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Facilitazione e conduzione dei gruppi in carcere
Nell’ultimo decennio si è assistito al fiorire di progetti realizzati negli istituti penitenziari di diverse regioni italiane, all’interno dei quali la gestione di gruppi di persone detenute è un metodo di lavoro comune. Si tratta di gruppi informativi, gruppi di incontro, gruppi di auto aiuto, veri e propri gruppi di lavoro che gestiscono servizi interni al carcere. Il ricorso alla dimensione del gruppo non è certo una novità all’interno delle istituzioni chiuse che in Italia, intorno agli anni settanta, hanno ospitato esperienze di gruppo a valenza terapeutica. La letteratura sull’argomento, molto scarsa nel nostro paese, ma più ricca in altri, ha dimostrato il sostanziale fallimento di questo genere di esperienze all’interno di istituzioni chiuse come il carcere: aver importato il modello del gruppo terapeutico da altri setting, in modo automatico, ha messo in luce difficoltà cosi rilevanti da aver messo in dubbio 1’idea stessa di poter fare psicoterapia in carcere, tanto più attraverso la dimensione del gruppo ben più complessa di quella della relazione a due. Tuttavia, a seguito dall’attuale più consistente ingresso negli istituti penitenziari di operatori dei servizi territoriali (in particolare dei servizi per le tossicodipendenze) e di associazioni del Terzo Settore (volontariato organizzato e agenzie sociali non-profit), si assiste oggi ad una ripresa di attività che prevedono la gestione di gruppi alL’interno del carcere. A distanza di molti anni, dunque, stiamo assistendo alla ripresa di una modalità operativa che può rappresentare una scommessa interessante, se si riesce a far tesoro delle esperienze passate e dunque definirne i contorni in modo chiaro esplicitando il perché, il quando e il come è opportuno utilizzare questo strumento. Lo strumento del gruppo nelle esperienze che si stanno attualmente conducendo, non vi è dubbio che la dimensione al gruppo sia fondamentale e, per certi versi, rispetto al tipo di relazione che si instaura solitamente tra gli operatori penitenziari e le persone detenute: quasi sempre una relazione individuale che, per il fatto stesso di essere tale, non consente di sperimentare modalità trattamentali capaci di raggiungere un elevato numero di persone. Da ciò ne deriva che il passaggio in carcere resta per la persona detenuta sostanzialmente un’esperienza individuale in cui la dimensione collettiva finisce per presentare solo i limiti della convivenza forzata tra persone. La dimensione del gruppo si sovrappone dunque a quella di una condizione di vita poco umana, in celle sovraffollate dove al massimo si può sperimentare (quando si è fortunati) la disperata solidarietà umana di chi si trova costretto nella stessa invivibile situazione. L’idea allora di sperimentare il gruppo anche come risorsa per la persona che vive in carcere, non può che essere vista con grande interesse e in una dimensione progettuale non può che assumere una rilevanza fondamentale. A nostro avviso si tratta addirittura di uno strumento imprescindibile di lavoro perché garantisce lo sviluppo di diversi obiettivi. Innanzitutto lo strumento del gruppo è di per se contrastante con la logica dell’isolamento che permane anche quando più persone convivono in una cella ma faticano a comunicare tra di loro. In secondo luogo il gruppo costituisce un buon veicolo di apprendimento reciproco perché può agire da rinforzo al singolo: in questa prospettiva il gruppo è lo strumento che più di altri consente di sviluppare vere e proprie strategie di impoverimento. Il gruppo è una palestra per verificare le proprie abilità sociali, sviluppare canali comunicativi efficaci, sperimentare il confronto. Il gruppo è il luogo in cui il fare assume una dimensione collettiva e i processi di responsabilizzazione sono condivisi. È indubbio dunque che il gruppo sia uno strumento potenzialmente forte e che il suo utilizzo vada dunque sostenuto alL’interno dei progetti. A patto che si sappia gestire questa dimensione. Operatori penitenziari, operatori dei servizi, volontari che a diverso titolo si impegnano anche nell’uso di questa modalità di lavoro, devono essere ben consapevoli della specificità di questo strumento all’interno del carcere. Devono conoscerne anche i limiti e i rischi per poterne fare un uso consapevole e mirato. Premesso dunque che lavorare con gruppi all’interno del carcere è sicuramente un percorso interessante e comunque un’attività in espansione, riteniamo abbastanza urgente intenderci su alcune questioni di fondo al fine di utilizzare efficacemente questa modalità di lavoro che deve essere utile innanzitutto alla popolazione detenuta. Il carattere sperimentale dei progetti e il desiderio di "fare qualcosa di buono" non devono esimerci, infatti, dal domandarci cosa stiamo facendo e dove questo può portarci. Le occasioni di formazione alla facilitazione e alla conduzione dei gruppi, tanto più se si concretizzano all’interno degli istituti penitenziari, sono sostanzialmente inesistenti. Chi lavora in carcere, dunque, spesso non ha una formazione specifica in questo campo e ancora più spesso chi ha questa formazione e gestisce gruppi all’esterno, si accorge tuttavia che