Ragazze tossicodipendenti che entrano in carcere

 

Difficoltà, paure, tensioni e poi la lunga attesa per avere un programma terapeutico e l’affidamento ai servizi sociali

 

Di Federica, Daniela e Viviana, aprile 2000

 

Siamo un gruppo di ragazze ex tossicodipendenti del carcere femminile della Giudecca e vogliamo raccontare le nostre esperienze su come avviene l’ingresso in carcere dei tossicodipendenti.

Qui, a differenza di tante altre carceri, esiste l’infermeria che dispone di un medico addetto solo ai tossicodipendenti. Per poterti prescrivere il metadone a scalare, il medico deve accertarsi che, anche in "libertà", seguivi un programma terapeutico con il Ser.T. Chi non seguiva questo programma invece del metadone riceve una terapia farmacologica che l’aiuta a superare la crisi di astinenza.

Dopo che hai trascorso i primi quindici giorni in infermeria, ti fanno scendere giù in sezione, dove vieni sentita dall’educatrice nel colloquio di primo ingresso, per poter poi andare all’aria, in sala giochi, in biblioteca ed in chiesa. Da quel momento inizi a fare le domandine di rito per avere un colloquio con l’operatrice del Ser.T. e con la psicologa, anche lei, come il medico, addetta unicamente ai tossicodipendenti.

Dopo aver avuto il colloquio con l’operatrice del Ser.T. puoi seguire ogni attività individualmente. Arrivati a questo punto, ti viene di solito proposto un programma terapeutico presso una comunità esterna, come alternativa alla detenzione se non superi i cinque anni di condanna.

Quando comunque, passato il periodo di rito in infermeria, volente o nolente ti fanno scendere in sezione, ti ritrovi con i primi problemi di convivenza con le altre. In ogni cella, qui a Venezia, ci sono sette o otto letti e, se incontri persone che hanno avuto esperienze simili alla tua, trovi aiuto nei momenti peggiori dell’astinenza, perché, superata quella fisica, subentra quella psicologica, che è invece ben più difficile da superare. L’entrata in carcere del tossicodipendente è sempre traumatizzante per tutti, poi ci sono casi particolari, persone più deboli che si rifugiano nella "terapia" che viene somministrata alla mattina alle ore 9,30, al pomeriggio alle 16,30 e alla sera alle 20,15, con effetti a volte devastanti. Il loro tempo lo trascorrono giorno e notte stabili a letto, senza rendersi nemmeno conto di dove si trovano.

Così di solito quando ti ritrovi in cella una persona così, devono darsi da fare le compagne, per non vedere la loro amica di sventura autodistruggersi, è come avere un figlio piccolo da accudire.

In casi particolari, ottieni anche di essere seguita dallo psichiatra. Alcune di noi riescono a vincere le difficoltà e le ansie seguendo i corsi e le diverse attività ricreative, lavorando e cercando di tenere la mente occupata, ma purtroppo c’è anche chi si lascia andare alla depressione e fa fatica a reagire.

La depressione poi aumenta perché in carcere, anche se sei già nei termini previsti dalla legge per ottenere i benefici o l’affidamento, viene spesso a mancare l’intervento degli operatori che dovrebbero occuparsi della nostra e noi viviamo così una situazione di disagio, perché per poter uscire serve una relazione da parte degli uffici competenti, relazione che sembra non essere mai pronta, e anche il sostegno del C.S.S.A. qui è quasi inesistente.

La maggior parte di noi cerca intanto di inserirsi nelle attività del carcere, soprattutto con una gran forza di volontà, che è la spinta principale di ognuna di noi a darsi da fare per impegnare la giornata nel migliore dei modi, studiando e frequentando corsi per avere soddisfazioni, a volte anche importanti, per ciò che si fa, e soprattutto la possibilità di usufruirne un domani quando usciremo, specialmente le ex tossicodipendenti, tante ormai abbandonate dai famigliari stanchi della situazione e delle solite promesse vane.

