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Le scarpe di Luli
di Elton Kalica
Il buio invernale sorvola la sera, invitando subito la notte a prendere possesso della struttura cementata che si trova in un campo anonimo della periferia di Padova. Nella prigione, prima che dal buio, la notte viene annunciata dalla chiusura dei cancelli che saranno aperti solamente con l’arrivo del giorno. Per i detenuti questa è la fase del vero, duro carcere. Non perché fa risvegliare i ricordi dei locali pieni di gente o le sale da ballo, quelle sono cose emarginate dalle loro menti, una dimensione estraniata volutamente per alleggerire la sofferenza, e che poi inevitabilmente passa nel dimenticatoio. La durezza sta nella chiusura, nel non poter scambiare due parole con qualcuno e nella consapevolezza che si starà chiusi fino alla mattina. Ma poi è l’istinto naturale del vivere che, testardo, sostiene le interminabili attese del giorno dopo, e dell’altro giorno dopo, poi del mese dopo e dell’anno dopo. Tra queste attese, mille pensieri schiamazzano nelle teste recluse, altrettante storie riempiono di grida le pagine di quel "libro" di cinque piani che il buio avvolge in silenzio nell’anonimato delle sere padovane.
Il freddo entrava nell’angusta cella, ignorando il piccolo calorifero e invadendo energicamente i muri e l’aria. Luli inutilmente cercava di scaldare il suo letto, guardando in modo accusatorio il calorifero, che sembrava stare lì, in un angolo, in punizione, per il suo compito malfatto. La televisione richiamò la sua attenzione, con una voce dolcissima che promuoveva uno yogurt alla frutta. "Magari averne un po’", pensò Luli. "Se almeno avessi qualche sigaretta mi sentirei molto meglio, mi sarei scaldato le mani, i polmoni e anche la testa che mi fa cosi male." Sognando una sigaretta, mise da parte l’immagine dello yogurt alla frutta come si fa con le idee proibite, e cominciò a scrivere delle lettere. Aveva intenzione di scrivere a un suo amico d’infanzia per chiedere un paio di felpe e un maglione, ma poi, vista l’improrogabile necessità di sigarette, decise di scrivere a casa e chiedere a suo fratello un altro prestito. All’ultimo minuto però pensò di rivolgersi ad Alfonso, il suo amico francescano che gli mandava sempre francobolli e figurine di santini, consigliandolo di pregarli. I francobolli di solito finivano subito, poiché scriveva a tutti i conoscenti, accompagnato dall’ansia di ricevere risposta, invece le figurine finivano attaccate sull’armadietto e sul muro, in modo da avere continuamente un contato visivo che lo facesse sentire meno solo. Finì le sue corrispondenze verso l’una di notte. Aveva ricevuto la visita di un dolore alla schiena per più di un’ora, ma poi il dolore, sentendosi trascurato, se n’era andato a testa bassa. Anche la guardia aveva controllato dallo spioncino diverse volte la sua silenziosa attività, ma senza interrompere il filo della sua scrittura. Adesso che gli occhi richiamavano la sua attenzione mandandogli messaggi di stanchezza, chiuse l’ultima busta con sollievo. Scriveva ogni volta che veniva in possesso di bolli. Di solito, riceveva lettere o cartoline in risposta alle sue, ma raramente qualcuno infilava qualche banconota da cinquanta dentro, eccetto sua madre. Lei mandava ormai da anni, una volta al mese, una banconota da cinquanta assieme ad una lettera dove ripeteva le sue lacrime, descriveva le lunghe attese di rivederlo e piangeva la paura di non riuscire a farcela ad aspettarlo viva. Guardò le buste, un mucchio ordinato di carta, di pensieri e di ansie, e pregò che qualcuno questa volta decidesse di mandargli qualche soldo. Disse buona notte a tutti i santini e si coricò. Il cuscino era di ghiaccio. Dovette rialzarsi. Andò all’armadietto e prese il cappuccio di lana, fatto da sua madre, e anche due fazzoletti per il naso che continuava a colare. S’infilò nel letto, questa volta però con la promessa di non uscirne fino a mattina per nessuna ragione. Fecce un po’ di zapping col telecomando, ma realizzò che, anche per la sola mano era troppo freddo restare fuori, quindi rinunciò al suo solito "Penthouse" e oscurò la cella spegnendo la tv.