la stessa non gli è sufficiente per lavorare in carcere o, addirittura, può essere controproducente. La proposta che viene fatta in questa sede è allora di iniziare ad individuare alcune questioni di fondo che possano aiutare chi lavora in carcere a definire una cornice operativa adeguata e congruente con l’intero contesto in cui si incontrano le persone detenute. Riteniamo che l’analisi delle questioni che saranno rilevate in questa sede costituisca solo il livello minimo di attenzione che andrebbe a nostro avviso garantito ogniqualvolta si intenda proporre un’attività di gruppo in carcere. La prima questione è rappresentata dalla necessità di conoscere le variabili costitutive del contesto carcerario che possono avere impatto diretto sulla dimensione del lavoro con i gruppi in carcere. La seconda questione è una chiara opzione per la dimensione del gruppo etero come unica possibilità da sperimentare in carcere perché unica possibilità di salvaguardia dei singoli rispetto al contesto in cui vivono. Infine, riteniamo utile individuare alcune indicazioni metodologiche per la conduzione degli incontri di gruppo in carcere, che possono facilitare sia il lavoro degli operatori che quello delle persone detenute. La specificità del gruppo nel contesto carcerario La variabile del controllo, quotidiano, minuzioso, formalizzato attraverso procedure rigide che instaura perversi meccanismi di dipendenza: questo è sicuramente il primo dato strutturale con cui si deve lavorare. Decidere di condurre gruppi in carcere vuoI dire fare i conti con un clima interno al gruppo in cui la dimensione del controllo pervade qualunque espressione verbale e non. Un controllo che si sperimenta nel qui e ora del gruppo e che sia i detenuti che gli operatori si portano dietro una volta finito il momento del gruppo. La dimensione del controllo contribuisce ad attribuire al gruppo, cosi come a tutte le altre attività interne al carcere, una valenza legata alla dinamica premio-punizione. I detenuti sanno, e se non lo sanno lo imparano presto, che la loro partecipazione al gruppo è sempre sottoposta all’approvazione ultima del personale deputato al controllo (agenti di polizia penitenziaria e Direzione) e questo vale per tutto il periodo in cui il gruppo si incontra. Questo inciderà, come vedremo più avanti, su alcune variabili operative importanti quali la selezione dei partecipanti e la fase di contrattazione tra il conduttore il gruppo. La seconda variabile è costituita dall’immutabilità della istituzione. Il carcere, essendo un sistema chiuso, non può essere rivolto al proprio cambiamento, ma anzi, necessita di stabilità e fissità. Questa è una delle ragioni per cui la dimensione collettiva incontra costantemente ostacoli e la tendenza dell’istituzione è quella di frammentare, disarticolare, diluire nel tempo, rendere discontinua ogni attività interna. In questo senso la costituzione di gruppi di persone detenute è sempre vista come una possibile minaccia interna, in particolare agli occhi del personale di custodia. Con questo dato strutturale è importante saper avere a che fare: dall’abilità degli operatori a gestire il fantasma minaccioso che inevitabilmente aleggia, deriva infatti anche la vita del gruppo. In questo senso espressioni come "sporcarsi le mani", "accettare compromessi", "venire a patti", che appaiono spesso sulla bocca degli operatori che iniziano a lavorare in carcere, devono potersi tradurre in consapevolezze operative che avranno un peso diretto sui processi di negoziazione con l’istituzione. Un terzo dato strutturale, molto importante rispetto all’argomento che stiamo trattando, è legato al processo di spersonalizzazione che, sottolineato dagli autori che si sono occupati di analisi istituzionale intorno agli anni sessanta Il, si concretizza ai giorni nostri in modo emblematico nel problema del sovraffollamento. Parallelamente all’isolamento sociale si assiste per paradosso all’eccesso di "compagnia" all’interno del carcere che impedisce qualunque riconoscimento della individualità. Proporre attività di gruppo significa allora scontrarsi con almeno due livelli problematici: da un lato la necessità che i singoli manifestano di vedere riconosciuta la propria dimensione individuale (parlare del proprio problema, avere risposte personali, ecc.), dall’altro l’assoluta impossibilità, per chi partecipa al momento del gruppo, di avere momenti di solitudine e di privacy e quindi l’elevato rischio da parte del conduttore di innescare dinamiche emotive che non hanno alcun luogo di decantazione. È proprio da queste variabili ( che non sono certo le uniche, ma ci sembrano tuttavia sufficienti per giustificare l’opzione che sarà proposta in questa sede) che deriva la necessità di essere molto chiari sul tipo di gruppi che ha senso proporre in carcere. Il gruppo etero centrato come opzione obbligata Parlare di gruppo etero centrato significa fare riferimento in modo assolutamente non equivoco alle caratteristiche del gruppo centrato sul compito che non è un gruppo terapeutico, non è un gruppo auto centrato, non è un gruppo che lavora sulle proprie dinamiche interne in modo privilegiato. n gruppo etero centrato è un insieme di persone che si incontra per realizzare un compito, raggiungere un