Misure alternative


Conclusioni

 

Il nostro ordinamento è caratterizzato da una notevole severità sanzionatoria, riflesso sia del sistema legale autoritario degli anni trenta ancora in vigore, sia della successiva legislazione, prodotta in massima parte in risposta alle diverse "emergenze criminali" che si sono succedute. La scelta di una politica criminale particolarmente severa a livello di processi di "criminalizzazione primaria", cioè a livello legislativo, è stata però sempre contraddetta da prassi amministrative e giudiziarie, cioè di "criminalizzazione secondaria", particolarmente benevole. In altre parole, si sono nel tempo consolidate prassi diffuse di "ammorbidimento" in fase di applicazione. Con pochissime eccezioni, l'autorità giudiziaria ha costantemente applicato solo i minimi di pena legislativamente previsti, nonché la concessione quasi automatica delle misure alternative.

In quest'ottica la legislazione d'emergenza del biennio 1991/1992 (che è molto più vasta di quella che ho esaminato e ricomprende, per esempio, l'istituzione delle Procure antimafia) appare rilevante non tanto per gli inasprimenti che prevede, quanto per il fatto che ha rappresentato un mezzo con cui il potere politico ha chiesto alla magistratura un incondizionato adeguamento alle strategie di lotta dello Stato contro la criminalità organizzata. In particolare è significativo il fatto che per la prima volta il legislatore italiano ha cercato di ovviare alla mitezza della "criminalizzazione secondaria".

Con la legislazione di emergenza di questo biennio il legislatore ha in sostanza chiesto alla magistratura requirente di trasformarsi da organo super partes, che giudica fatti esterni ed estranei, a soggetto che opera in prima persona nella lotta contro il fenomeno criminale. I magistrati, duramente colpiti dalla criminalità mafiosa (si pensi alle uccisioni di Falcone e Borsellino), hanno in linea di massima accolto questa richiesta, giungendo fino a mettere in alcuni casi sotto accusa lo stesso potere politico.

Per quanto concerne invece la Magistratura di sorveglianza il legislatore italiano ha lanciato un segnale di sfiducia nei confronti del suo operato e, più in generale, nei confronti del principio della flessibilità della pena in executivis. In altre parole, mentre alla Magistratura ordinaria si è chiesto di assumere un ruolo attivo nella lotta alla criminalità organizzata, alla Magistratura di sorveglianza si è chiesto soltanto di non interferire con le sue decisioni nella scelta di fare del carcere la sede di una severità simbolica, da imporre a chi è dentro le mura per rassicurare chi è fuori.

I dati analizzati mostrano che la Magistratura di sorveglianza ha sostanzialmente recepito questo messaggio, attestandosi su posizioni di intransigenza non giustificate alla luce della "lettera" della legge. Questa omologazione della Magistratura di sorveglianza agli indirizzi forniti dal potere politico ha di fatto determinato una chiusura dei percorsi alternativi per tutte le categorie di detenuti, anche per coloro che nulla hanno a che fare con la criminalità organizzata.

Quali sono le ragioni che hanno spinto la Magistratura di sorveglianza a uniformarsi agli indirizzi del potere politico?

I risultati della ricerca hanno suggerito l'esistenza di una diretta correlazione tra la "professionalità" dei magistrati di sorveglianza e la loro attività giurisdizionale. In particolare è emerso un nesso tra minore anzianità nelle funzioni di magistrato di sorveglianza e maggiore tendenza all'adeguamento alle pressioni esterne.

Questi dati pongono con forza il problema della "vocazione" a svolgere le funzioni di magistrato di sorveglianza.

La Magistratura di sorveglianza appare afflitta da una complessiva mancanza di "vocazioni". Questa carenza di vocazioni produce innanzitutto il frequentissimo abbandono delle funzioni stesse. I continui avvicendamenti fanno si che ad amministrare le funzioni di sorveglianza si trovino, nella maggior parte dei casi, magistrati dotati di scarse competenze specifiche.