La mattina era come sempre un dilemma tra rimanere nel letto caldo, oppure alzarsi e sopportare il freddo con la speranza di vedersi regalare una sigaretta. Decise per la seconda ipotesi. Aveva aspettato per un’ora, appoggiato al cancello della sua cella, e finalmente la sua attesa era stata appagata. Dario, un detenuto di quelli che fanno colloqui ogni settimana e che hanno sempre tutto in cella, era passato e gli aveva offerto una sigaretta. Ora, finalmente, poteva inspirare con gusto il fumo e dimenticarsi del freddo. "Allora Luli, come stai oggi?", chiese Dario. "Come vuoi che sto. Il freddo non vuole andare via quest’anno. Stanotte ho avuto troppo freddo". "Non ci puoi fare niente, pazienza. Ancora un mese e il freddo sarà solo un ricordo. Una volta che il freddo se n’è andato, si può andare a passeggiare sotto il sole, così quel tuo viso pallido potrà prendere colore", disse Dario con un sorriso. "Non vedo l’ora, veramente", rispose Luli. "Ascolta! Ho notato che le tue scarpe si stanno strappando, e siccome ho un paio di scarpe che non uso mai, te le voglio regalare. Sono sicuro che ti staranno benissimo." "Ma no…. non devi, veramente. Sto bene con queste per il momento", disse Luli guardando in basso le sue scarpe. "Dai, basta fare il timido con me. Quando faccio colloquio, dirò a mia moglie di portarmele" " Ma no, veramente. Non c’è problema." "Ou! Ti ho appena detto che te le darò e basta. Tu non ti preoccupare", ribatté Dario con un tono deciso. "Al prossimo colloquio dico a mia moglie di portarmele", concluse dandogli un ultimo sguardo e tornò nella sua cella. Sorpreso da questo atteggiamento, o meglio da questa generosità, Luli cominciò a pensare alle scarpe. Averne un paio nuove significava per lui iniziare a correre alla mattina. Era da una vita che non correva e si scusava sempre con se stesso col fatto di non avere scarpe adeguate. Prima correva ogni mattina senza saltarne neanche una. Per più di sei mesi aveva corso sopportando i dolori alle caviglie, causati dal pavimento di cemento e dal muoversi sempre in circolo, finché un giorno le scarpe si erano disfate. Il correre era un’attività che regolava l’intera giornata, e per molti versi la riempiva, quindi l’idea di riprendere a correre gli dette quello stesso sollievo che gli avrebbe dato un’altra sigaretta… se solo ne avesse avuta un'altra.
