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L’elemosina dell'indultino di Sergio Segio
Fuoriluogo, dicembre 2002
Ai tempi del Giubileo ci fu un vivace dibattito a partire da progetti di larga decarcerazione ma tutto finì nel nulla. Oggi è anche peggio, perché si è iniziato con ipotesi minimaliste
"Carceri chiuse per Natale, i detenuti non usciranno". È il titolo di un quotidiano, ma non si riferisce a queste feste. La notizia risale a 12 anni fa. Correva il 1990. Un anno strano, a rileggerne le cronache politiche e carcerarie. Al governo c’era il solito pentapartito (Dc, Psi, Pri, Psdi, Pli) retto da Giulio Andreotti, con Giuliano Vassalli al ministero della Giustizia. L’anno si era aperto con una dichiarazione a favore della pena di morte di Arnaldo Forlani, il segretario della Dc che sarebbe poi stato travolto da Tangentopoli. Pochi mesi dopo il parlamento varava l’ultimo provvedimento di amnistia e di indulto del secolo (DPR n. 75 del 12 aprile 1990, concessione di amnistia e DPR n. 394 del 22 dicembre 1990, concessione di indulto). Ciò nonostante, quell’anno le vacanze di Natale andarono male per quasi tutti i detenuti la cui possibilità di uscire in permesso, ovvero di fruire della legge cosiddetta Gozzini, fu bloccata da un decreto "anticriminalità", per giunta con effetto retroattivo, varato dal governo il 13 novembre. Un caso evidente di schizofrenia del legislatore. All’inizio di ottobre 1990, infatti, la Camera aveva approvato (149 voti a favore e 27 voti contrari di missini, repubblicani e liberali) un indulto di due anni, fatta eccezione per alcuni reati più gravi; per la prima volta, grazie anche a un emendamento del Pci, ne beneficiarono anche i condannati per la lotta armata, esclusi dai precedenti provvedimenti. L’amnistia era già stata approvata definitivamente in aprile (135 voti a favore, 12 astensioni di missini e radicali) e riguardava i reati con pene sino a 4 anni. Il voto definitivo per l’indulto arrivò in Senato il 20 dicembre: 173 voti a favore, 8 contrari (Msi e Pri). Contestualmente, il Senato iniziava la discussione per modificare l’articolo 79 della Costituzione, ovvero il quorum necessario per l’approvazione delle leggi di amnistia e indulto, al fine dichiarato di rendere in futuro impraticabili nuove concessioni. Nel febbraio 1992 il presidente del Consiglio Andreotti, dichiarava: "Basta con il garantismo che protegge i delinquenti, basta con le amnistie". Infatti, di lì a poco, il parlamento italiano avrebbe terminato l’iter e approvato la legge costituzionale 6 marzo 1992, n. 1, che ha impedito nell’ultimo decennio l’approvazione di nuovi provvedimenti deflativi. Il meccanismo introdotto prevede infatti per le leggi di amnistia e indulto una maggioranza dei due terzi per ogni singolo articolo e per il voto finale. Insomma, un quoziente altissimo, inesistente per qualsiasi altra materia, comprese le stesse modifiche costituzionali. La previsione di maggioranze talmente qualificate ha sostanzialmente vanificato la norma prevista dalla Costituzione all’articolo 79, pur mantenendola formalmente in vita in una sorta di "ipocrisia costituzionale". Così infatti la definisce la relazione che accompagna la proposta di legge n. 2750, presentata alla Camera nell’attuale legislatura da Marco Boato e sottoscritta trasversalmente da singoli deputati di varie forze politiche, della maggioranza e delle opposizioni. La proposta si compone di un unico e semplicissimo articolo che recita: "Il primo comma dell’articolo 79 della Costituzione è sostituito dal seguente: "L’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera"". Si tratta di una via maestra, onesta e trasparente, per rendere di nuovo possibile e praticabile l’approvazione di provvedimenti deflativi. Probabilmente per questa caratteristica - decisamente anomala per la vita politico-parlamentare che predilige bizantinismi, scorciatoie se non sotterfugi - ha avuto vita accidentata. La Lega, in modo particolare, ha sbarrato ogni porta alla proposta di legge, che però è stata infine licenziata positivamente dalla Commissione Giustizia e ora è all’esame dell’Aula. Ma l’iter rimane decisamente difficile, oltre che particolarmente lungo, trattandosi di modifica costituzionale. Da quella improvvida legge ci separa ora un decennio. E gli effetti si vedono tutti, scritti nelle statistiche carcerarie e incisi nella pelle dei detenuti, ammassati uno sull’altro, con un esubero di 15.000 unità sui posti disponibili nelle celle. Molti politici di allora si sono probabilmente pentiti, sia di aver varato la legge costituzionale 1/92, sia dei tanti decreti "anticriminalità" emanati e delle tante campagne securitarie demagogicamente alimentate e risoltesi unicamente nel fatto di riempire sempre di più le carceri di poveri e di esclusi. Nell’anno del Giubileo ci fu un grande dibattito che partì dall’amnistia e indulto, transitò dall’"indultino" e terminò, manco a dirlo, con un nulla di fatto parlamentare. Questo giro pare partito peggio, direttamente dai diminutivi. Quella che doveva essere l’ipotesi subordinata è stata da subito posta sul tavolo come la soluzione preferibile, poiché in grado di ovviare alla maggioranza dei 2/3. Si tratta della proposta di legge n. 3323 presentata alla Camera, cosiddetta Pisapia-Buemi, di nuovo impropriamente definita indultino, poi affiancata dalla proposta n. 3386, d’iniziativa del responsabile giustizia della Margherita, Giuseppe Fanfani, ancor più limitativa poiché prevede una serie infinita di esclusioni. I giochi sono ancora parzialmente aperti, ma è purtroppo facile essere pessimisti e arrischiarsi a fare una previsione sulla ripresa dei lavori parlamentari a gennaio. Alla linearità delle vie maestre, di un indulto senza "se" e senza "ma" saranno preferite le scorciatoie, le mediazioni al ribasso e magari qualche scambio. Speriamo, per una volta, di essere smentiti dai fatti.
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