obiettivo ben preciso secondo regole condivise, centrato sugli aspetti consapevoli delle relazioni tra persone, in cui il senso di appartenenza è diverso a seconda degli obiettivi e dei tempi di vita del gruppo. Lo stile e le modalità di conduzione di questo tipo di gruppo deve essere perciò coerente con questa cornice definitivo. Gli obiettivi degli interventi con i gruppi etero centrati sono volti al miglioramento della qualità della vita delle persone che ci vivono e al rafforzamento del senso di "potere" dei partecipanti, evitando la doppia trappola del sentirsi onnipotenti o assolutamente impotenti, aiutando i singoli membri e il gruppo nel suo insieme a darsi obiettivi realistici il cui raggiungimento possa aumentare il senso di competenza sia del singolo che del gruppo. n gruppo si riunisce quindi sulla base di obiettivi operativi che sono concettuali in termini di azione da realizzare e concretizzabili in risultati qualitativi e quantitativi. Esso è di conseguenza interdipendente con i vari scopi individuali, anzi è proprio nell’obiettivo operativo che si realizza la interdipendenza. Affermare l’obbligatorietà della scelta dell’etero centratura non vuol dire negare gli aspetti affettivi del gruppo, come se non ne facessero parte in modo costitutivo; significa solo identificare modalità di conduzione centrate sugli aspetti consapevoli delle relazioni, mirate alla costruzione di un clima collaborativo, non inclini alL’interpretazione delle dinamiche conflittuali interne ma piuttosto in grado di far emergere le potenzialità dei partecipanti rispetto alL’obiettivo concreto. Si tratta di favorire la comunicazione senza per questo individuare il gruppo come uno "sfogo" in cui è necessario giocarsi senza limiti, un contenitore dell’aggressività, una cassa di risonanza dei vissuti emotivi. Il momento del gruppo va sempre inteso dal conduttore come un "qui e ora" in cui le dinamiche socio-affettive vanno gestite con prudenza nella consapevolezza che il contesto carcerario non tollera forme di acting out, l’espressione dei sentimenti in modo diretto, attive risposte alle frustrazioni. Lo sviluppo del senso di appartenenza affettiva al gruppo non può dunque essere un obiettivo del conduttore che gestisce gruppi in carcere, perché ogni singolo detenuto potrebbe non fare più parte del gruppo in ogni momento, l’attività stessa di gruppo potrebbe essere interrotta dall’oggi al domani, la partecipazione continua del singolo conduttore non può essere data per scontata, la sottocultura carceraria potrebbe indurre distorsioni rispetto a concetti come la fedeltà al gruppo. Condurre gruppi in carcere significa piuttosto fare i conti con la logica della precari età dell’esperienza e dunque lavorare sui livelli della razionalità e dell’operatività garantisce che le persone non debbano vivere frustrazioni profonde sul piano emotivo e affettivo. Il lavoro sul sistema difensivo delle persone e quindi tecniche di gruppo legate alla destrutturazione sono incompatibili con la struttura carceraria: per sopravvivere alla detenzione le persone devono potersi difendere più di quanto non facessero in stato di libertà. Il ruolo del conduttore non è improntato alla dinamica di trasferimento, ma piuttosto mirato alla facilitazione dei processi comunicativi e di realizzazione del compito e dunque l’interpretazione, qualunque sia il sistema teorico di appartenenza del conduttore, deve essere sostituita da azioni di chiarificazione e restituzione nel qui e ora alla globalità del gruppo e su variabili legate alL’obiettivo del gruppo. E questo vale anche quando il gruppo è utilizzato come strumento di supporto psicologico. L’opzione per il gruppo etero centrato, pur essendo discutibile, nasce dalla consapevolezza delle variabili di contesto a cui si è accennato precedentemente, ma anche da un modo di concepire il "cambiamento" della persona all’interno di una struttura chiusa. In questa sede si parte dal che il carcere non ha valore rieducativi in senso morale o psicologico, ma può al massimo offrire alcune opportunità per sviluppare competenze da esercitare dopo la pena: proprio per questo lo strumento del gruppo viene qui inteso soltanto come un luogo di supporto, di comunicazione e di apprendimento. Niente esclude che la persona possa anche trovare attraverso il gruppo motivazioni per un cambiamento personale più profondo, ma questa resta in ogni caso una scelta della persona e non la ragione dell’utilizzo di uno strumento come il gruppo. Si può obiettare che un simile modo di vedere il gruppo costituisca una sorta di "gioco al ribasso"; ci permettiamo di sottolineare che imparare a comunicare in un quotidiano comunicativo, realizzare qualcosa di concreto attraverso la collaborazione reciproca, assumersi la responsabilità di realizzare degli obiettivi comuni, impegnarsi per impegnare il proprio tempo, entrare in una logica di solidarietà reciproca, siano di per se obiettivi altissimi che costituiscono comunque la premessa per qualunque altra forma di cambiamento della persona. Ci permettiamo inoltre di rilevare che chiunque entri a lavorare in carcere con la prospettiva di modificare le persone che vi sono ristrette, è tenuto ad interrogarsi criticamente sulle proprie motivazioni e oltre tutto deve prepararsi