I giorni passarono in fretta per Luli, o forse come tutti gli altri, fatto sta che vide Dario andare a colloquio e ebbe la sensazione che il giorno in cui gli aveva promesso le scarpe fosse stato poche ore fa, invece di due settimane. Rimase nel letto guardando i cartoni animati e con loro un’altra mattina scivolare via e sottrarsi sia alla sua condanna sia alla sua vita. Sua madre gli aveva mandato la solita banconota da cinquanta e finalmente aveva fatto la spesa. Guardava apatico la televisione, mentre inspirava felicemente il fumo bianco. Quella posizione permetteva alla sua mente di abbandonare il corpo oltre che la cella, e di andare a visitare luoghi e scene felici, fatte e plasmate dai ricordi. Era capace di uscire dal corpo per una giornata intera, di volare via di lì per ore, e poi fare ritorno solo quando la stanchezza gli ordinava qualche ora di sonno. Realizzò di essere rimasto immobile sul letto per tutto il giorno solo quando portarono il mangiare. Svolse la solita operazione di nutrimento, senza nessun tipo di coinvolgimento. Non pensava mai a quello che mangiava, anzi avrebbe fatto anche a meno di guardarlo se fosse stato possibile. Sapeva che ogni forma d’indagine sul piatto l’avrebbe portato a un rifiuto, perciò inghiottiva sempre in fretta per non lasciare spazio all’esitazione. Vide Dario solo la mattina successiva. Lui fece la sua apparizione alla porta di Luli mentre quest’ultimo era immerso in una delle sue lettere di speranza. Luli non fu dispiaciuto di essere interrotto, anzi cercò subito con gli occhi le mani di Dario, sperando di vedere le scarpe. "Ascolta", partì Dario con una voce un po’ esitante, "avevo promesso di darti un paio di scarpe e mia moglie me le ha portate ieri. Ma il fatto è che Luca me le ha viste e mi ha offerto una stecca di sigarette in cambio. Sai, una stecca sono trenta euro. Ho fatto lo scambio. Capisci. Mi dispiace ma gliele ho date". Non sapeva, Luli, se era più incazzato per essere stato illuso, immaginandosi già con le scarpe addosso, oppure per quell’azione infame che l’altro aveva fatto nell’offrirgli le scarpe e poi darle ad un altro. Sentì il desiderio di saltargli addosso gridandogli bugiardo, infame, ma oltre al fatto che la guardia avrebbe sentito e lui sarebbe finito in isolamento, pensò che offendersi per una tale bassezza sarebbe stato troppo imbarazzante. Dario capì, da quello sguardo fisso e perforante, che Luli si era offeso. Non volle più stare in compagnia di quella tensione e scappò via velocemente. "Questo è scemo", si disse, "come se fosse scritto da qualche parte che io devo dargli le mie scarpe. Mica sono obbligato". Questo pensiero lo accompagnò per cinque minuti, poi decise di aver fatto la cosa giusta barattando le scarpe con le sigarette piuttosto che darle via gratis. Tornò nella sua cella e si mise a scrivere a sua moglie del buon affare che aveva fatto.
Erano ormai due settimane che Dario non si fermava più davanti al cancello di Luli. Nonostante la sua convinzione di aver fatto la cosa giusta, aveva una sensazione d’imbarazzo nell’incontrare lo sguardo dell’altro. All’inizio aveva raccontato a Luca che le scarpe erano destinate a Luli, non tanto per fare sfoggio della propria generosità, quanto per usare una buona tattica di scambio. Infatti Luca gli aveva offerto prima cinque pacchetti di sigarette, per poi salire a dieci. Alla fine però Luca, indossando quelle scarpe, stranamente si era sentito a disagio all’idea che Luli aveva sperato di averle. Non sapeva perché ma si sentiva colpevole di aver contribuito a causargli una delusione. Luli aveva cominciato a leggere "I Miserabili" per tenere la mente occupata da pensieri cupi e tristi. Ad ogni commento dell’autore e al termine di ogni capitolo, meditava con un occhio comparatore e vi ritrovava come per magia rispecchiata la sua situazione e quella delle persone che lo circondavano. Tutto quel che leggeva, nonostante fosse stato scritto duecento