molto ostici, tanto che nella maggior parte dei progetti ci si trova a discutere di queste variabili solo di fronte a situazioni problematiche già in corso e spesso già in fase avanzata di criticità.

Lavorare in una prospettiva progettuale significa invece mettere in moto un’attività previsionale, precedente alla realizzazione della progetto, che consenta di non trovarsi impreparati di fronte agli inevitabili conflitti.

In questa prospettiva la realizzazione di un progetto è come un gioco in cui, se non si stabiliscono prima le regole, il conflitto diventa fine a se stesso e segna la fine del gioco.

Sottolineiamo, per non essere fraintesi, che la questione non è far tacere la dimensione conflittuale che riteniamo vitale, ma identificare delle modalità di gestione che possano esaltarne la valenza costruttiva e di arricchimento.

Lavorare sul versante organizzativo può favorire questo percorso e facilitare il confronto, perché conduce inevitabilmente a centrare l’attenzione sugli obiettivi del progetto, consentendo anche l’esplicitazione delle dinamiche personali e collettive che spesso poco hanno a che vedere con questi.

 

Il lavoro di gruppo

Ormai parola - chiave di qualunque progetto, il lavoro di gruppo è considerato uno degli strumenti essenziali per lavorare in una logica progettuale. Il lavoro di gruppo è dunque una variabile organizzativa imprescindibile che in ambito penitenziario è addirittura sancita per legge (le attività di osservazione-trattamento sono il frutto del lavoro d’equipe).

Tuttavia, a fronte di un’affermazione di principio su cui tutti concordano, il lavoro d’equipe in carcere si traduce in una pratica spesso puramente formale e comunque fondata sulla buona volontà dei singoli.

Questo vale anche nella realtà dei servizi e in gran parte delle organizzazioni del Terzo Settore.

In verità in Italia, in particolare nel settore psico-sociale, si assiste ad una proliferazione di gruppi di lavoro ( commissioni, gruppi di studio, team di ricerca, ecc. ) che rivelano sicuramente una certa attenzione alla dimensione del gruppo come strumento, ma senza che a ciò corrisponda l’acquisizione del metodo del lavoro di gruppo.

Molto scarse sono infatti le occasioni di formazione su questo tema che pure in altri Paesi ha conosciuto uno sviluppo davvero notevole.

Non è certo possibile ne opportuno riassumere in questa sede ciò che è stato elaborato su questo tema; ci limitiamo a sottolineare alcuni elementi di base che danno conto della complessità di questo argomento, nella speranza che ciò promuova il bisogno da parte degli operatori di acquisire competenze sul lavoro di gruppo e da parte di chi esercita funzioni decisionali in ambito formativo la disponibilità a offrire strumenti e mezzi in questa direzione.

La prima questione che si vuole sottolineare è che il lavoro di gruppo è uno strumento che va sempre contestuale: non può essere inteso come la panacea di tutti i mali, ne come una minaccia rispetto ai ruoli di comando istituzionali.

Un lavoro di gruppo è uno strumento e come tale è necessario usarlo se e quando serve; in alcuni casi può essere addirittura controproducente. Sono sempre gli obiettivi del lavoro che funzionano da elemento discriminante per decidere se usare o meno questo strumento.

La seconda questione è relativa alla chiarezza sulla dimensione etero centrata del gruppo: il lavoro di gruppo si caratterizza per la sua centratura sugli obiettivi e dunque le dinamiche interpersonali, comunque imprescindibili, devono poter essere gestite in modo da essere funzionali al raggiungimento degli obiettivi. Nel momento in cui la dimensione socio affettiva rende difficile lavorare insieme, merita attenzione e momenti specifici di elaborazione, in modo da diventare esplicita e concretamente gestibile. Se la dimensione del conflitto resta un implicito agirà comunque.

Da questo punto di vista assume una rilevanza fondamentale l’attenzione ad una terza variabile del lavoro di gruppo, la funzione della conduzione.