a numerose frustrazioni. Gli obiettivi del lavoro con gruppi etero centrati è quello del supporto alle persone nel qui e ora per un possibile miglioramento della loro qualità di vita e dello sviluppo di empowerment. Da questa chiarezza, è possibile partire per individuare alcune indicazioni operative che possono aiutare tutti coloro che devono condurre gruppi all’interno del carcere. Alcune indicazioni operative Una volta chiarito il contesto e il conseguente tipo di gruppo a cui dare vita all’interno di un carcere, è necessario porsi alcune questioni legate alla costituzione e alla conduzione del gruppo che sono specifiche del contesto penitenziario e determinano spesso il successo o l’insuccesso della iniziativa. Rileviamo in questa sede soltanto il livello minimo delle indicazioni, sufficienti ad avviare e portare a termine una attività di questo genere all’interno del carcere secondo una logica congruente con il contesto. Riteniamo utile provare a suddividere il lavoro in fasi in modo da rispecchiare la realtà operativa che solitamente si incontra quando si vuole proporre un’attività di gruppo dentro il carcere. La distinzione delle fasi proposta in questa sede ci sembra essere la più corrispondente a quanto accade concretamente in un istituto penitenziario e quindi in grado di offrire al lettore un quadro delle variabili di cui è indispensabile tenere conto per poter operare efficacemente. Saranno individuate le seguenti fasi: 1) preparazione dell’attività; 2) avvio del gruppo; 3) realizzazione degli incontri; 4) chiusura del gruppo; 5) valutazione.
Per ciascuna delle fasi saranno presi in esame i passaggi operativi e gli eventuali punti critici che l’operatore dovrà gestire. Lo schema qui proposto è ovviamente valido soprattutto per attività con gruppi che prevedono un certo numero di incontri mentre può essere ridondante rispetto a gruppi che si incontrano solo una o due volte. Tuttavia alcuni suggerimenti possono essere utili in termini generali per tutte le volte che si intenda lavorare con questo strumento. Prima fase. La preparazione dell’attività Nella fase di preparazione dell’attività è necessario prevedere i seguenti passaggi: a) definizione dell’obiettivo che si vuole raggiungere con il gruppo Le ragioni per cui si decide di attivare il gruppo devono essere chiare e rese esplicite per poter dare vita anche alla definizione di indicatori per la verifica di quanto si farà. In ogni caso l’obiettivo deve essere molto concreto o comunque traducibile in comportamenti concreti e linguaggi comprensibili alla popolazione detenuta. È cioè fondamentale non dare per scontato che i concetti e i linguaggi degli operatori siano di per se chiari: una verifica con persone estranee al lavoro sociale (familiari, amici, ecc.) può essere una buona cartina di tornasole per verificare la comprensibilità del linguaggio che l’operatore usa. Cosi come può essere utile limitarsi alla defInizione di uno o due obiettivi, in modo da poterli scomporre veramente nei comportamenti corrispondenti e non rischiare cosi confusioni con la dimensione dei principi e delle finalità generali dell’intervento. b) verifica dell’effettiva congruenza tra l’obiettivo e lo strumento gruppo: con ciò si vuol dire che nella fase di preparazione non si deve dare per scontato che il gruppo sia lo strumento migliore per raggiungere l’obiettivo. Può essere che lo si raggiunga meglio attraverso altri mezzi ed è importante porsi questa domanda perché lavorare sui gruppi in carcere comporta anche difficoltà organizzative per l’istituzione e una buona argomentazione sull’utilità di questo strumento è un punto di forza nella fase di negoziazione. c) definizione della dimensione e composizione del groppo Coerentemente con l’obiettivo va definito il numero dei partecipanti che spesso dovrà essere scelto anche in relazione agli spazi disponibili. In ogni caso un efficace lavoro di gruppo non può a nostro parere prevedere più di 10112 partecipanti, anche quando si tratta solo di momenti informativi. Il gruppo allargato non consente infatti il sufficiente spazio alla dimensione relazionale tra i partecipanti e tra loro e il conduttore. La composizione del gruppo deve essere definita in base a diverse variabili: oltre all’età delle persone vanno considerate: la situazione giuridica delle persone (imputato definitivo recidivo, primo ingresso, ecc.), il tempo di permanenza nella sezione in cui si realizzerà l’attività, il tipo di reati, la partecipazione ad altre iniziative presenti nella sezione, ecc. Conoscere il tipo di popolazione presente nella sezione e definire i criteri della composizione del gruppo in relazione all’obiettivo, aiuterà il conduttore ad avere un ruolo anche nella fase di selezione che, altrimenti, sarebbe completamente nelle mani degli operatori istituzionali. d) durata dell’attività La durata dell’attività deve essere predefinita in relazione all’obiettivo dando un’indicazione, almeno di massima, del numero di incontri previsti, della loro scansione temporale, del tempo richiesto per ciascun incontro. Questo aiuterà sia le persone detenute che gli operatori istituzionali ad avere una percezione del tempo non frammentata e in questo modo saranno contenute ansie, preoccupazioni, sensazioni di minaccia