Progetto M.E.D.I.A.RE.

 

Mutual exchange of data and information about restorative justice

Programma Comunitario Grotius II Penale

 

Intervento della dott.ssa Maria Pia Giuffrida (Dirigente generale - Coordinatore della Commissione "Mediazione penale e giustizia riparativa")

 

Ho iniziato ad occuparmi di mediazione penale alcuni anni fa e precisamente dal 1998 in virtù del mio incarico (a quella data) di responsabile del settore "Misure Alternative" e con riferimento pertanto alla cosiddetta "prescrizione riparativa" prevista a carico dei soggetti affidati in prova al servizio sociale. Una delle prime esigenze da me avvertita è stata quella di far chiarezza sul significato delle parole: molte volte infatti è stato fatto, sia dagli operatori sia dalla magistratura di sorveglianza, un uso approssimativo di concetti quali riparazione e mediazione, utilizzando i due termini quasi che fossero omologhi, ed appiattendone di conseguenza i significati e i contenuti peculiari. Tale confusione terminologica e sostanziale tra "giustizia riparativa" che possiamo considerare il genere, e la "mediazione" che possiamo a pieno titolo considerare una specie rispetto al genere e sicuramente la più alta forma/azione di riparazione, ha reso estremamente difficoltoso l’agire professionale dei nostri operatori. Ad aggravare la confusione spesso nelle prescrizione ordinanze esitate dalla Magistratura di Sorveglianza spesso si è fatto riferimento a "restituzione" e "risarcimento del danno" concetti questi che attengono al codice civile e che non possono essere in alcun modo confusi con il significato della "riparazione". Ma per chiarire queste prime affermazioni è forse il caso di fare un passo indietro così da dare una cornice di conoscenza ai nostri ospiti stranieri sia in ordine alle norme di riferimento che in ordine alla dimensione operativa. Vi farò pertanto un po’ la storia dell’evoluzione legislativa premettendo la sottolineatura che stiamo qui parlando di giustizia riparativa, non come "alternativa" alla detenzione - come avviene in altri paesi - ma quale aspetto/contenuto dell’esecuzione di una pena definitiva (dentro il carcere o in misura alternativa) inflitta a rei adulti. E’ chiaro pertanto che la situazione italiana si discosta al momento da quella di altri paesi, fatta salva la realtà della giustizia minorile o la recente legge sulle competenze del giudice di pace, che non riguardano però questa Amministrazione. Possiamo innanzitutto ricordare che nel sistema di esecuzione penale dei condannati adulti in Italia, dal 1975, anno in cui fu promulgato in nuovo ordinamento penitenziario (Legge 354/75) accanto al paradigma retributivo e quindi alla irrogazione di una pena detentiva a seguito della sentenza definitiva di condanna, ha trovato spazio il principio fondamentale del rispetto della dignità della persona condannata che diviene soggetto di un "diritto" ad un trattamento rieducativo individualizzato, teso al reinserimento sociale. Tale principio trova origine nella Costituzione italiana del 1948 che, all’art. 27, afferma che le "..pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Se il reo è quindi pur sempre oggetto di una condanna, nella prospettiva trattamentale egli diviene altresì soggetto di un percorso di cambiamento individualizzato che presume un’adesione ed un consenso consapevole ad un progetto rieducativo finalizzato alla sua reintegrazione sociale. Il compito trattamentale si configura anzi come "obbligo" per l’Amministrazione a mettere in atto interventi congrui a fronte di un "diritto" del condannato a essere rieducato e reinserito. Già dal 1975 accanto ai due citati paradigmi di riferimento faceva un timido ingresso nell’ordinamento penitenziario, e precisamente nell’art. 47, anche la prospettiva riparativa che prevede che tra le prescrizioni da imporre agli affidati in prova al servizio sociale debba "… stabilirsi che l’affidato si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del suo reato…". La previsione normativa citata non trovò particolare applicazione fino agli anni 80, come viene meglio descritto nella ricerca che trovate tra i documenti in cartella, e soltanto nel 2000 l’importanza di un impegno riparativo nell’ambito dell’esecuzione della pena dei condannati adulti verrà rilanciata