Non esiste lavoro di gruppo laddove non esiste la possibilità di attribuire responsabilità in termini di coordinamento dell’attività del gruppo. L’identificazione di un conduttore (permanente, a rotazione, sulla base delle competenze specifiche, ecc. ) è un elemento di facilitazione del lavoro e va inteso come un servizio che viene offerto al gruppo, il cui scopo è quello di facilitare la comunicazione, mantenere le regole interne, promuovere la sintesi, stimolare la creatività del gruppo.

Un gruppo di lavoro è tanto più maturo quanto più sa utilizzare la cosiddetta "leadership sociale è la conduzione da parte del membro che in quel momento, su quel problema, è maggiormente offrire un servizio di conduzione.

Ciò naturalmente comporta un vero e proprio ribaltamento di una cultura operativa che nella prassi è sicuramente dominante: la cultura che si base sulla omogeneità dei membri del gruppo, sulla omologazione dei linguaggi, al contrario, sull’esasperazione del conflitto.

Una cultura che oscilla tra il ritenere che si sia lavorato bene insieme solo perché non si è litigato oppure, al contrario, che poiché si è stati più efficienti vuoI dire che non si è dato spazio al confronto.

Un gruppo di lavoro usa il metodo del lavoro di gruppo quando sa valorizzare proprio le differenze senza che diventino un blocco per le attività, sa gestire attivamente il conflitto

cogliendone gli elementi innovativi, promuove l’acquisizione di competenze reciproche e dunque rende espliciti i linguaggi in tutta la loro diversità lavorando sui livelli della argomentazione e non semplicemente su quelli dell’asserzione.

Infine, un gruppo che sa usare il metodo del lavoro di gruppo è in grado di identificare alcune regole operative che rendono il proprio lavoro trasparente e verificabile: sa gestire il tempo (riunioni efficaci preparate in anticipo e con tempi definiti), lo spazio (riunioni in luoghi che non sono costantemente disturbati), gli strumenti di registrazione (vengono stesi e ufficializzati i verbali), la concretizzazione delle decisioni (vengono di volta in volta attribuiti i compiti e le responsabilità), l’esecuzione delle verifiche (vengono predisposti i criteri e gli strumenti per valutare l’efficacia delle decisioni concordate).

Un buon gruppo di lavoro inoltre è in grado anche di auto osservarsi e valutare il proprio modo di lavorare insieme monitorando il livello interno di collaborazione, partecipazione, produttività e clima comunicativo.

Tutto questo non avviene in modo naturale o sulla spinta delle buone intenzioni solamente: è anche il frutto di apprendimenti specifici che a nostro avviso sono ampiamente sottovalutati.

Se questo è un problema in tutti i campi del lavoro psico sociale, in carcere lo è ancora di più per una ragione specifica: qualunque progetto voglia rispettare una logica collettiva deve poter usare lo strumento del lavoro di gruppo anche con le persone detenute e infatti non c’è progetto attualmente attivo che non comporti l’attivazione e la promozione di gruppi all’interno del carcere.

Questo richiede necessariamente agli operatori la capacità di essere dei buoni conduttori di gruppo, qualunque sia la loro competenza professionale originaria. Condurre gruppi è una faccenda delicata, per la quale spesso non sono preparati nemmeno gli operatori professionali; ancor più delicata quando si concretizza in carcere.

Questa è la ragione per cui in questa sede si offre una sezione specifica su questo argomento che speriamo possa fungere da guida a tutti coloro che, a diverso titolo, rivestono il ruolo di conduttori.

La gestione delle risorse umane Un progetto può avere esiti più o meno soddisfacenti a seconda delle persone che lo realizzano. Anche l’idea migliore, con l’organizzazione più accurata, può risultare un fallimento se le persone che vi lavorano non vi si riconoscono, non sono soddisfatte di ciò che fanno, non sono riconosciute per le loro capacità, non hanno occasioni di sviluppare le loro potenzialità.

L’importanza del fattore umano nel lavoro è stata una scoperta fondamentale nelle organizzazioni profit e non può non esserlo in quelle non-profit, anzi in queste ultime ne è sostanzialmente all’origine.