altrimenti poco controllabili. Determinare un tempo significa inoltre garantire con più facilità che si lavorerà in una logica di etero centratura: se tutti sanno di aver a disposizione un certo numero di incontri con alcuni risultati concreti da raggiungere, sarà più semplice non indugiare in lunghe discussioni, in conflitti poco costruttivi, in comunicazioni ridondanti. e) criteri e procedure di selezione dei partecipanti La questione dei criteri per selezionare i partecipanti è un problema molto importante in carcere. Ciascun interlocutore istituzionale usa i propri, ma il più delle volte i criteri si inseriscono nella logica premi-punizioni o nell’istanza della sicurezza. In questo modo si può correre il rischio che l’iniziativa sia riservata a coloro che hanno già strumenti e vengano dimenticate le persone più "disturbanti" o, al contrario, quelle che si fanno sentire di meno. Proprio per questo è bene che il conduttore definisca prioritariamente i criteri della composizione del gruppo rispetto all’obiettivo specifico e sulla base di questi possa poi negoziare. Non bisogna infatti dimenticare che ci sono criteri di selezione interni sui quali non è sempre possibile incidere (sia quando sono formalizzati, sia quando agiscono a livello informale ), quali per esempio il divieto di incontro tra due detenuti, l’eventuale sovrapposizione tra l’orario lavorativo del detenuto e l’ora prevista per le riunioni del gruppo, eventuali sanzioni del consiglio di disciplina, la previsione di trasferimenti, ecc. f) luogo degli incontri Non costituisce una variabile banale. Nelle condizioni di sovraffollamento che caratterizzano tutti gli istituti penitenziari italiani, si rischia il fallimento del lavoro con i gruppi proprio per la mancanza di un luogo in cui far incontrare le persone. Accertarsi di questa possibilità nella fase della preparazione è il modo migliore per non trovarsi di fronte a sgradite sorprese. g) procedura e strumenti per dare comunicazione ai detenuti dell’iniziativa benché le comunicazioni in carcere siano spesso molto veloci ("radio carcere" è ormai un’espressione conosciuta anche dai non addetti ai lavori), non è raro che la comunicazione di iniziative rivolte ai detenuti stenti ad arrivare ai diretti interessati. Diverse sono le ragioni di queste omissioni e spesso curiose sono le spiegazioni che vengono date dal personale interno. È un fatto che chi vuole lavorare in carcere non deve dare per scontato che l’iniziativa sarà promossa e comunicata all’interno delle celle, perciò deve porsi la questione in prima persona e individuare procedure e strumenti utili per negoziare con 1’istituzione. h) negoziazione con gli interlocutori istituzionali Si tratta dell’ultima fase della preparazione che deve servire a concordare con la Direzione del carcere (possibilmente in modo formale) le regole generali con cui condurre l’attività. Quanta più credibilità ha il progetto all’interno del quale si attivano i gruppi e la persona che interloquisce con la direzione, tanto più la fase della negoziazione sarà efficace. A questa fase sarà necessario comunque far seguire un lavoro quotidiano e più informale con gli agenti della sezione, per promuovere un consenso senza il quale la realizzazione concreta è sempre molto difficile. Alla fase di negoziazione è bene giungere preparati, ma anche disponibili a verificare quanto veramente potrà essere realizzato secondo l’ipotesi prevista e quanto invece dovrà essere rivisto. È importante tuttavia che l’operatore abbia chiari i minimi sotto i quali non intenderà scendere. Solitamente la questione si pone su due problemi: la possibilità di usare il momento del gruppo come momento di "osservazione" della persona e la richiesta di garantire la presenza di agenti di polizia penitenziaria durante il lavoro. Si tratta di due variabili fondamentali sulle quali non si tratta di lavorare per principi, ma piuttosto di riflettere in termini di significato. In questa prospettiva è forse utile garantire in primo luogo che gli operatori istituzionali conoscano il lavoro che sarà svolto e che, insieme a chi gestirà il gruppo, lavorino sui vantaggi e gli svantaggi che ogni tipo di scelta potrebbe comportare. Può dunque essere molto utile che il programma di lavoro venga confrontato anche con il comandante degli agenti di polizia penitenziaria e con l’educatore del reparto, sia per ciò che concerne i contenuti e gli obiettivi, sia per quanto concerne l’organizzazione pratica che prevede l’intervento diretto degli agenti (accompagnamento dei detenuti, orari di apertura del luogo di incontro, ecc.) Sulla base di questi passaggi sarà possibile definire con maggiore chiarezza cosa è meglio fare e, successivamente, poter contrattare con chiarezza anche questi due elementi insieme ai detenuti. Infine, fanno parte della negoziazione anche le decisioni relative ai trasferimenti di coloro che fanno parte del gruppo, alle regole rispetto ad eventuali trasgressioni alle regole e all’utilizzo di materiale (carta, penne, registratori, ecc.). Solo dopo un adeguato processo di negoziazione in cui gli accordi siano il più possibile chiari, è possibile avviare il gruppo con la tranquillità necessaria e avendo creato le precondizioni per gestire le situazioni che si