Dieci anni di Ristretti Orizzonti e dieci anni di bilancio della situazione penitenziaria

Ristretti Orizzonti non è mai stato il giornale del carcere, ma quello sul carcere e sulla pena

Un giornale che ragiona su questi temi e non subisce l’istituto che gli sta alle spalle. E guardando e osservando quello che si fa e si dice fuori, non si corre il rischio di subire la deformazione del dentro

 

di Alessandro Margara, giugno 2008

magistrato, uno dei “padri storici” della Riforma penitenziaria,

oggi presidente della Fondazione Michelucci

 

Parlare di Ristretti Orizzonti mi provoca a ricordare le mie frequentazioni di iniziative analoghe alla vostra, incontrate nella lunga strada che ho avuto occasione di percorrere dentro e accanto al carcere. La prima risale al 1970-71, al giornalino “Noi, gli altri”, pubblicato con mezzi assolutamente artigianali negli istituti penitenziari di Firenze e con redazione nella scuola elementare della Casa di reclusione fiorentina. I mezzi erano davvero scarsi, con un austero ciclostile, ma la voglia di scrivere e di parlare era tanta. La Riforma non era ancora arrivata, ma si aspettava in gloria. Era un periodo particolare: la confusione in carcere era molta, ma erano molte anche le speranze che qualcosa di nuovo, e di buono (nuovo e buono spesso non sono la stessa cosa, come dimostra il miserabile nuovo che avanza oggi), stesse per arrivare, con la Riforma appunto. La redazione del giornalino era molto viva ed efficiente, era in contatto con il senatore Carlo Galante Garrone, che raccoglieva, nelle sue visite al carcere, i vari suggerimenti che arrivavano da più parti sul testo dell’Ordinamento penitenziario in gestazione proprio presso la Commissione giustizia del Senato. Nella fase finale del lavoro, questa Commissione, con molti senatori presenti, venne nella redazione del giornalino, a Firenze, per raccogliere le ultime osservazioni prima di licenziare un testo molto avanzato, approvato nel dicembre 1973 dal Senato. Non fu il testo definitivo, la Camera fece molti passi indietro dinanzi agli allarmi che si mettono a suonare sempre quando si cerca di cambiare. Le speranze si ridussero. Comunque, la definitiva riforma del ‘75 consentì l’esperienza dei permessi ai detenuti che molti giudici di sorveglianza cominciarono a concedere con una certa larghezza. Altri allarmi e, in coincidenza con la stagione del terrorismo, anche quella esperienza si concluse. Come si concluse anche quella del giornalino “Noi, gli altri”, che aveva canalizzato le speranze del preriforma e che si arrese alla realtà di una riforma che aveva, in parte, tradito quelle speranze. Si era tentato, con “Noi, gli altri”, di fare qualcosa di diverso da quello che erano i classici giornalini delle istituzioni, istituzionalizzati anch’essi, come i loro ospiti. Molta parte era dedicata alla registrazione di dibattiti, cui partecipavano persone della cultura fiorentina, come l’architetto Michelucci, padre Balducci, il magistrato Meucci, Giorgio La Pira e il sindaco di Firenze Bausi e Mario Gozzini, che si affacciava al carcere. Venne a parlare anche Giovanni Conso. Ma i detenuti partecipavano attivamente agli incontri e spesso questi erano fatti solo fra detenuti e operatori. Gli incontri erano deregistrati sul giornalino, cosa che ritrovo spesso nel vostro Ristretti Orizzonti.

Devo aggiungere che, qualche anno dopo, in occasione delle udienze della Sezione di sor­veglianza di Firenze, tenute nella Casa di Reclusione di Porto Azzurro, conobbi da vicino “La grande promessa”, in funzione da vari anni. La redazione organizzava e seguiva, con la televisione a circuito chiuso, gli incontri fra i magistrati della Sezione di sorveglianza e della Procura generale e i detenuti del carcere. Oggi, purtroppo, le pubblicazioni della “Grande promessa” sono da tempo sospese, ma c’è uno sforzo per rilanciarla, con la collaborazione dei poli universitari nei carceri della Toscana, che ha vari iscritti a Porto Azzurro, diminuiti negli ultimi tempi: perché in carcere, anche le esperienze migliori (o soprattutto quelle) sono sempre precarie.

