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Reinserimento è solo una bella parola se non c’è lavoro
Chi scrive questa lettera è un detenuto che la strada del reinserimento nella società vorrebbe percorrerla fino in fondo, ma teme di non farcela. È una paura diffusa tra chi sta in carcere, e che cresce quanto più si avvicina il momento dell’uscita a fine pena. Perché la strada del "dopo carcere" è lastricata di piccole difficoltà, a volte più sfiancanti dei grandi problemi: la patente che ti viene ritirata, la fedina penale che ti marchia a vita, le multe da pagare che non ti danno tregua.
Ornella Favero
Cosa vuol dire davvero "reinserimento"? Come si attua? Dove si attua? Questo tema riguarda molto da vicino detenuti ed ex detenuti, e il problema mi tocca in prima persona. La domanda principale è questa: tante persone che parlano di reinserimento, sui giornali o in televisione, si rendono conto che, per tante leggi che dovrebbero agevolare il reinserimento nel tessuto sociale di un soggetto, ve ne sono tante altre che ne intralciano l’applicazione? Dal mio punto di vista, "reinserimento" significa riprendere in mano la propria vita seguendo le norme del buon vivere civile, nel rispetto delle leggi e delle persone. Ma è necessario un piccolo appoggio della società stessa (cosa assai difficile!). Sicuramente posso però dire dove tale percorso "rieducativo" non viene applicato, e cioè all’interno degli istituti penitenziari; non si applica con i pochi colloqui con gli operatori e tanto meno si può applicare con i discorsi fatti e rifatti tra compagni di detenzione. Il reinserimento si può portare a compimento solo stando il più possibile a contatto con persone estranee all’ambiente carcerario, e comunque a contatto con la società stessa. Ma vorrei tornare per un attimo alle leggi che intralciano il reinserimento. Dopo la condanna per un reato da minorenne, ho acquisito la patente e avevo così intrapreso una regolare attività lavorativa, come autotrasportatore. Poco dopo, nonostante la mia buona volontà e l’affidamento con obbligo di lavoro, la stessa patente mi venne revocata a tempo indeterminato, ai sensi dell’articolo 120 del Codice della strada. L’attività lavorativa, da tutti ritenuta essenziale e indispensabile al reinserimento, oltre che necessaria alla sopravvivenza, rimase così un sogno. Questo è ciò che mi ha toccato in prima persona, ma allora il reinserimento dei detenuti, o ex detenuti, lo si vuole realmente? Davvero non è evitabile rendere pubblica la fedina penale, almeno quando si tratta di doverne fare uso per ricercare un lavoro? Questo è, infatti, un altro grande problema, perché una persona uscita dal carcere ha molte difficoltà e quella dei precedenti penali è una delle principali. La stragrande maggioranza di chi potrebbe offrire un’attività lavorativa, non appena viene a conoscenza dei trascorsi di ex detenuto si gira dall’altra parte.
Silvano Lanzutti, carcere di San Gimignano
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