verranno a creare nel tempo. Seconda fase. L’avvio del gruppo Nella fase di avvio (in genere il primo e secondo incontro) si costruisce il rapporto tra i partecipanti e tra loro e il conduttore, rispetto al tipo di lavoro che il gruppo porterà avanti. In genere le persone detenute si accostano a queste esperienze con un certo entusiasmo perché sono comunque vissute come un modo per arricchire un tempo che altrimenti sarebbe vuoto, tuttavia hanno poca dimestichezza con l’idea di un lavoro comune (qualche eccezione è data dai detenuti tossicodipendenti che hanno avuto esperienze di comunità). Sarà dunque necessario seguire i seguenti passaggi: a) definizione ed esplicitazione del contesto gruppo II conduttore ha dunque come primo compito quello di chiarire il contesto, il senso generale dell’iniziativa. Può essere utile spiegare in partenza che cosa non ci si può aspettare dall’attività di gruppo, in modo anche da consentire alle persone di scegliere se continuare a partecipare oppure no. In questo senso l’essenziale è chiarire che il gruppo non produrrà benefici giuridici, che non è il luogo dove saranno affrontate le singole situazioni legate al reato, che il conduttore non farà da tramite con le figure istituzionali, che il gruppo non è il luogo delle fiere rivendicazioni. n gruppo è un luogo in cui ci si conosce e si comunica per raggiungere degli obiettivi concreti, in cui si progetta, si coopera per la soluzione dei problemi, si individuano strategie di comunicazione collettiva con l’istituzione e con la realtà esterna, si costruiscono strumenti (informativi, di supporto, ecc. ) utili anche al resto della popolazione detenuta. b) esplicitazione del ruolo del conduttore Condurre un gruppo significa assumersi un impegno nei confronti delle persone detenute e dunque è importante che il conduttore chiarisca in partenza il proprio ruolo all’interno del gruppo esplicitando anche quali sono i suoi compiti decisionali e le sue responsabilità. Nella presentazione di se è utile anche che il conduttore descriva le proprie capacità operative per far si che le aspettative nei suoi confronti da parte dei detenuti siano realistiche. Garantire questo due passaggi, prima ancora che favorire la conoscenza dei membri del gruppo, consente di definire con precisione la cornice entro la quale saranno raccolte anche le successive informazioni e consente agli interlocutori di esercitare consapevolmente anche le loro eventuali legittime difese. Può sembrare una modalità meno "calda" di apertura del gruppo rispetto a ciò che solitamente si fa in esperienze di gruppo all’esterno e tuttavia questo stile è a nostro parere più rispettoso del vissuto delle persone in carcere. c) ruolo del secondo conduttore e/o di eventuali testimoni privilegiati Non ci sono regole che attestino la necessità di una compresenza di più persone nella conduzione di un gruppo e nemmeno che ne attestino l’inopportunità. È una scelta che viene fatta a discrezione di chi conduce i gruppi. In ogni caso è importante che la conduzione nel qui e ora venga fatta da una sola persona e che l’altra assuma il ruolo dell’osservatore. È tuttavia un ruolo che va esplicitato al gruppo e a cui va attribuito il compito della sintesi finale dell’incontro. poiché si tratta di gruppi etero centrati è fondamentale che quest’ultima sia una restituzione sul modo in cui il gruppo ha lavorato, sugli ostacoli e sulle risorse che si sono osservate; in ogni caso è bene che i riferimenti alle singole persone siano fatte unicamente in chiave di rinforzo e non in chiave interpretativa. L’uso di testimoni provenienti dall’esterno è una modalità di lavoro spesso feconda, soprattutto quando si tratta di fornire al gruppo momenti informativi o di consulenza. In ogni caso è importante che il loro ingresso sia frutto di una decisione collettiva. d) conoscenza dei membri La conoscenza delle persone tra di loro può essere realizzata in vari modi (classico giro di tavola, oppure giochi di conoscenza) ma è comunque necessario che il conduttore, alla fine di questo percorso, abbia un’idea delle aspettative che le persone hanno sul momento del gruppo in modo da poterle ridefinire alla luce degli obiettivi che si è posto. e) esplicitazione e condivisione degli obiettivi Gli obiettivi del lavoro di gruppo devono essere resi espliciti ed eventualmente rivisti alla luce delle aspettative emerse. È sempre utile fare riferimento a prodotti concreti che il gruppo potrà realizzare e che possono essere specificati dopo i primi incontri (materiale informativo, strumenti utili per la sezione, una pubblicazione, ecc.); ciò che è importante è che il gruppo si percepisca come una realtà finalizzata al raggiungimento di un risultato comune. f) contrattazione sul metodo di lavoro Una volta compreso il senso del gruppo, la realtà dei singoli partecipanti e del conduttore, gli obiettivi che si vogliono raggiungere, è importante che il gruppo concordi al proprio interno il modo in cui lavorare insieme. Oltre alle regole di contesto (numero di incontri previsti, ore di lavoro, calendario degli incontri, ecc. ) devono essere definite le regole interne di comunicazione ( come intervenire, non interrompere, non monopolizzare il tempo, ecc. ),di comportamento (uso delle sigarette, esclusione dei giudizi personali, rispetto dei compiti assunti, rispetto della privacy del gruppo, modalità di accoglienza di nuove persone, ecc.) e di organizzazione del lavoro ( eventuale verbalizzazione degli incontri, raccolta dei materiali, uso di eventuali strumenti quali cartelloni, lucidi, ecc. ) Il conduttore è il garante delle regole.