Questa situazione e' ulteriormente aggravata dal fatto che la mancanza di "vocazione" produce, come descritto da Max Weber nell'ambito delle conferenze tenute all'università di Monaco dal titolo La scienza come professione e La politica come professione, una "burocratizzazione" dei comportamenti. Essa quindi ha contribuito, unitamente alla scarsità degli organici, che obbliga pochi magistrati a occuparsi di molti detenuti (nel 1994 il rapporto medio è di 330 detenuti per ogni magistrato, a trasformare il procedimento di sorveglianza da procedimento sulla "persona" a procedimento "cartolare" burocratizzato.

L'effetto più macroscopico di questa situazione è il mancato sviluppo di una giurisprudenza consolidata che funga da cuore di una ideologia propria della magistratura di sorveglianza capace di contrapporrsi sia a quella della magistratura ordinaria sia alle pressioni del potere politico.

L'analisi compiuta offre quindi il quadro di una Magistratura di sorveglianza che, afflitta da una complessiva assenza di "vocazioni", appare molto sensibile agli indirizzi forniti dal potere politico in quanto molto "debole" nei suoi presupposti. Una Magistratura di sorveglianza, priva di una giurisprudenza consolidata, di una ideologia propria, di competenze specifiche e che indulge alla burocratizzazione dei comportamenti, appare sostanzialmente indifesa dai voleri del potere politico, almeno nella misura in cui questi trovino terreno fertile nell'ideologia della Magistratura ordinaria (alla quale la maggioranza dei magistrati di sorveglianza si rifà in assenza di una propria identità di gruppo) già di per sé contraria alla flessibilità della pena nella fase dell'esecuzione stessa.

Non è casuale che certa dottrina (cfr. M. Saltamacchia, 1995), nell'ambito di un progetto di funzionalizzazione della giurisdizione agli indirizzi del potere politico ritenuto necessario per combattere efficacemente la criminalità organizzata, proponga, da un lato, di subordinare i pubblici ministeri al potere esecutivo, dall'altro, di destinare alle funzioni di sorveglianza uditori di prima nomina. L'autore evidentemente ritiene che, mentre per rendere la Magistratura requirente funzionale alla lotta alla criminalità organizzata occorre "formalizzare" la sua subordinazione al potere esecutivo, per la Magistratura di sorveglianza è sufficiente uno svuotamento di "professionalità".

La debolezza della Magistratura di sorveglianza rischia invece, a mio parere, di avere effetti destabilizzanti per l'intero sistema perché produce la squalificazione delle regole e della legalità, pone in discussione i principi dell'indipendenza e della terzietà del giudice, tende a trasformare in senso "repressivo" l'intero sistema dell'esecuzione della pena, mina il principio della flessibilità dell'esecuzione della pena (costituzionalizzato dalla Corte Costituzionale con le sentenze 343/87, 282/89, 313/90, 125/92, 306/93).

Mi sento quindi di fare mia una proposta de iure condendo di Alessandro Margara, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, uno dei decani della magistratura di sorveglianza, che propone una separazione delle carriere (o almeno delle funzioni) tra magistrati ordinari e magistrati di sorveglianza. Ritengo infatti che si potrebbero così eliminare molti di quei caratteri che, dalla scarsa professionalità alla mancanza di una propria specifica identità, rendono la maggioranza dei magistrati di sorveglianza assai sensibili alle sirene del potere politico e succubi all'ideologia della Magistratura ordinaria, contraria al principio stesso della flessibilità della pena. Solo per questa via, a mio avviso, si può recuperare il disegno sotteso alla "Legge Gozzini" di determinare una valorizzazione della Magistratura di sorveglianza e di realizzare, per il suo tramite, un controllo veramente incisivo sulla "legalità" della fase dell'esecuzione della pena.

 

 

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