anni fa, non aveva ancora perso di attualità. Era giunto quasi alla fine del secondo volume, quando sentì le grida di Luca nel suo disperato tentativo di cantare il ritornello della pubblicità della Coca Cola. "Coca Cola! Sempre Coca Cola!". Ormai, era diventata una routine, ogni volta che si ubriacava cantava con voce roca quel ritornello. Il suo cantare pieno di rabbia e di sofferenza continuava per ore, accompagnato da tristi commenti sulla propria esistenza. "Mi go i milioni Zio can, che mi me conosse tutti fora, Zio porco, Coca cola, sempre…". Poi, puntualmente, quando la voce lo abbandonava e le forze ignoravano i suoi comandi, prendeva la lametta da barba e si tagliava le vene dei polsi. I primi tempi, al risveglio si vedeva costretto a lavare il pavimento, i muri, la tavola e le lenzuola dalle macchie di sangue, ma ultimamente evitava di sporcare in cella semplicemente mettendo le braccia fuori dal cancello, in modo che il sangue schizzava sul corridoio, finché venivano gli infermieri a fasciarlo. Si faceva sempre fasciare senza opporre resistenza. Sapendo già quello che sarebbe accaduto nelle prossime ore, non c’era quella curiosità che spingeva di solito i detenuti ad affacciarsi al cancello, tutti continuavano i loro lavori quotidiani, vale a dire guardare la televisione, scrivere una lettera o leggere un libro come Luli. Per qualcuno, estraneo all’ambiente carcerario, potrà sembrare strana e cinica una scena del genere, dove mentre qualcuno urla e si taglia le vene gli altri continuano infastiditi le loro attività, ma è come stare per un mese ricoverato in ospedale: dopo che hai visto portare via i primi due compagni di stanza ti rassegni all’idea che là è normale morire. Così anche in un carcere, dopo che hai visto tagliarsi i primi due, capisci che lì l’autolesionismo è normale. Comunque Luca aveva appena cominciato a cantare, quindi tutti si aspettavano di vederlo crollare dopo almeno tre ore, e questo faceva disperare Luli che non riusciva a concentrarsi sul suo romanzo. Decise di andare a farsi una doccia. Si mise una sigaretta in bocca e chiamò la guardia. Aveva quasi finito di fumare quando gli aprirono la porta e poté uscire dalla cella. Camminando per il lungo corridoio mal illuminato, passò avanti alla cella di Luca cercando di evitare un incrocio di sguardi, che vista l’alterazione dell’altro poteva far scaturire qualche reazione. Ma appena passata quella cella si sentì chiamare proprio da Luca. "Puoi venire un attimo qui? Ti devo dire una cosa". Luli gli dette prima uno sguardo indagatore per riuscire a capire le intenzioni dell’altro, poi si avvicinò a passo lento pronto a fare uno scatto indietro nel caso di qualche azione brusca dell’altro. "Sì, dimmi!". "So che Dario si è comportato male con te per la storia delle scarpe". "Guarda che ormai è acqua passata, non ci penso più", lo interruppe Luli, cercando di evitare i commenti. Quella storia era ancora difficile da mandare giù. "No, no, ascolta. Tu sei un bravo ragazzo, perciò ho deciso di regalarti quelle scarpe." "Luca, primo, non le accetto perché so che le hai pagate per te, secondo, sei ubriaco quindi non sei in te. Domani ti svegli e rimpiangi di averlo fatto". "Ascolta zio can. Te digo che te e vojo regalare. Ecco ciappa qua ste casso de scarpe. Che casso me ne frega mi, zio porco, de una stecca de sigarete de merda", disse sbavando con la sua voce roca e urlando. La situazione imbarazzò Luli al massimo. Ormai tutti i detenuti si erano affacciati ai cancelli dando orecchio a quello che succedeva. "Luca, è inutile che fai così. Se me le vuoi veramente regalare, dammele domani quando sarai sobrio", rispose Luli con un tono che suggeriva all’altro di abbassare la voce. "Mi go deciso de dartee e basta. Non me far incassare zio can", e mise il sacchetto con le scarpe fuori dal cancello non lasciando altra scelta a Luli se non di prenderle. "Allora le prendo, visto che insisti, e ti ringrazio moltissimo. Se