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"Liberante" è colui che sta per uscire. E anche il titolo di un film
"Liberante" è la persona detenuta che sta per uscire a fine pena, ma è anche un breve film, realizzato dalle detenute delta Usa a custodia attenuata femminile di Empoli. È Patrizia a raccontarci alcune emozioni nate da questa esperienza, e soprattutto a spiegare quanto è difficile liberarsi davvero dal carcere quando si ritorna nel mondo "libero " dopo anni di galera. La sua testimonianza è pubblicata su Ragazze Fuori, l’unico giornale realizzato interamente in un carcere femminile.
Ornella Favero
Il film è la storia di una liberante. Una liberante che, arrivata ormai al fine pena, si libera dalla necessità del carcere, e che si libera del vecchio stile di vita, testimonianza solo del proprio passato. Non è facile affrontare la vita quotidiana normale, dopo tanti anni di carcerazione. Personalmente ancora mi sento in una posizione di svantaggio a confronto con gli altri. È come se mi sentissi indietro di dieci anni o forse anche più. Quando esci da un carcere, soprattutto se non hai avuto la possibilità di usufruire di permessi o altre misure alternative, ti trovi in difficoltà anche con le semplici posate per mangiare, che fuori sono in ferro. In carcere ti dimentichi di molte abitudini, inerenti la vita esterna, e ti abitui a un’altra situazione, che non sarà quella reale al momento dell’uscita, ma che in quel momento deve far riflettere sugli errori commessi. Liberante è la gioia di una di noi che prepara le sue cose ed esce felice, ma sentirsi libera dentro è un altra cosa. Nella mia prima carcerazione durata 6 anni, quando mi trovai fuori dal portone senza un progetto personale di reinserimento, nulla di nulla, senza sapere più come attraversare la strada, incontrai serie difficoltà di relazione con gli altri, ricadendo per debolezza e anche volontà nello stesso tunnel. Ero peggio di un riccio incattivito. Aggredivo tutto e tutti. Ce l’avevo con il mondo intero e volevo solo distruggere intorno a me. la custodia attenuata mi ha permesso, anzi, ci ha permesso, di iniziare un lavoro su noi stesse. Iniziare a capire i bisogni e disagi interiori, un lavoro che negli altri circuiti ordinari non è possibile fare per moltissime ragioni, che molte di noi conoscono anche se non tutte abbiamo vissuto le stesse realtà carcerarie. E non parlo solo di carceri dove resti chiuso 24 ore su 24. Personalmente ho conosciuto veramente il peggio, Soprattutto nelle carceri del sud, dove non esiste un’equipe di trattamento, la psicologa è un sogno, fare la spesa di sopravvitto è quasi un’utopia, tantomeno la figura dell’educatore è conosciuta. In alcune strutture non esistono corsi, la risocializzazione diventa un raro momento perché la fai nella cella dove sei, dato che resti chiuso e si è in 9 in cella. La struttura di Empoli invece ci ha aiutato.
Patrizia Tellini, Casa a custodia attenuata di Empoli
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