nell’art. 27 del nuovo regolamento di esecuzione (D.P.R. 230/2000). E’ proprio quest’ultimo articolo che chiarisce, dopo alcuni decenni dall’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario, l’aspetto - estremamente innovativo e significante - legato al paradigma riparativo definendo la competenza degli operatori del trattamento a dare impulso e sostegno al condannato affinché questi sviluppi una riflessione critica sul proprio reato e sulle ricadute/danni provocati a terzi. Anche qui - come nel paradigma trattamentale/rieducativo - è fondamentale l’autodeterminazione del reo, il suo consenso consapevole ad assumere un impegno "riparatorio" nei confronti della vittima, e più in generale a compiere un’azione materiale o simbolica mediante la quale riaffermare il valore del "patto di cittadinanza" rotto dal reato. Aspetto retributivo della pena, contenuto trattamentale e prospettiva riparativa coesistono pertanto nell’ordinamento penitenziario italiano dal 1975, anno peraltro in cui, per attuare il mandato normativo, vennero introdotte nuove figure professionali (educatore, assistente sociale, psicologo..). Detti nuovi operatori entrarono con grande entusiasmo in carcere, portatori di un forte impegno professionale che doveva essere speso in ordine all’obiettivo della rieducazione e reintegrazione sociale dei condannati che la nostra Costituzione italiana aveva sancito con l’art. 27. Ma l’avvio di tutte le attività di osservazione e trattamento dei condannati ha risentito da un lato della resistenza dell’istituzione carcere al cambiamento e dall’altro dal fatto che nei primi anni l’azione professionale si snodava nell’ambito di una ideologia "buonista" che in un certo qual modo ha tagliato le gambe alla nostra capacità di essere promotori di un cambiamento reale. Per essere più chiara posso portare un esempio che attiene alla mia personale esperienza professionale: quando sono entrata nell’A.P. come assistente sociale, mi è stato insegnato che dovevo di guardare all’uomo condannato e non al reato da lui commesso. Mi veniva detto: "Il reato non è importante per l’operatore del trattamento, il reo è già stato condannato e noi dobbiamo replicare alcun giudizio, dobbiamo agire sull’uomo - ora e qui - perché è l’uomo che dobbiamo cambiare." Questa affermazione che voleva sicuramente ingenerare negli operatori un atteggiamento non giudicante e il superamento di eventuali pregiudizi, ha di fatto dato un input errato che ha lasciato degli strascichi sia negli assistenti sociali sia negli educatori, figure entrambi chiave dell’azione trattamentale. Essi hanno infatti operato molto spesso senza conoscere il reato commesso dal condannato o lasciando ogni considerazione sul fatto criminoso e sui suoi effetti, ai margini del proprio agire professionale. Mi sono resa conto di questo gap nei primi mesi del mio lavoro di assistente sociale già nel 1979 quando realizzai che la mia capacità di azione rieducativa era assolutamente resa impossibile dal fatto che io non potevo "conoscere" l’uomo condannato se non partendo dal fatto che ne aveva determinato la condanna, che altrimenti lavoravo nel vuoto poiché se non conoscevo il reato non potevo in alcun modo contestualizzare il rapporto professionale e definire ipotesi di cambiamento. Un detenuto da me incontrato diverse volte mi asserì - nel raccontarmi la sua storia - di essere vedovo, verità incontrovertibile ma non sufficiente posto che egli stesso aveva ucciso la moglie. Come interpretare il "racconto" del condannato in assenza di dati di conoscenza oggettivi, come far maturare la riflessione critica e la volontà di cambiamento se si parte da una mistificazione di fondo, da una fabulazione necessaria al condannato ma che certamente non può rappresentare la premessa di un percorso di ri-socializzazione? E’ tautologico affermare che nessuna riflessione critica sul reato può essere agita se del reato non si parla, se l’eventuale dato di conoscenza viene usato solo come notizia oggettiva e statica! Siamo venuti, stiamo venendo fuori con una grande difficoltà da questo gap, da questo ideologismo sterile che tarpa le ali all’operatore e che non risponde nemmeno al diritto del detenuto di essere "trattato" senza mistificazioni, come soggetto capace di consenso, capace di assumere