Da allora sono passati molti anni e le pubblicazioni degli istituti si sono moltiplicate, tanto che si è arrivati ad un vero e proprio coordinamento fra le stesse, riunitosi in più occasioni. Molte di queste pubblicazioni riescono, con qualche tensione talvolta, a emanciparsi da quel problema, accennato sopra, della istituzionalizzazione.

Ma è ora che venga a parlare di Ristretti Orizzonti. Perché è questo che si deve ricordare oggi. Dieci anni, intanto, sono già una durata significativa, specie se passati, come li ha passati “Ristretti Orizzonti”, senza flessioni e, anzi, in crescita. Ed è riuscito, dico subito, a liberarsi dal rischio “istituzionalizzazione”. Non è mai stato il giornale del carcere, ma quello sul carcere e sulla pena, che ragionava su questi temi e non subiva l’istituto che gli stava alle spalle. Mi pare che, da subito, la redazione sia stata anche esterna o, almeno, si è sicuramente evoluta verso questa direzione, chiamando, in quanto possibile, a lavorare fuori anche chi si trovava dentro. Non c’è dubbio che questo è stato merito anche di chi guidava l’istituto e che non ha condizionato il lavoro.

Ma tutto questo nasceva proprio dalla linea che il giornale aveva assunto. Portava avanti una riflessione su carcere e pena e, intanto, cercava di fare una cosa piuttosto rara: informarsi e informare su quanto accadeva. Progressivamente, il suo sito informatico, diventava la sede a cui ci si riferiva per sapere qualcosa sui progetti di legge, sul loro sviluppo e il loro approdo, sui dati statistici, sulle situazioni più significative del carcere, come quelle sui suicidi e, più ampiamente sulle morti, fino alla rielaborazione di tutto questo in vere e proprie pubblicazioni autonome. Il sito poi si allargava alle notizie quotidiane sul carcere, attraverso una rassegna stampa, che raccoglieva tutto quello, grano e loglio (per parlare evangelicamente), che sul carcere, sulla pena e sulla giustizia in genere, si pubblicava giorno per giorno. Guardando e osservando quello che si faceva e diceva fuori, non si correva il rischio di subire la deformazione del dentro. Che non vuol dire non guardare anche alle realtà interne. I numeri del giornale, usciti con grande continuità e la dovuta frequenza, hanno cercato di fare conoscere da vicino le esperienze più significative degli istituti penitenziari, spiegati di prima mano da interviste dirette nei confronti dei protagonisti. E sovente i protagonisti venivano in carcere e rispondevano lì alle domande della redazione e dei detenuti che partecipavano a queste interviste collettive. Talvolta, poi, erano incontri interni, che raccoglievano le tante voci e riflessioni che la esperienza del carcere offriva.

 

Il carcere crea innocenza, trasformando anche il colpevole in vittima: e lo fa con la sua sordità alla storia delle persone

 

Il campo di riflessione è diventato sempre più largo, estendendosi ad autori di libri, magistrati o non magistrati, che avevano scritto sulla giustizia o sui delitti o sulle pene. Mi sono trovato ad affermare, tempo fa, che il carcere crea innocenza, trasformando anche il colpevole in vittima: e lo fa con la sua sordità alla storia delle persone, ai loro bisogni, alle loro situazioni personali e familiari.