Tuttavia ben pochi sono i progetti, specialmente quelli realizzati negli istituti penitenziari, in cui questa dimensione viene presa in esame e adeguatamente gestita. Si parte dal presupposto che un’alta motivazione delle persone sia di per se sufficiente a garantire il raggiungimento degli obiettivi.

Lavorare in una logica progettuale significa invece porsi alcune questioni che hanno diretta attinenza con il problema delle risorse umane perché da queste possono dipendere diversi elementi: la quantità e la qualità delle iniziative, la tenuta nel tempo del progetto, l’acquisizione di "credibilità" da parte delle istituzioni e della popolazione detenuta, ecc.

Parlare di risorse umane significa infatti parlare di almeno tre variabili: motivazione, competenza, compiti e carichi di lavoro.

Quando si lavora in ambito penitenziario l’aspetto motivazionale è sicuramente di fondamentale importanza e questo vale sia per chi vi opera professionalmente, sia per coloro che lavorano a titolo volontario.

Le motivazioni sono strettamente connesse ai "bisogni delle persone, dunque attraverso un permanente confronto su questo aspetto si può fare in modo che l’attività progettuale sia il più possibile soddisfacente anche per gli operatori e non solo per la popolazione detenuta.

Gli operatori devono potersi riconoscere all’interno di un progetto, sia come gruppo, sia come singoli individui e questa è la premessa essenziale per sviluppare senso di appartenenza a ciò che si realizza.

Tuttavia non sempre le persone hanno chiari i propri bisogni e conseguentemente le ragioni per cui lavorano in carcere;

non sempre si sentono libere di esprimerli in tutta la loro complessità; non sempre riescono ad accettare 10 strutturale livello di ambivalenza che il bisogno porta con se.

Quando si lavora in ambito penitenziario tutto questo risulta con maggiore evidenza dal momento che il carcere, in quanto luogo estremo, richiama anche sentimenti estremi in chi vi lavora e la convinzione di essere nel "giusto" per il solo fatto di occuparsi di carcere, mette a tacere la consapevolezza su motivazioni legate alle dimensioni del controllo e del potere che pure sono presenti in chiunque lavori nelle cosiddette helping professions.

Lavorare in una logica progettuale presuppone invece una grande attenzione e lucidità rispetto a questo tema che, pur attraversando in modo silente l’agire delle persone, ne determina spesso gli orientamenti.

La competenza delle persone che lavorano all’interno di un progetto è la seconda variabile relativa alle risorse umane che determina la riuscita stessa del progetto.

n temine competenza non va confuso con quello di ruolo professionale; quest’ultimo è solo uno dei possibili aspetti della competenza.

Non va nemmeno confuso con la dimensione dei compiti istituzionali.

Con il termine competenza si intende in questa sede riferirsi al più semplice concetto di "capacità" nelle tre dimensioni, sapere, saper fare e saper essere che fungono anche da guida del processo formativo.

Essere competenti significa sapere quello che si fa e fare quello che si sa, all’interno di un processo costante di apprendimento in cui ciò che si impara a sapere e a fare si integra con ciò che si è e contribuisce a costruire ciò che si diventa.

Si tratta di un processo circolare che riguarda chiunque operi alL’interno di una logica progettuale.

Partendo da questo concetto di competenza, si possono identificare alcune competenze di fondo che consentano all’attività progettuale di muoversi su basi solide dal punto vista metodologico e organizzativo.

In questa sede se ne propongono alcune che si ritengono imprescindibili e, che pur non dovendo essere presenti nella stessa misura in tutte le persone che lavorano in un progetto, devono tuttavia essere rappresentateLa competenza ideativa fa riferimento alla promozione delle idee, alla creatività, alla promozione del nuovo, costituisce indubbiamente una risorsa indispensabile per diverse ragioni. In primo luogo perché costituisce la spinta iniziale di un progetto, in secondo luogo perché funziona come linfa permanente che consente alL’attività progettuale di non cadere nella logica auto assertiva che caratterizza qualunque attività si realizzi in carcere.