su di sé la responsabilità degli effetti del reato, in una prospettiva riparativa, capace di sottoscrivere un patto di cambiamento e di scegliere più in generale il proprio destino. Vi è stata a partire da ciò una progressiva burocratizzazione del rapporto professionale, un senso di impotenza, una difficoltà ad individuare o a rendere visibili i risultati del trattamento penitenziario. Quello che dico evidentemente ha il senso di una generalizzazione che vuole sottolineare provocatoriamente le criticità presenti nel sistema penitenziario italiano, con riferimento all’impegno trattamentale dell’Amministrazione tutta e per essa degli operatori del trattamento. La burocratizzazione d’altronde nasce anche dalla sproporzione tra il numero degli operatori e il numero dei soggetti in esecuzione penale: in Italia abbiamo infatti 56 mila detenuti presenti giornalmente negli istituti di pena e ben 41 mila soggetti in esecuzione penale esterna all’anno. Abbiamo quindi complessivamente una popolazione media annuale di circa 100 mila unità. Chiaramente l’Amministrazione penitenziaria non può fare tutto da sola: la mancanza dei risultati sul fronte della reintegrazione dei detenuti dipende altresì da una politica sociale spesso ingenerosa rispetto a chi deve reinserirsi. E’ chiaro che tutto quanto finora evidenziato ha collaborato alla burocratizzazione del nostro agire professionale, alla perdita di senso del nostro operare, ma l’amarezza delle considerazioni non deve fermarci ma anzi deve aiutarci a cercare delle soluzioni. Credo che parlare di riparazione, di giustizia riparativa possa servire oggi proprio a rilanciare il senso del nostro operare, abbia il valore di una occasione di riflessione a tutto tondo sul nostro lavoro e di ripresa di un agire professionale significativo. Dalla ricerca sui casi di affidamento in prova al servizio sociale scaturiscono in particolare considerazioni molto amare sul fronte del servizio sociale: sono amare considerazioni sui limiti oggettivi di cui nessuno singolarmente deve farsi carico ma rispetto alle quali l’Amministrazione penitenziaria, tutta, nel suo insieme deve assumersi la responsabilità di rilanciare e rivitalizzare i propri percorsi operativi per adempiere al obbligo a "fare trattamento" e ad implementare la prospettiva riparativa che la pena deve oggi avere. Se è giusta la prospettiva riparativa, quella prospettiva di cui i documenti internazionali sollecitano il recepimento e la regolamentazione da parte degli Stati membri, è pur vero che l’impulso per la definizione di forme di riparazione e di mediazione penale nasce da due spinte parallele: la necessità di trovare forme di decarcerizzazione che attenuino il problema del sovraffollamento, e la necessità incontrovertibile di trovare una corretta collocazione alla vittima e risposte ai suoi bisogni, di garantirla rispetto al pericolo di ulteriori vittimizzazioni. I documenti internazionali, che vedete citati nel mio articolo in via di pubblicazione che trovate in cartella, non sottacciono - con grande equilibrio - nemmeno il diritto del reo al trattamento ed al reinserimento. Questa è quindi una tappa da cui ripartire, non da zero beninteso ma da 30 anni di esperienza, ripartire anche da quelli che sono stati gli errori altrui, ripartire cercando di ridefinire l’obiettivo che è il trattamento, valutarne i risultati e sviluppare infine l’ aspetto, che io ritengo essenzialmente speculare al trattamento, che è la "riparazione". Io credo infatti, come si desume dalle precedenti riflessioni, che l’Amministrazione non risponde al suo obbligo a "fare trattamento" se non dando al condannato una occasione reale di fare una riflessione critica sul reato, di maturare consapevolezza sul disvalore del fatto commesso e senso di responsabilità rispetto agli effetti del reato e agli eventuali danni alle vittime. Se non si reinveste sul soggetto detenuto e sulla sua "capacità" di esprimere un consenso, di sottoscrivere un impegno, si ricade inevitabilmente in quella strumentalità che è stata spesso caratteristica dell’esecuzione della pena fino ad oggi, che è riconoscibile negli atteggiamenti/comportamenti cosiddetti "accettabili" formalmente assunti dai detenuti per ottenere i benefici di legge, nella formalità stereotipata che spesso connota