Terza fase. Realizzazione del percorso di gruppo Dopo l’avvio, si tratta di portare avanti il programma definito con il gruppo, con "quel" gruppo. Le indicazioni metodologiche non possono essere in questa fase generali... ogni gruppo è una realtà a se stante, con una propria cultura, con i propri valori condivisi, con il proprio sistema di regole. È lungo questo percorso che assume una rilevanza centrale la questione della conduzione ed è su questo aspetto che cercheremo di proporre alcune riflessioni. In questa sede si parte dal presupposto che, nella realtà operativa del carcere, i conduttori di gruppo non sono necessariamente dei professionisti e che vengono proposte modalità di gruppo in cui il ruolo può essere assunto anche dai partecipanti (per esempio nei gruppi di auto aiuto ). In ogni caso si ritiene importante affermare con chiarezza che 1’idea di non esercitare questa funzione, di rincorrere l’immagine di un gruppo in cui nessuno governa, anche solo il qui e ora di una riunione, significa non riconoscere una dinamica naturale di qualunque gruppo e confondere una funzione di servizio al gruppo con una funzione di potere sul gruppo. In questa sede si parla di conduzione come di un’azione mirata a facilitare il lavoro del gruppo e le sue comunicazioni interne, esercitata dal membro più competente "in situazione". La questione importante sembra allora definire i requisiti minimi che una persona deve possedere per poter essere un buon conduttore di gruppo in carcere, sia che questa funzione venga esercitata da un professionista, sia che venga esercitata da altre persone. Il conduttore deve essere sensibile e attento al contesto penitenziario nel senso che deve essere in grado di tenere presente ciò che esiste prima del momento del gruppo e ciò che accade dopo. Deve cioè saper collocare la propria attività dentro una cornice di senso più globale che incide sulla vita delle persone detenute. Deve conoscere, almeno a grandi linee, quali sono le dinamiche che solitamente caratterizzano lo sviluppo di un gruppo etero centrato, le sue fasi di crescita, le modalità relazionali, le modalità di gestione dei conflitti, ecc. Tutto questo riguarda la dimensione del "sapere" sul tema del piccolo gruppo che è essenziale per saper dirigere le proprie riflessioni operative e per poter gestire adeguatamente situazioni interne che possono anche essere difficili. Deve avere consapevolezza del proprio modo personale di vivere la dimensione del gruppo in genere e anche delle motivazioni che lo spingono a svolgere questo tipo di servizio. Ciò attiene alla sfera del saper essere ed è importante per riuscire a mantenere la distanza necessaria per essere di supporto al gruppo, per non diventare esso stesso elemento del conflitto, per costituire davvero una "sponda" a cui il gruppo può rivolgersi quando è in difficoltà. È una sorta di elemento terzo che deve riuscire a stare dentro e fuori dal gruppo per mantenere una visione globale delle cose. La partecipazione a momenti formativi specifici in cui la persona possa sperimentarsi all’interno di dinamiche di gruppo guidate è sicuramente una opportunità feconda per tutti coloro che intendono lavorare seriamente attraverso questo strumento. Infine, il conduttore è anche la persona che contribuisce sul versante del saper fare attraverso 1’uso di tecniche di conduzione attive, l’individuazione di strumenti operativi utili al gruppo, l’assunzione di responsabilità dirette, ecc. L’esercizio della conduzione conosce stili diversi, più o meno direttivi; l’adozione dell’uno o dell’altro stile è strettamente legato alle caratteristiche personali di chi svolge questa funzione e ciò che deve essere garantito è che la persona sia consapevole delle proprie modalità di azione in modo da poterne verificare l’opportunità e l’efficacia nelle singole situazioni. La letteratura su questo tema è molto vasta e ad essa si rimanda per i necessari approfondimenti nella consapevolezza che, pur non essendo tenuti a diventare tutti conduttori esperti, è tuttavia necessario divenire consapevoli di quanto costruiamo all’interno di un gruppo. Tanto più se questo lavoro viene fatto in contesti chiusi come il carcere che richiedono necessariamente una contestualizzazione forte. In questo senso è proprio dalla pratica di chi concretamente lavora con le persone detenute che dovrebbero emergere riflessioni utili anche per tutti coloro che si occupano di formazione e supervisione; troppo spesso accade che le "guide" degli operatori non abbiano alcuna conoscenza reale del carcere e questo si dimostra come un nodo centrale della formazione e della supervisione che impedisce di offrire agli operatori una profonda comprensione delle loro difficoltà e conseguentemente delle indicazioni coerenti con il contesto. Nel corso della realizzazione del lavoro di gruppo possono naturalmente intervenire altre variabili, oltre alla conduzione, che possono