per caso domani dovessi pentirti di avermele date, dimmelo che te le do indietro", disse confuso e senza nascondere l’imbarazzo. Si allontanò dunque stringendo il sacchetto e pensando a tutta questa situazione come ad una immagine appannata che si cerca di chiarire. "Forse devo riportargliele domani. Ma perché le ho accettate?", si domandava, ripassando nella mente tutta la storia di quelle scarpe e cercando di capire come si doveva comportare. Ricordò Dario quando gli aveva promesso di regalargliele, la sua attesa con il desiderio di cominciare a correre alla mattina, poi Dario che gli diceva di averle barattate e infine Luca che ubriaco gliele aveva regalate non dandogli l’opportunità di rifiutare, e ora non sapeva se aveva fatto bene nel prenderle o meno. Rimase con questo dilemma per tutto il giorno. La mattina seguente, Luca passò due ore in ufficio comando compilando dichiarazioni dove si assumeva ogni responsabilità per i tagli che si era fatto sui polsi, liberandone così tutte le persone terze compreso il personale penitenziario. Poi dovette passare un’altra oretta in infermeria, aspettando di cambiare le fasciature applicate la notte prima dal medico di turno. Dopo una mattinata di attese, firme e corridoi lunghi gli ordinarono di tornare in cella. Tra la felicità di aver finito le solite pratiche del dopo-taglio e l’assopimento delle gambe, ora saliva le scale lentamente con la testa penzolante in avanti. Luli stava scendendo le scale saltando due a due gli scalini, quando vide Luca con la testa bassa che saliva a fatica appoggiandosi al muro. Era andato poco prima a cercarlo nella sua cella e, non trovandolo, aveva immaginato che fosse o in infermeria oppure dal comandante. Altri motivi per giustificare la sua assenza dalla cella non c’erano. "Ehi Luca come stai? Ti senti male? Hai bisogno di una mano? ", chiese, prendendolo per un braccio. "No, sto bene solo che mi hanno fatto un’iniezione e mi gira un po’ la testa. Come ti stanno le scarpe allora?", gli rispose Luca senza alzare la testa penzolante. "A proposito. Ieri, quando me le hai date, mi sa che non eri in te. Vuoi che te le riporto?". "Ma che fai, scherzi, zio can. Se te e go dae… te te le poi tegnere. Lassame star che me sento mal, zio porco. Sta casso de puntura me ga fatto rincoglionire". "O.K. grazie, ci vediamo allora", rispose Luli e proseguì giù per le scale scendendo i gradini due a due.
Erano orma tre giorni che abbandonava il letto prima del solito, prendeva il caffè e aspettava l’apertura per andare nell’area dei passeggi e correre. Era una corsa lenta e noiosa, fatta su una traiettoria circolare, ma che poi, inevitabilmente, dava quel piacevole risultato di stanchezza delle gambe e di leggerezza della testa, provocato dal flusso del sangue che si scatena come un cavallo tenuto fermo per mesi. Ed è proprio quella sensazione che aiuta di notte a dimenticare gli incubi e dormire senza l’aiuto dei farmaci. Oltre allo stancarsi, in questi giorni come per miracolo aveva anche passato intere mattinate senza fumare e si meravigliava di sé rallegrandosi dell’eventuale risparmio. Steso sul letto, guardava la televisione come al solito, con gli occhi assenti e la mente felicemente impegnata in viaggi lontani. Davanti alla cella la guardia richiamò la sua attenzione con il classico tintinnio di chiavi. "E’ arrivato un nuovo inquilino. Svegliarsi!". Girò la chiave due volte, aprì la porta e fece segno all’altro di entrare. "Ciao! Mi chiamo Arrico e sono rumeno", disse il nuovo giunto con gentilezza, mentre appoggiava per terra un sacco di plastica nera. "Ciao! Luli", continuò l’altro senza alzarsi dal letto. Gli dette un’occhiata da capo a piedi e vide con sorpresa che il nuovo arrivato era scalzo. "Com’è che sei scalzo?". "Mi hanno portato in una stanza per darmi questa roba qui nel sacco, sai coperte, lenzuola e piatti, e un agente mi fa: quelle scarpe non sono consentite! Togliere, mettere in quella