le valutazioni degli operatori. Il consenso di cui parliamo è il fondamento sia del paradigma trattamentale sia del paradigma riparativo, è la chiave di volta di ogni processo individualizzato di cambiamento. Ma se, come abbiamo visto, un riferimento a forme di riparazione era già presente nell’ordinamento del 1975, io ritengo che il paradigma riparativo soltanto molto più tardi abbia preso paradossalmente slancio… dalle ceneri del trattamento. Cerco di spiegare questo mio pensare ad alta voce che scaturisce dalle riflessioni fatte insieme a coloro che hanno collaborato con me, e a tutte quelle persone con cui sono riuscita a colloquiare in questi anni mettendomi in una posizione di ascolto. Perché affermo che l’interesse per la riparazione nasce dalle ceneri del trattamento? Perché alla spinta assolutamente costante verso lo sfollamento degli istituti penitenziari che fa sì che vengano concesse un numero sempre maggiore di misure alternative, a questa spinta non ha corrisposto in realtà un’azione trattamentale credibile, visibile, valutabile. Il trattamento penitenziario oggi è in crisi! Ma cos’è il trattamento? Viene inteso da molti come un concetto astratto, che si concretizza, nella migliore delle ipotesi, in una serie di attività di intrattenimento svolte a beneficio dei detenuti. Qual è la dimensione soggettiva del trattamento, quali i risultati attesi o dimostrabili? Oggi in Italia, ma forse anche in Francia e più in generale in Europa, spesso abbiamo tutti difficoltà a dimostrare che il trattamento "serva", a definire modelli replicabili nel rispetto della singolarità dei progetti individualizzati di ciascun condannato. Credo che fino ad oggi non siamo riusciti a rendere visibile il trattamento ed i suoi risultati, a farlo diventare comprensibile alla società esterna che è alla ricerca di certezza della pena. Nè siamo riusciti a far capire quanto il nostro agire professionale riesca a incidere su un percorso esistenziale su un soggetto in esecuzione di pena dentro e fuori dal carcere. Chi lavora nell’Amministrazione è coinvolto in prima persona nell’attività legata all’osservazione e trattamento e se noi vogliamo mantenere vivo questo valore sancito dalla Costituzione e dall’Ordinamento penitenziario dobbiamo dimostrare, abbiamo la responsabilità di dimostrare che il trattamento ha e produce un risultato. Ecco perché - vi dico per inciso - l’Amministrazione penitenziaria ha recentemente iniziato a dare indicazione alle strutture periferiche sui modelli organizzativi, operativi e metodologici da adottare nell’attività di osservazione e trattamento e soprattutto sul significato e i contenuti di un "progetto pedagogico" definito annualmente e valutabile in ordine a risultati qualitativi e quantitativi. Pensare oggi a far decollare la prospettiva riparativa significa quindi innanzitutto recuperare il significato del trattamento, mettere al centro del nostro operare il soggetto condannato col suo "diritto al trattamento" che è un diritto abbiamo già detto ad avere opportunità di maturare un consenso a delle proposte di cambiamento, a essere soggetto di un percorso, a sottoscrivere un patto trattamentale e riparativo. Parlare di giustizia riparativa significa "rischiare" di cogliere l’occasione di mettere in discussione il nostro modo di essere stati operatori del trattamento fino ad oggi, e rileggere l’agire professionale sulla spinta di questa grossa e fascinosa prospettiva che è la giustizia riparativa. E agire nel senso della giustizia riparativa può significare fare "riparazione" simbolica, può concretizzarsi in una lettera di scuse mandate dal reo alla vittima, o in quella scelta libera e consapevole del reo ad accedere a quella specie eccezionale di riparazione che è la mediazione, specie che però presume un altro soggetto - consenziente - che è la vittima. Ecco un altro punto di grande criticità nell’applicazione di questo paradigma riparativo in Italia. Poiché la norma dice (nell’affidamento in prova) che il detenuto deve riparare in quanto possibile nei confronti della vittima, talvolta, come vedrete nella ricerca, nelle ordinanze della Magistratura di sorveglianza, nelle prescrizioni imposte al detenuto viene definito un impegno del reo ad incontrare la vittima, talvolta addirittura si parla di un