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La storia di una beffa di Sergio Segio
Fuoriluogo, settembre 2003
Votato in via definitiva l’indultino, ma la legge è peggiorativa rispetto alle norme già vigenti. Un percorso partito per sfoltire il carcere in nome della clemenza e del buon senso, dopo quattro anni si è risolto in una legge priva di umanità e con nessun effetto di deflazione Nel Bel Paese dalla Memoria Corta se lo ricorderanno in pochi, ma il primo "indultino" è quello che l’allora ministro della Giustizia Piero Fassino presentò il 17 luglio del 2000 (A.S. n. 4673). Il disegno di legge venne approvato dal Senato l’11 ottobre di quello stesso anno (con l’astensione di Forza Italia e An e voto contrario di Rifondazione comunista) ma archiviato dalla Camera pochi mesi dopo. Per sollecitarne l’approvazione Franco Corleone, sottosegretario alla Giustizia, fece 25 giorni di digiuno: un caso più unico che raro nella storia dei governi della Repubblica, ancorché privo di effetto. L’anno in questione, giova rammentarlo, era quello del Giubileo. Il 9 luglio il Papa lo aveva celebrato dentro il carcere di Regina Coeli, alla presenza delle massime autorità istituzionali e di una parte dei detenuti (esigua: ai più non era stato neppure consentito di uscire dalle celle per assistere allo straordinario evento). In quei mesi era stata avviata una forte campagna per l’amnistia-indulto e il cosiddetto "Piano Marshall" carcerario, cui avevano aderito migliaia di associazioni, strutture di recupero, cooperative sociali, aziende artigiane e piccole imprese (cfr. paginoni sul "Corriere della Sera" del 25 maggio, 6 e 25 luglio del 2000). Il merito tecnico della proposta Fassino era articolato su due versanti. Il primo assolutamente modesto: l’ampliamento della liberazione anticipata per buona condotta da 45 a 60 giorni per ogni semestre di pena scontata; l’effetto retroattivo dell’aumento, peraltro, veniva limitato al 1995 e risultavano esclusi dal beneficio i condannati per reati gravi. Il secondo decisamente discutibile, giudicato da alcuni incostituzionale e teso più a espellere un maggior numero di immigrati, che non a liberarli da una detenzione spesso eccessiva e in ogni caso resa intollerabile dal sovraffollamento: l’espulsione degli irregolari a piede libero veniva resa più facile affidandola direttamente alle forze dell’ordine; diveniva automatica quella di chi fosse in custodia cautelare e obbligatoria per quanti avessero subito una condanna fino a due anni o a cui rimanessero due anni di residuo pena, anche qui con esclusione dei reati più gravi. Insomma, la proposta di Fassino era una sorta di premio di consolazione - e poi, neppure consegnato - rispetto a quel provvedimento di amnistia e indulto che il Parlamento, senza grosse differenze tra maggioranza e opposizione, non aveva voluto neppure iniziare a discutere, sbeffeggiando il Papa e i vescovi e deludendo le aspettative di detenuti, operatori penitenziari, volontariato e associazioni. In quel quadro, tutto sommato, la giornalistica definizione di "indultino", seppure impropria, non era completamente fuorviante. L’aumento della liberazione anticipata poteva determinare un qualche effetto deflativo, pur notevolmente minore e non generalizzato quale quello producibile da un vero indulto. Così stando le cose e i precedenti, la proposta di legge n. 3323 depositata alla Camera invece in questa legislatura, il 29 ottobre 2002, da Giuliano Pisapia (Prc) ed Enrico Buemi (Sdi) e poi sottoscritta da numerosi altri parlamentari, avrebbe dovuto essere giornalisticamente definita non già e di nuovo "indultino", bensì e semmai "indulticchio". Certo, nulla può essere addebitato ai promotori circa il nome assunto dalla proposta che, correttamente, recava disposizioni in materia di "Sospensione dell’esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di tre anni per condanne relative a reati commessi prima del 31 dicembre 2000". Nella legge n. 207 del 1° agosto 2003, infine partorita dopo il consueto palleggio tra i due rami parlamentari e le esibizioni ostruzionistiche della Lega, il limite massimo è stato ridotto a due anni, la soglia necessaria di pena scontata è salita da un quarto alla metà, l’applicabilità è stata estesa ai condannati che si trovassero in stato di detenzione o in attesa di esecuzione della pena alla data di entrata in vigore della legge, vale a dire il 22 agosto 2003. Di scarso rilievo le altre modifiche intervenute tra il testo originario e quello finale. Alcune anche in positivo, come l’applicabilità dell’articolo 4 della legge 381/91, al fine di consentire alle cooperative sociali gli sgravi fiscali anche per coloro che usciranno in virtù di tale sospensione della pena, assimilata alle misure alternative. Il numero previsto di questi ultimi è stato un tormentone che ha accompagnato l’iter parlamentare, con titoli all’indomani dell’approvazione quali: "in 