Don Giuseppe Girelli

    

La testimonianza del fondatore della Sesta Opera

Quando di indulto parlava don Girelli

 

La Nazione, 26.02.2003

 

Amnistia o indulto, o indultino? E dopo? Quale situazione si verrà a creare per tutta quella gente che uscirà anzitempo dal carcere? Una problematica molto seria e di vivissima attualità che don Giuseppe Girelli il santo prete, già parroco di Rosegaferro e fondatore della Sesta opera, si poneva negli anni Sessanta in un periodo di intesa attività per l’assistenza e la redenzione dei carcerati.
Mentre si sta raccogliendo un voluminoso dossier a corredo del processo di beatificazione in corso, emerge in tutta la sua evidenza questo aspetto che ha profondi risvolti sociali e dovrebbe essere considerato dal legislatore al fine di creare le condizioni per il reinserimento di quei detenuti che, usciti dal carcere, in moltissimi casi, si trovano su una strada e non sanno dove andare.
"Da tante parti d’Italia", racconta Danilo Donisi, presidente dell’associazione Amici di Don Girelli, "riceviamo lettere e testimonianze con le quali il prossimo beato affrontava il problema e si poneva a disposizione tra le varie istituzioni allo scopo di aiutare concretamente chi ha sbagliato e chi, dopo aver scontato la pena, con molte difficoltà cerca di ritornare a vivere nella società".
Dall’archivio del Centro Studi "Croce Bianca" di San Severino Marche è pervenuto uno scritto del sacerdote stretto amico di San Giovanni Calabria, datato marzo 1960, oggetto di un intervento sull’amnistia, argomento di attualità a quei tempi, che definisce "imbarazzo dei governanti e responsabilità di tutti" e descrive quello che avviene. "Vorrei seguire qualche detenuto", si propone don Girelli. Da lì, inizia la sua missione in aiuto di chi esce dalla galera ma non riesce a reinserirsi nella società. Un giorno si trova nell’anticamera del patronato degli ex carcerati.

Con lui, ci sono molti uomini disperati, incapaci di ricostruirsi il futuro. Il responsabile del patronato porge una banconota ad uno di loro che gli risponde di non desiderare la carità ma un lavoro. Questo stesso uomo va in cerca di aiuto dal cappellano che prova a sentire una ditta, uno stabilimento, un benefattore, tutti rispondono: "Ci sono tanti capi famiglia in attesa". Demoralizzato, ritorna dal direttore del carcere: gli aveva assicurato che ci sono tante provvidenze e che qualcosa di buono, pure per lui, sarebbe saltato fuori. Lui stesso riprova, ma niente da fare. Gli raccomanda la calma e gli da qualche suggerimento.

"Povero detenuto", commenta don Girelli, "che fare? A casa sua non ci pensa di andare perché sarebbero nuove umiliazioni, nel paese si vergognano di lui, le istituzioni come possono intervenire con delle provvidenze che possono impedire l’abbandono di chi, ricevuta la libertà, si trova di fronte a questa alternativa: o trovo un asilo caldo di affetto oppure dovrò ritornare in carcere".
Al giudiziario di Vicenza, scrive don Girelli, in occasione di una amnistia metà dei detenuti è ritornata alla libertà ma alla sera del primo giorno sei su un’ottantina erano di nuovo in carcere. "È una vecchia esperienza", ammonisce, "che vorrei fosse tenuta in considerazione dai detenuti amnistiati perché non si illudano e dai non amnistiati perché non si avviliscano".
Don Girelli, chiamato anche "l’apostolo delle carceri", ha fondato a Ronco la casa che ospita decine di ex ergastolani. E questo problema si presenterà, forse in misura più pressante, allorquando il parlamento decidesse di approvare la legge sull’indultino. Don Girelli scriveva: "Si può prevedere che le loro necessità saranno più numerose e urgenti".

 

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