incontro di mediazione e pertanto nei fatti si impone implicitamente alla vittima di ritornare alla ribalta per valutare se aderire ad una percorso di mediazione. In alcune ordinanze rileviamo un esplicito invito al difensore del detenuto, al detenuto medesimo o all’assistente sociale perché contattino la vittima per chiedere per l’appunto se vogliono incontrare il reo. Questo problema di richiamare in campo la vittima, esponendola a ulteriori traumi, ad una ulteriore vittimizzazione pressoché inevitabile, è stato uno dei punti di maggior criticità delle nostre riflessioni in commissione e delle mie personali. Perché - va ricordato - la proposta di mediazione non arriva in Italia subito dopo la commissione del reato, ma dopo la condanna definitiva del reo alla pena detentiva e alla successiva eventuale trasformazione di questa in una misura alternativa. E la condanna definitiva arriva tra l’altro a distanza di decenni dalla data di commissione del reato. Poi abbiamo i tempi della decisione della Magistratura di sorveglianza sulla richiesta di misura alternativa, che viene concessa spesso talvolta anche a 15 anni di distanza dalla commissione del reato: anni in cui il condannato è stato in carcere, ovvero anni in cui in forza alla legge Simeone del 98 il condannato attende la decisione del Magistrato di Sorveglianza in uno stato di libertà. Dopo dieci o quindici anni pertanto la vittima potrebbe essere chiamata in causa perché il reo deve riparare! Vittima che non ha avuto voce se non quella dell’avvocato, vittima che ha fatto dichiarazioni sotto la spinta emotiva del trauma subito o sotto la pressione dei mezzi mediatici che fanno un uso selvaggio del dolore altrui, vittima dimenticata e che dopo 10 anni di silenzio è richiamata in causa perché il reo deve riparare. Credo che pensare in un modo così unilaterale sia di una gravità assoluta e quindi mi sono espressa già anni fa, l’Amministrazione penitenziaria si è espressa, dicendo agli operatori di non contattare la vittima se non valutando caso per caso prima di una qualsivoglia iniziativa e quale che sia la richiesta della Magistratura di sorveglianza, contattando la competente Direzione generale o la Commissione da me oggi presieduta. Ho ritenuto, nel mio lavoro di approfondimento e di proposta in ordine a questo delicatissimo argomento di entrare in contatto con la vittima, o, per meglio dire, di entrare in relazione con associazioni di vittime (ne esistono in Italia diverse che hanno raggruppato le vittime o i parenti delle vittime solitamente di stragi terroristiche) per comprendere chi avesse subito il trauma di un evento criminale riteneva di essere "rispettata" da una ordinanza che imponeva - nella migliore ipotesi - all’assistente sociale di bussare alla sua porta per chiedere se voleva incontrare un reo di un reato più o meno grave avvenuto decenni prima. La riflessione della Commissione e quella mia personale ci ha portato ad approfondire questo problema e l’unico modo per agire correttamente - dovendo dar seguito al dettato normativo - è innanzitutto quello di individuare tutti i percorsi di giustizia riparativa che possono non toccare direttamente la vittima ma che abbiano il senso ed il valore per il reo di una espressione di quella riflessione critica e autoresponsabilizzazione di cui si diceva prima. Non sottovalutiamo però l’importanza di costruire delle ipotesi di contatto diretto della vittima e di studiare sin d’ora percorsi deontologicamente corretti. Soprattutto non dimentichiamo che il presupposto della mediazione è la libertà e il consenso sia del reo che della vittima. Quindi non possiamo agire nel senso della mediazione se non collaboriamo innanzitutto in virtù della nostra competenza istituzionale a ricollocare la vittima come soggetto titolare dei diritti: diritto al rispetto del proprio dolore, a non farsi trovare dal reo, ad ottenere risposta ai propri bisogni, diritto a acconsentire ad un percorso di mediazione. E’ importante procedere ad estendere delle norme sull’argomento, recependo peraltro i contenuti delle risoluzioni internazionali ed in particolare la Decisione quadro del Consiglio dell’Unione Europea relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale del 2001. Il Comitato ristretto della Commissione sui problemi e sul