modificare la vita del gruppo. Alcune possono essere imprevedibili e tuttavia un attento lavoro nella fase della preparazione e conseguentemente una chiara contrattazione con l’istituzione e con i partecipanti, consentono di gestire le diverse situazioni che di volta in volta possono verificarsi. Inoltre la scelta di operare in chiave di etero centratura, utilizzando soprattutto la dimensione razionale e cognitiva del gruppo, consente di utilizzare la variabile del "compito" come elemento equilibratore delle dinamiche interne riducendo il rischio di innescare meccanismi distruttivi che in carcere troverebbero poco spazio di espressione. In questa logica il problema dell’alto turn-over dei detenuti che partecipano al gruppo (tipico soprattutto nelle case circondariali in cui i detenuti hanno tempi brevi di permanenza) non si presenta come un ostacolo alla conduzione del gruppo anche se richiede una adeguata gestione delle uscite e dei nuovi ingressi che va comunque pensata in fase di preparazione dell’attività. Quarta fase. La chiusura del gruppo Il momento della chiusura, se si mantiene la logica del gruppo centrato sul compito, è costitutiva del gruppo stesso. Lo si mantiene in vita fino a quando l’obiettivo è stato raggiunto e non solo perché il gruppo rimanga in vita. Questo può valere anche nel caso di gruppi di supporto psicologico o di auto aiuto e anche nel caso di detenuti che hanno pene detentive lunghe, perché la logica della transitorietà del carcere passa anche attraverso lo sviluppo di un’appartenenza "a tempo". In caso contrario lo strumento gruppo rischia di diventare parte di un meccanismo perverso per cui chi vive in un’istituzione chiusa finisce per strutturare la propria identità solo all’interno di essa e per non essere più in grado di muoversi all’esterno. Non è raro sentire testimonianze di detenuti che in qualche modo provano "malinconia" per come vivevano in carcere. Ci sembra molto importante dunque che gli operatori siano consapevoli di questo meccanismo e non contribuiscano inconsapevolmente a riprodurlo soprattutto attraverso uno strumento come il gruppo che già di per se tende a sviluppare appartenenza. Il gruppo in carcere deve dunque essere sempre un gruppo "a tempo" per la persona che vi partecipa, deve rappresentare un’esperienza con un inizio e una fine, uno strumento per realizzare altro sia all’interno che all’esterno del carcere, una palestra dove si acquisiscono strumenti che vanno poi sperimentati in un contesto più ampio. Niente esclude che dopo un’esperienza di gruppo guidato i detenuti decidano di continuare a lavorare insieme, di realizzare attività all’interno: ciò che conta è che il conduttore non promuova un’appartenenza al gruppo originario fine a se stessa passando cosi da una logica di centratura sul compito ad una logica di auto centratura. La chiusura del gruppo fa dunque parte del contratto iniziale con i partecipanti ed è segnata dalla realizzazione concreta del compito che il gruppo si è dato. Più questo compito ha una valenza comunicativa con il resto della popolazione carceraria e con la realtà esterna al carcere, più il gruppo è uno strumento efficace nella logica dell’impoverimento. I compiti che in generale si dimostrano più efficaci sono la realizzazione di opuscoli, la stesura di proposte operative, l’organizzazione di un’iniziativa concreta, la pubblicazione di un articolo, la promozione e la realizzazione di momenti di confronto all’interno tra detenuti e operatori istituzionali. In ogni caso iniziative mirate a mettere in comunicazione il gruppo con i sistemi circostanti. Quinta fase. La valutazione del lavoro di gruppo Il momento della valutazione è costitutivo dell’attività con i gruppi e deve servire, oltre che a verificare i risultati raggiunti rispetto agli obiettivi, a valutare il "senso" globale dell’intervento rispetto al contesto carcerario. Alcuni indicatori utili per la valutazione possono essere i seguenti: a) realizzazione effettiva del compito; b) grado di soddisfazione espresso dai partecipanti; c) auto valutazione dei membri rispetto alle capacità acquisite attraverso il lavoro di gruppo; d) grado di utilizzo del prodotto elaborato dal gruppo alL’esterno dello stesso (per esempio diffusione dell’opuscolo, o risultati dell’iniziativa promossa dal gruppo, ecc.); e) percezione dell’attività del gruppo da parte degli operatori istituzionali.
Inutile può essere invece l’adozione di indicatori classici del lavoro di gruppo quali il numero dei partecipanti, la loro presenza costante, il senso di appartenenza, ecc. Si tratta infatti di variabili che non possono dipendere direttamente dai membri del gruppo la cui partecipazione al lavoro può essere spesso impedita da fattori esterni (basta un colloquio con un avvocato ad impedire la partecipazione al gruppo, o un trasferimento non volontario, o la possibilità di avere un lavoro all’interno, ecc.). Quanto agli strumenti della valutazione è bene decidere sulla base della singola esperienza quelli più congruenti; da quelli più informali (discussione finale in gruppo, colloqui individuali, metodi espressivi, ecc.) a quelli più formalizzati (questionari, scale di auto valutazione, interviste mirate, ecc.).
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