Da un orfanotrofio della Bulgaria alle galere italiane

 

La storia di Sonya, sola contro il mondo. La vita diventa una sfida a prendersi quello che nessuno le ha mai dato

 

Di Ornella Favero, settembre 2003

 

La storia di Sonya la racconto direttamente io, perché lei con l’italiano fa ancora fatica, anche se adesso, dopo alcuni mesi di carcere, lo parla e capisce abbastanza e di questo è orgogliosa. Sonya viene da uno dei paesi più poveri dell’est europeo, la Bulgaria, ed è cresciuta in una delle situazioni più degradate e misere di quel paese, un orfanotrofio.

A diciott’anni finisce a lavorare in una fabbrica di dolciumi, dove coltiva un unico sogno, quello di andarsene al più presto. I primi soldi che mette insieme, quando compie vent’anni, li "investe" tutti per farsi portare in Italia. La scaricano a Milano, senza più nulla, quel viaggio le è costato tutto quello che aveva. Di lavorare, senza permesso di soggiorno, non ha nessuna possibilità, così impara a rubare per vivere, e intanto abita dove capita perché "tutta la città era la mia casa". Da Milano scappa a Venezia, sperando di trovare luoghi più accoglienti, e intanto comincia a bere per darsi coraggio. Il primo arresto avviene quando lei, con un po’ di follia e certo senza calcoli da vera ladra, pensa bene di rubarsi una barca perché "avevo bevuto e volevo provare quello che non avevo mai provato". La vita diventa una sfida a prendersi quello che nessuno le ha mai dato: ruba ancora, si ritrova con parecchi soldi e, ci racconta ora con gli occhi che le brillano, "per una settimana ho vissuto come una principessa". Poi arriva il processo, dove lei sta sempre zitta, non capisce nulla e non sa dire nulla, perché non ha avuto ancora il tempo di imparare l’italiano, troppo impegnata com’era a sopravvivere.

Ed ecco il carcere: Sonya l’ho conosciuta alla Giudecca, una ragazzina sola, incapace di esprimersi nella nostra lingua, aggressiva, arrabbiata con il mondo intero, l’ho ritrovata poi nel carcere di Trieste, con almeno la piccola soddisfazione di riuscire a farsi capire nella nostra lingua, ma sempre più depressa per il nulla che la vita le ha regalato: come ultima prospettiva, l’espulsione in quel suo paese dove non ha e non ha mai avuto nessuno. Avrei tanto voluto dirle che potevo fare qualcosa per lei, perché la sua storia è davvero "troppo", troppo misera da sempre, troppo perché non ha un futuro, ma non ha nemmeno un passato. Più o meno tutti i detenuti di solito hanno almeno qualcuno su cui contare: la madre, un figlio, una sorella. Per la prima volta, da quando ho a che fare col carcere, ho percepito invece una solitudine totale, senza nemmeno la possibilità di ricordarsi un momento del passato in cui esistevano degli affetti. Se ricacceranno Sonya in Bulgaria, non troverà nessuno ad aspettarla; in Italia per lo meno, a differenza che nei disastrati paesi dell’est, c’è una rete di sostegno, fatta di una marea di volontari, che si potrebbe occupare anche di lei.

Sonya mi ha permesso di raccontare un po’ la sua storia. L’ho fatto, anche se so che la Bossi-Fini non dà alternative, perché voglio almeno ricordare le persone e le vite che ci sono dietro a tante storie di stranieri in galera. Se credessi che i sogni possono avverarsi, sognerei che qualcuno adottasse Sonya: in fondo, ognuno di noi ha diritto ad avere, almeno in un momento della propria vita, un pezzo di famiglia.

 

Per Sonya è arrivata l’espulsione a distruggere qualsiasi speranza

Voglio tornare sulla storia di Sonya, perché mi sembra che meglio di qualsiasi altra rifletta la complessità della condizione degli stranieri detenuti, e le "due anime" con le quali il nostro paese si confronta con la realtà, spesso dolorosa, degli immigrati, quella che vuole cacciarli o al massimo accoglierli solo come forza-lavoro, e quella che ha invece memoria della nostra storia di migranti ed è pronta a trattarli davvero come persone.

Sonya ha lavorato sodo per fuggire dalla Bulgaria, dove "sopravviveva" in assoluta solitudine, all’Italia, dove sperava di cominciare finalmente a vivere realmente. Breve illusione, la sua, e poi la realtà nuda e cruda: niente documenti, niente lavoro, una rapida carriera da ladra e subito la galera in questo nostro paese ben strano, dove non ha avuto nessun aiuto finché era fuori, ma un po’ di accoglienza, qualche lezione di italiano, una psicologa attenta e sensibile, tutto questo l’ha trovato in carcere. La storia ha un epilogo dolce-amaro: avevo raccontato la sua vicenda sul settimanale "Vita", lanciando un appello con poche speranze, praticamente un invito ad adottare una orfana bulgara, stanca, arrabbiata col mondo, anche un po’ ladra. Mi è arrivata una risposta incredibile, da una coppia con già altri figli adottati: "Abbiamo letto con attenzione di mamma e papà quanto scritto per Sonya. Una storia che centrifuga in sé disperazione, miseria ma anche un pizzico di speranza. (…) Saremmo felici di sapere se possiamo essere per lei quel "pezzo di famiglia" della quale ha diritto".

Ho letto questo messaggio alle detenute della Giudecca, sono rimaste commosse, ma soprattutto incredule: non credevano che "fuori" qualcuno potesse aver voglia di occuparsi di una ragazza detenuta, e non preferisse invece, per fare del bene, scegliersi per lo meno una situazione meno scomoda. E c’è invece da dire che questa non è neppure l’unica offerta di aiuto ricevuta, anche se senz’altro è la più impegnativa e quella che maggiormente ci ha aperto il cuore. Altri si sono offerti di dare una mano a Sonya in modi diversi, come la volontaria che ci ha scritto "Conosco bene la situazione carceraria, insieme ad altri amici tentiamo il reinserimento degli ex detenuti. Mi piacerebbe poter fare qualcosa per Sonya, anche solo diventare sua amica. Forse non è troppo tardi".

Non arrendersi in partenza… non dire "con la Bossi-Fini, non c’è più niente da fare"… non rinunciare a una battaglia giusta perché sia riconosciuto anche agli stranieri in carcere quel minimo di diritti che hanno gli italiani.

Purtroppo, quando sono giunti questi messaggi, erano già arrivati in carcere a prelevare Sonya per espellerla. Non sappiamo se ora sia in un Centro di Permanenza Temporanea (i famigerati Centri di Detenzione, peggio della galera) o al suo paese, per strada perché in Bulgaria non ha nessuno, e c’è troppa miseria perché qualcuno si possa occupare, oltre che della sua, anche di quella degli altri.

La stiamo cercando, non so se riusciremo a trovarla, ad avere almeno qualche notizia sulla sua sorte. So che per tanti di noi, che si occupano di detenuti stranieri, questa dovrebbe essere una lezione: non arrendersi in partenza, non dire "con la Bossi-Fini, non c’è più niente da fare", non rinunciare a una battaglia giusta perché sia riconosciuto anche agli stranieri in carcere quel minimo di diritti che hanno gli italiani. E avere un po’ di fiducia nel mondo "fuori", che non è tutto così ostile e prevenuto come qualcuno vorrebbe farci credere.