sostegno delle vittime dei reati a suo tempo istituita presso il Ministero della Giustizia con D.L. del 2 aprile 2001 ha esitato - vi diceva Paolo Bolognesi - un primo disegno di "Legge quadro per l’assistenza, il sostegno e la tutela delle vittime dei reati" che a breve andrà in discussione in parlamento e che costituisce un primo tentativo di dare una collocazione alla vittima e riconoscerne diritti e bisogni, anche se forse richiederà alcuni interventi emendativi. In attesa di una definizione normativa, per avviare una sperimentazione di incontri di mediazione tra affidati adulti e le loro vittime, la Commissione da me presieduta ha preso contatto con alcuni degli Uffici di mediazione già esistenti in Italia - peraltro qui invitati e presenti - e che hanno operato o si avviano ad operare con riferimento a soggetti minori o alla nuova normativa del Giudice di pace. L’ipotesi che si sta valutando è quella di individuare, secondo dei criteri assolutamente rigorosi alcuni, pochi casi, monitorati attentamente dalla Commissione, previa definizione di apposite Convenzioni con i singoli Uffici, da inviare in mediazione. Fondamentale sono - tra gli altri - il criterio di distanza contenuta tra reato e proposta di mediazione e soprattutto il criterio relativo alla valutazione del rapporto preesistente tra reo e vittima, interrotto dal reato, e il cui recupero appaia per entrambi le parti di sicura significatività. Al di là di questa ipotesi di sperimentazione sto lavorando da sola, con la Commissione, e/o con quanti mi hanno accompagnato e collaborato in questi anni alla definizione di un nuovo modello di Ufficio che gestisca la prima accoglienza delle vittime, dove si possa offrire al reo ed alla vittima un paniere di offerte riparatorie la cui significatività non è quella necessariamente del valore intrinseco, ma piuttosto quella del valore simbolico, e dove si possa gestire eventualmente anche l’incontro di mediazione tra i due soggetti, vittima e reo, entrambi liberi di esprimere il loro consenso. Stiamo lavorando perché la mediazione sia possibile, e questo significa anche che bisogna fare attività di diffusione di cultura, della cultura della risoluzione dei conflitti, e quindi occorre coinvolgere il territorio per capire insieme quali sono gli obiettivi comuni e quale è il ruolo di ognuno di noi rispetti agli obiettivi stessi. Per concludere il mio lungo intervento - peraltro forse non esaustivo - voglio sottolineare alcuni altri punti di rilievo. Emerge - come vedrete dalla ricerca - l’importanza di una interazione costruttiva con la Magistratura di Sorveglianza con la quale dobbiamo condividere le esigenze di fondo e le modalità applicative della giustizia riparativa. Dobbiamo chiarire inoltre il ruolo degli operatori penitenziari rispetto alla mediazione ed alla giustizia riparativa. Al di là dell’afflato che alcuni oggi vivono verso la possibilità di divenire "mediatori" come scelta valoriale rispetto all’attuale burocratizzazione del lavoro trattamentale, io credo che l’operatore penitenziario debba riscoprire la sua capacità e le sue potenzialità in ordine al mandato istituzionale e professionale definiti dall’ordinamento penitenziario. Il ruolo dei nostri operatori del trattamento è tra l’altro indispensabile ed insostituibile prima della mediazione e la sua importanza è legata al compito di dare impulso alla riflessione sul reato, di dare modo ai condannati di maturare quel consenso di cui abbiamo diffusamente parlato e che è indiscutibilmente necessario in vista di percorsi di riparazione o più specificatamente di mediazione. Io credo che debba essere oggi impegno dell’Amministrazione quello quindi di far fare percorsi di sensibilizzazione, formazione ed aggiornamento agli operatori tutti sia per far capire la differenza tra giustizia riparativa e mediazione, tra risarcimento del danni e restituzione, ma soprattutto perché comprendano e riscoprano il valore del proprio agire professionale rispetto alla capacità di provocare nel detenuto condannato un processo di cambiamento esistenziale. Questa è - in breve - la proposta presentata dalla Commissione all’Issp, Istituto superiore di studi penitenziari, che si auspica possa andare in onda al più presto.

 

 

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