Non è frequente che ci si soffermi, sulla propria storia, sul come e il perché si è venuti in carcere. Nel preparare il nuovo regolamento di esecuzione, in un articolo sulla osservazione, cercai di introdurre questa idea di ragionare, tra operatori e detenuto, sulla storia di questo. Sono stato molto imprudente perché, quando non avevo più alcuna responsabilità su quel lavoro, quell’articolo fu rielaborato e stravolto, dando per scontato quello su cui si doveva ragionare (cioè, il come e il perché del percorso verso il carcere) e innescando quei temi sul risarcimento del danno, che hanno fortemente nociuto allo sviluppo e alla efficacia delle misure alternative e non solo.

Ristretti Orizzonti, con l’importante e pieno sostegno della Casa di reclusione di Padova, si è espresso anche nei convegni annuali, che hanno richiamato tante persone. Ricordo quelli sul lavoro, sulla affettività, sul nuovo Codice penale, per ognuno dei quali si cercava di arrivare a qualche conclusione utile: come accadde per l’affettività, che produsse una proposta di legge che dava le soluzioni dei problemi, ma che è rimasta sulla carta, come tante altre. Non ho partecipato all’ultimo convegno, che affrontava un tema così scottante, come quello delle vittime di reati gravi, per cercare le vie del superamento della scia di odio che molti delitti si lasciano dietro. È un tema difficile, sul quale ho letto anche i vari interventi sull’ultimo numero di Ristretti Orizzonti e devo dire che, anche per avere seguito da vicino situazioni simili a quelle su cui si è soffermato Segio, mi ritrovo nelle osservazioni che lui ha fatto.

Comunque, come non dire che il bilancio dei primi dieci anni di Ristretti Orizzonti è molto brillante? Lo dico e mi rallegro con tutti coloro che sono all’origine di questo successo. Ma se dalla realtà del giornale ci si sposta alla realtà che lo stesso giornale ci offre in modo preciso ed oggettivo, ci prende lo sconforto che “fa tremar le vene e i polsi”.

Leggo quotidianamente la vostra rassegna stampa e devo dire che, con quella lettura, si arricchisce la mia informazione, ma il mio umore peggiora di brutto. Assorbono buona parte degli spazi gli sproloqui politici, nei quali si sprecano facce feroci e muscoli su argomenti per i quali ci vorrebbe soprattutto cervello, cosa che sembra invece superflua. Ci sono proteste di operatori che non vanno al cuore di problemi, che, in buona parte, anche senza volere, hanno contribuito a creare. Ci sono gli sparsi e numerosi fiori all’occhiello, più grandi o più piccoli, di vari istituti, che fanno pensare a punture di spillo su un ingranaggio che continua a macinare inesorabilmente il proprio carico, sempre più pesante, della solita clientela di poveracci, che entra ed esce (ma soprattutto entra) a ritmi sempre più frenetici.

 

Si vuole tornare alla concezione della pena del Codice Rocco

 

Ecc se dal bilancio dei dieci anni di Ristretti Orizzonti, ci si sposta al bilancio degli stessi dieci anni sulla situazione penitenziaria del nostro paese, le conclusioni non possono essere che tragiche. La legge Simeone-Fassone-Saraceni, del maggio ‘98, fu una legge giusta perché favoriva l’accesso alle misure alternative a tutti e non solo a chi aveva un buon avvocat si noti che i tre autori della legge appartenevano a parti politiche dalla destra alla sinistra. Seguì la legge per le misure alternative ai malati di AIDS, del luglio ‘99, che riordinava e razionalizzava l’intervento in materia dopo una sentenza costituzionale. E ancora, nel marzo 2001, la legge che prevedeva, per le detenute madri, una detenzione domiciliare speciale. È vero che, in contemporanea, la fine del governo di centro-sinistra, era illustrata dal pacchetto sicurezza, anche questo del marzo 2001, espressione del nuovo che arretra. Comunque, erano più i segni positivi che quelli negativi. Il tempo, però, era cambiat la legge Bossi-Fini, nel 2002, rilanciata nel 2004, lanciò la politica di carcerazione contro gli immigrati; alla fine del 2005, la c.d. ex-Cirielli, limitò i benefici penitenziari per i recidivi, che sono poi coloro che affollano appunto le carceri; e infine la legge Fini-Giovanardi, nata da un decreto legge incredibile, scelse la via della repressione nei confronti di tutti i tossicodipendenti, quali che fossero le sostanze usate, anche le c.d. droghe leggere.