8.000 pronti a lasciare il carcere". Qualcuno dei promotori, sia pur riguardo al primo testo, sparò addirittura la cifra di 15.000. Solo a legge in vigore i giornali si sono infine decisi a scrivere che il numero è assai più basso, che le concessioni saranno meno ancora, e lente. Per la verità, chiunque conosca qualcosa della materia sa bene che questa legge non farà uscire un solo detenuto in più (semmai qualcuno in meno) di quanti sarebbero comunque usciti con le misure alternative già in vigore. Ma se tra il testo originario della proposta e quello licenziato c’è qualche differenza tecnica, non ve n’è alcuna dal punto di vista della ratio della misura introdotta, definita dal direttore del Centro di documentazione "L’altro diritto", Emilio Santoro dell’università di Firenze, non una misura di clemenza bensì "un provvedimento antirecidiva ispirato a una logica puramente repressiva". E questo è il punto, la sostanza di questa vera e propria beffa. Un percorso istruito a partire dalla necessità di sfoltire la popolazione carceraria e umanizzare le condizioni detentive, sollecitato dalla Chiesa in nome della clemenza e dagli operatori in nome del buon senso, che è durato quattro anni attraverso due legislature diverse e un cambio di maggioranza, si è risolto in una legge dagli effetti deflativi e umanizzanti nulli, caratterizzata da una logica repressiva e di ampliamento a dismisura (e di esportazione sul territorio) del controllo penale. Lo hanno spiegato molto bene in varie occasioni Alessandro Margara, uno dei massimi conoscitori delle problematiche e delle legislazioni penitenziarie (forse per questo defenestrato dalla Direzione nazionale delle carceri a opera del governo di centrosinistra), e lo stesso Santoro: si tratta di una legge drasticamente peggiorativa rispetto alle norme già vigenti, e in particolare a quanto previsto dall’affidamento in prova al servizio sociale, che consente l’uscita a 3 anni dal fine pena (4 per i detenuti tossicodipendenti). Tutto ciò era stato detto e ridetto durante l’iter parlamentare da molti addetti ai lavori e francamente stupisce la diabolica perseveranza con cui a livello politico nessuno ne abbia voluto tenere conto. A partire dai proponenti, la cui buona fede e migliore intenzione sono fuor di dubbio. Così come è stata degna di miglior causa l’insistente campagna e i ripetuti digiuni portati avanti dal partito radicale per l’approvazione di questo "indulticchio". Che, infine, è arrivata. Purtroppo. Dico purtroppo non per partito preso o per tardive polemiche. Del resto, siamo stati i primi e tra i pochi ad indicare i rischi e il danno connessi alla presentazione e al sostegno di un siffatto provvedimento in luogo della via maestra dell’amnistia e indulto. Strada principale limpidamente perseguibile, magari attraverso la riforma dell’art. 79 della Costituzione, vale a dire riportando la maggioranza necessaria dai 213 a quell’assoluta dei componenti delle Camere, come prospettato nel disegno di legge n. 2750, presentato alla Camera con primo firmatario Marco Boato e trasversalmente sottoscritta. Dico purtroppo perché, di nuovo, è facile preconizzare cosa succederà nei prossimi mesi e anni. Anzitutto la beffa consentirà al governo di mettere nel cassetto ogni altra attenzione o proposito di modifica della situazione carceraria (che non solo rimane grave e drammatica ma è ora destinata a peggiorare), che non siano quelli di chiusura e controriformistici caldeggiati a più riprese dal ministro Castelli. La magistratura di sorveglianza sarà indotta a ridurre l’accesso all’affidamento in prova al servizio sociale e la concessione di altre misure alternative, in modo da dirottare il flusso dei richiedenti verso la sospensione pena, proprio per il maggiore e duraturo controllo che essa consente. L’aggravio che ciò determinerà sulle strutture e sul personale dei Centri di servizio sociale, che già costituiscono la "cenerentola" dell’amministrazione penitenziaria, rischierà di travolgerli e inceppare del tutto il già precario sistema delle misure alternative. Poiché non solo è stato abbandonato il piccolo "piano Marshall" che avevamo proposto ma si sono via via depotenziate e private di risorse le norme già esistenti e la rete della cooperazione e delle strutture di accoglienza, lungi dal produrre una qualche efficacia antirecidiva, la quale ha appunto bisogno di sostegno al reinserimento non di controllo poliziesco, questa legge determinerà piuttosto un aumento del sovraffollamento nei prossimi anni, allorché ai normali flussi annuali di ingresso in carcere (oltre 80.000 persone) si aggiungeranno quanti, avendo commesso nuovi reati o avendo violato le numerose (e spesso vessatorie) prescrizioni, torneranno in carcere a scontare le pene nuove e quelle vecchie. Un bel risultato, non c’è che dire. D’ora in poi, quando sentiranno parlare di clemenza, è facile che i detenuti rispondano: "No, grazie". |