La competenza progettuale, che fa riferimento alla capacità di tradurre le idee in un percorso, in una strategia di azione orientata e successivamente verificabile e valutabile. La capacità progettuale richiede necessariamente una buona conoscenza dei problemi e dei contesti, sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista operativo.

La competenza organizzativa riguarda la capacità di tradurre un progetto in un sistema concretamente realizzabile attraverso l’identificazione di metodi, procedure e strumenti di gestione, congruenti con gli obiettivi del progetto.

La competenza tecnica è la capacità operativa di realizzare i compiti e le attività previste dal progetto. È all’interno di questa competenza che in questa sede si colloca anche la questione del ruolo professionale nella sua valenza legata al "fare".

Naturalmente un progetto che voglia avere gambe per camminare deve porsi la questione delle competenze, tanto più in un contesto dove è indispensabile integrarsi con ruoli professionali e competenze istituzionali ben precise.

Diventa allora essenziale che all’interno di un progetto si riescano a gestire le risorse umane in modo che chi sa faccia insegnando e chi non sa impari facendo, partendo dal presupposto che non solo non si è in partenza tutti uguali e automaticamente intercambiabili, ma che solo dalla valorizzazione delle differenze è possibile giungere a meccanismi di reale apprendimento reciproco.

Ciò significa prevedere sempre e in modo strutturale spazi per attività di formazione e autoformazione.

Infine, la questione dei compiti e dei carichi di lavoro. Va da se che l’attribuzione dei compiti in un progetto è strettamente connessa alla questione delle competenze e che dunque la logica dell’interscambiabilità è possibile solo laddove esiste un sistema permanente di acquisizione di competenze. In caso contrario l’idea che tutti possano fare qualunque cosa è solo il risultato di ideologie falsamente egualitarie.

Più rilevanti ci sembrano invece alcune questioni strutturali che vanno tenute presenti fin dall’inizio dell’attività di progettazione perché da queste dipende la possibilità stessa di mantenere in vita un progetto, sia che questo sia portato avanti avvalendosi di finanziamenti, sia che venga gestito da organizzazioni che si avvalgono di collaboratori volontari.

L’identificazione dei compiti imprescindibili di un progetto e l’attribuzione della quantità di tempo necessaria per realizzarli è momento costitutivo della fase di progettazione. Da questo deriva anche l’analisi delle risorse necessarie, la scelta di retribuire o meno le persone, il tipo di "patto" organizzativo che si deve stabilire con i singoli collaboratori anche quando sono volontari.

La logica progettuale, a differenza di quella assistenziale, richiede una chiara definizione dei compiti "strutturali", senza i quali verrebbe a mancare l’ossatura stessa del progetto e compiti "accessori" che consentono la realizzazione delle diverse iniziative e che possono però variare nel tempo, nella quantità e nella qualità.

Tra i compiti strutturali individuiamo quelli di coordinamento e quelli di segreteria, i cui obiettivi fondamentali sono di mantenere il filo conduttore del progetto e garantire una buona circolazione delle informazioni facilitando il lavoro di tutti.

Il carico di lavoro (cioè il tempo) da attribuire a questi compiti varia a seconda della complessità del progetto e tuttavia è generalmente sotto stimato cosi come è sottostimato il "valore" di queste attività che, non essendo spesso direttamente mirate alle persone, vengono ritenute meno significative anche dal punto di vista ideale.

Questa sottovalutazione è fortemente favorita dal contesto carcerario che induce in modo quasi naturale il rischio che il singolo operatore si ritagli nicchie operative mirate all’auto consenso e tuttavia gratificante dal punto di vista umano. In carcere i vissuti delle persone sono molto spesso amplificati, ogni piccola vicenda può trasformarsi in un dramma, ogni gesto può acquisire significati definitivi, la relazione tra operatore e detenuto può diventare molto intensa.

Tutto ciò è potenzialmente una risorsa, ma si traduce in un limite quando fa perdere di vista l’insieme dei problemi e fa si che gli operatori si "accontentino" della logica di servizio operatore-utente.