scatola e scrivere il tuo nome! Fatti mandare le scarpe senza i cuscinetti d’aria e senza tecnologie strane!", rispose Arrigo guardando i calzini ormai sporchissimi. Finì di raccontare tutta la prassi dell’entrata, del controllo e della registrazione, e poi chiese di andare in bagno. Sapeva, Luli, che una delle regole non scritte del carcere era quella di fare il letto al nuovo giunto e fargli vedere come si legano le lenzuola, in modo che non scivolino giù durante la notte, ma preferiva fare a modo suo. Attese che l’altro uscisse e lo invitò a fare subito il letto: "Vieni che facciamo insieme il tuo letto, così impari. Poi ci facciamo un caffè e ci fumiamo una sigaretta". Per fortuna Luli aveva un paio di ciabatte in più. Gliele diede subito, così Arrigo non dovette girare per la cella a piedi nudi, e in più poteva andare a fare la doccia. Sapeva che percorrere tutto il corridoio e poi entrare a piedi nudi in una doccia usata da cinquanta persone l’avrebbe trasformato in un portatore sano di mille tipi di funghi e le ciabatte quindi erano la necessità più vitale. Quello che lo faceva soffrire era l’idea di dovergli trovare un paio di scarpe. Arrigo certamente avrebbe scritto a casa per farsi mandare delle scarpe non "strane", ma era sicuro che tra lo scrivere e il ricevere le scarpe sarebbe passato un mese. Pensò di dargli le sue scarpe vecchie che erano un po’ bucate, ma si vergognava. Dargli le altre scarpe, quelle che Dario aveva venduto a Luca e che poi Luca gli aveva regalato, non ci pensava neanche. Quelle gli servivano per correre. Sentì per tutta la serata da Arrigo la storia dell’arresto e le accuse, le avventure e le disgrazie della sua vita in versione dettagliata. Sapeva che gli appena-arrestati hanno sempre quella inevitabile caratteristica, di parlare, di raccontare e di domandare su tutto. Abituati alla vita frenetica di fuori, continuano come per inerzia a fare tutto allo stesso ritmo. Luli ricordava la sua entrata e si rivedeva nell’altro, nella sua energia e carica. Si rattristò sapendo che fra un po’ anche Arrigo si sarebbe spento, abituandosi ai ritmi lenti, monotoni, ripetitivi e uniformi della vita carceraria. Sapeva che quel posto avrebbe puntualmente smorzato le energie, la carica, la forza, i progetti, gli amori e tutto ciò che in un uomo la natura e la vita crea e accende. Conosceva il potere magico delle fredde mura di trasformare le persone in piante malate, in atomi cristallizzati, in ombre stampate sopra un muro grigio. L’idea dell’ineluttabilità lo rese indifferente alla appassionata retorica dell’altro. La tristezza prese possesso della sua mente portandolo fuori da quell’universo di cemento. Gli vennero in mente la notte che a fatica prendeva possesso della piazzola avanti al suo pub preferito, gli interminabili baci sotto i neon e il profumo dei capelli di lei, le pazze corse con la moto e l’odore della gomma bruciata sull’asfalto, e poi sentì sulle guance il fruscio delle lenzuola e il profumo dell’ammorbidente preferito da sua madre. Fece ritorno al presente con lo stesso impatto che si ha quando si scende dal treno delle "Montagne russe" a GardaLand. Si guardò intorno col cuore che batteva a mille. Spense la televisione, accese una sigaretta. "Che me ne importa della televisione? Cosa me ne faccio dell’aria? E la corsa, chi se ne frega correre come un cavallo matto in un cerchio? Scrivere, scrivere, voglio solo scrivere sempre e a tutti per anni per convincermi che non sono morto". Realizzò che se l’altro era un ragazzo normale, lui era inevitabilmente già uno zombie. Guardò nella figura rossa e luccicante di Arrigo i piedi scalzi e li interpretò come l’inizio dell’ineluttabile processo di mummificazione. "Ascolta", disse, "ho un paio di scarpe che usavo per correre, sono quasi nuove. Domani te le metti e vai a passeggiare. Tanto a me non servono più. Ho preso una grande, gloriosa decisione."
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