Ieri ho letto, nel sito di Ristretti il nuovo progetto di restrizione radicale della legge Gozzini. È facile dire che il sonno della ragione genera mostri. Si tratta di un sonno profondo che consente di ignorare alcune circostanze fondamentali. Come ad esempio che la Riforma penitenziaria, sia nel ‘75 che nella versione c.d. Gozzini dell’‘86, nasceva da un lungo percorso di attuazione della Costituzione, che aveva cambiato la nozione della pena. Tornare indietro, con la radicalità di questo ultimo progetto, vuol dire dimenticare la Costituzione e tornare alla concezione della pena del Codice Rocco. Si ignora anche evidentemente che la flessibilità della pena (tradotta nel sistema delle misure alternative) è un valore costituzionalmente protetto attraverso una giurisprudenza costituzionale che parte dalla sentenza 204/74 e che si conferma con le sentenze 343/87 e 282/89 e con molte altre seguenti. Che la semilibertà all’ergastolano, che ora si vuole sopprimere, è stata inserita, con la Gozzini, a seguito di una giurisprudenza costituzionale che censurava il trattamento diseguale per i condannati a quella pena. Che la liberazione anticipata, che pure si vuole sopprimere, fu indicata, nella sentenza 306/93, come l’unica ragione per salvare le restrizioni eccezionali degli anni dell’attacco mafioso. Che, comunque, le misure alternative e la stessa liberazione anticipata sono previste da tutte le legislazioni europee e in misura anche molto superiore alla nostra: se si vuole ricordare un sistema che non manca certamente di durezza, negli Stati Uniti al record dei detenuti (2.300.000) si affianca quello delle alternative alla detenzione (5 milioni). Che la riduzione delle pene ammissibili alle altre misure alternative, come l’affidamento e la detenzione domiciliare, farà si che, in ragione della scarsa rapidità dell’intervento giudiziario, anche quelle pene minime (un anno per l’affidamento e un anno anche per una specie della detenzione domiciliare) saranno trascorse in buona parte in carcere. E tutto questo perché? È noto o no che la esecuzione della pena in misura alternativa riduce la recidiva da 3 a 4 volte rispetto alla esecuzione della pena in carcere? E che l’andamento della criminalità, a prescindere da brevi periodi di aumento o diminuzione, è sostanzialmente stabile e, per molti aspetti, a un livello inferiore a quello di altri paesi simili al nostro? E sono anche chiare le conseguenze di tutto questo. Il carcere sta crescendo al ritmo di mille persone presenti in più al mese ed è già giunto in vista dei 55.000 detenuti. Questo ritmo crescerà per le nuove previsioni di reato che si annunciano e crescerà ulteriormente nel momento in cui si riducono al minimo le vie d’uscita attraverso le misure alternative. Non c’è da chiedersi: dove andremo a finire? Ma: dove siamo finiti?

Leggo su un giornale che all’orizzonte torna la visione delle rivolte carcerarie. Non so se sarà questa una delle prospettive, che come l’esperienza insegna, porta sofferenza, nella sostanza, solo ai detenuti. Ma io farei un discorso diverso. Ciò che colpisce in questa politica è l’assoluta disinvoltura e leggerezza con cui si interviene in una materia come il diritto penale e il diritto penitenziario, che richiede, invece, particolare attenzione. E soprattutto colpisce la indifferenza sulle ricadute che riguardano la vita di tante persone, la disinvoltura con cui si dimentica quella parte della norma costituzionale che dispone che le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Senso di umanità: interessa l’articolo? come diceva una battuta di un vecchio film.

Ristretti Orizzonti servirà, in questa pessima congiuntura, a tenere informati su tutte le tappe di questa immersione nel sonno della ragione.