La prospettiva progettuale in carcere non va solo introdotta, va anche costantemente difesa dall’istituzione stessa. I compiti strutturali sono dunque garanzia della strategia progettuale e come tali vanno privilegiati in termini di attribuzione di risorse, sia dal un punto di vista qualitativo per la

competenza, sia dal punto di vista quantitativo (ore dedicate ed eventuali compensi economici che ne garantiscano l’esecuzione ).

I compiti accessori, che non significa certo meno importanti ma solamente più flessibili, richiedono altrettanta chiarezza, soprattutto rispetto al tipo di impegno che l’operatore, volontario e non, si assume.

Un carcere presenta una particolarità molto importante da questo punto di vista: può tollerare qualunque assenza degli operatori, non richiede alcun avviso, non pretende alcuna verifica del lavoro degli operatori, mantiene comunque inalterata la sua vita quotidiana.

Un patto, l’impegno, è solo ed esclusivamente con le persone detenute. È con loro che ci si trova a dover dare conto della propria presenza o assenza, del mantenimento degli impegni presi, delle promesse fatte.

Chiunque abbia lavorato in carcere sa che le persone detenute sono molto attente a questo aspetto, ma nel contempo sa anche che in carcere si impara a diventare molto "tolleranti", a prendere con rassegnazione ciò che arriva cosi come arriva. La questione diventa allora di carattere etico rispetto alla popolazione detenuta e tuttavia l’operatore si impegna anche nei confronti del progetto stesso che, nel momento in cui viene inteso come un sistema, è sottoposto come tutti i sistemi alla legge dell’interdipendenza: ciò che fa un elemento del sistema influisce anche su tutti gli altri.

L’intero progetto può essere credibile agli occhi dei detenuti e degli altri interlocutori nella misura in cui è credibile ciascun operatore che vi collabora.

Da questo punto di vista l’attenzione agli aspetti organizzativi legati ai compiti e ai carichi di lavoro non è dunque un mero problema tecnico, ma piuttosto un aspetto rappresentativo dell’attenzione all’intero progetto.

La gestione delle risorse economiche Parlare di denaro all’interno dell’attività progettuale significa parlare di uno strumento comunque essenziale (anche quando l’attività è garantita da volontari).

Le risorse economiche possono infatti garantire tre obiettivi trasversali a tutti i progetti: qualità, continuità, visibilità.

La qualità, intesa come il valore aggiunto di ciò che si fa, richiede una costante verifica dei risultati che si ottengono, richiede tempo dedicato, strumenti specifici, competenze mirate. Tutto ciò è impensabile se non si dispone anche di risorse economiche.

La continuità presuppone che all’interno di un progetto vi sia almeno un nucleo di persone che dedica più tempo e più energia di altri e che quindi possa "permetterselo". Presuppone, inoltre, l’elaborazione di materiali che facilitino l’ingresso di nuovi operatori, attività di tutor e formazione per far fronte all’inevitabile turn over delle persone.

La visibilità prevede l’attivazione di occasioni di confronto esterno che vendono viaggi, convegni, sedi di lavoro, ecc.

L’attività puramente volontaria non può sostenere questi livelli di progettualità sui tempi lunghi e questa considerazione è ormai un dato acquisito; la maggior pare dei progetti che si realizzano in questo settore è infatti finanziata (non mancano a questo proposito percezioni di un vero e proprio "mercato").

Diventa allora inevitabile porsi la questione delle risorse economiche che prevede almeno tre livelli di analisi: la veste giuridica che viene data al progetto, 1’identificazione delle fonti, i criteri di distribuzione.

Questi tre livelli richiedono una concreta attenzione nella fase di progettazione e l’attribuzione di risorse umane dedicate nel corso della realizzazione del progetto.

Ciò che si vuole sottolineare è che il denaro costituisce solo uno strumento e come tale va affrontato: la sottovalutazione di questo aspetto, la sua negazione sul piano ideologico o, al contrario, uno spostamento totale sulla questione economica, possono trasformarsi in un ostacolo all’attività progettuale in ambito penitenziario, soprattutto quando ci si impegna seriamente sul versante del collegamento dentro/fuori.

 

 

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