Noi nel nostro piccolo cerchiamo di mettercela tutta, sapendo benissimo che la vita al di fuori da queste mura è molto dura, e per questo la maggior parte di noi, una volta fuori, finisce per essere sola e senza un tetto sulla testa e tantomeno un lavoro. Così ti ritrovi facilmente costretto a delinquere anche solo per mangiare e per pagarti una misera stanza.

L’alternativa è solamente la comunità, ma non sono molte le persone tossicodipendenti che riescono a resistere, soprattutto lì dove ci sono certe regole e punizioni che poco rispettano la personalità di chi dovrebbe accettarle. Finisce che molte persone con pene da scontare alla fine scappano, o addirittura chiamano i carabinieri per tornare in carcere, altre non accettano neppure di entrarci perché ritengono che i loro principi morali e le loro idee in certe comunità non vengano neppure tenuti in considerazione.

 

L’esperienza di Federica

Mi trovo qui da circa otto mesi, sono entrata prendendo il metadone a scalare, dopodiché mi hanno aiutato con la terapia farmacologica. Fortunatamente sono in una cella con delle persone che hanno avuto più o meno la mia stessa esperienza e che hanno così potuto comprendermi ed aiutarmi.

Prima di entrare in carcere ho tentato di fare un percorso terapeutico, ma penso che per farlo bisogna essere fortemente motivati, perché in comunità ci sono regole molto rigide da rispettare. Ci sono degli orari, delle pause in cui fumare. In genere danno quindici sigarette al giorno ma, ad esempio, se non le fumi tutte devi restituirle, per evitare che si facciano scambi. Puoi bere in tutto due caffè al giorno.

Ci sono addirittura comunità in cui ti portano a livelli estremi di sopravvivenza, dosando il quantitativo di cibo, limitando l’uso dello zucchero e permettendoti di bere il caffè solo la domenica mattina, ma penso che questi siano pochi casi estremi.

In comunità poi ci sono tre regole fondamentali: niente droga, niente sesso, niente violenza.

Non si possono avere segreti, perché durante i gruppi, in un modo o nell’altro, ti fanno rivelare ogni cosa e poi capita che ci siano le classiche "infamate", da parte degli utenti, con gli operatori.

Ora, che penso di avere una buona motivazione, sto aspettando di entrare in una comunità in affidamento.  

 

Daniela, in attesa di un affidamento che non arriva mai  

Mi chiamo Daniela, sono ristretta nel carcere di Venezia da quasi un anno e, durante questo periodo, ho cercato di avere un colloquio con l’Assistente Sociale del Ser.T. di Venezia ma finora le mie richieste sono state inutili, in quanto sembra, anzi è sicuro, che non hanno il tempo materiale per venire all’interno del carcere. Io, dall’ottobre ‘99, sono nei termini per ottenere l’affidamento in prova, con eventuale programma terapeutico.

Con l’aiuto del mio avvocato mi sono messa in contatto anche con l’assistente sociale del Ser.T. della mia zona di residenza e lei si è dimostrata molto disponibile nei miei confronti, ha promesso ai miei familiari e all’avvocato che sarebbe venuta a trovarmi: io la sto ancora aspettando. In più occasioni ha rimandato il nostro incontro, e io, che potrei essere già fuori, invece sono ancora qui che aspetto.

E’ possibile che una persona, che durante la sua carcerazione si è sempre comportata nel modo più corretto, e che potrebbe usufruire di quei benefici che per legge sono un suo diritto, debba rimanere in carcere perché fuori le istituzioni, in questo caso i Servizi Sociali, non sono in grado di far fronte seriamente a tutto il lavoro che hanno?

Claudia e il difficile percorso per rivedere suo figlio

Mi chiamo Claudia, sono qui da circa un anno e sono nei termini da mesi per un permesso premio. Ho un bambino di quattro anni in affidamento presso i miei genitori, però purtroppo il mio Ser.T. di appartenenza, a due passi dall’Istituto, in dieci mesi non è mai venuto e non ha mai risposto ad una lettera. L’operatrice che mi fa da tramite, l’ho vista in tutto cinque volte, per dieci minuti ogni volta: ora non mi chiama da più di due mesi. Per andare in permesso da mio figlio ho bisogno di una sua relazione, e una dal C.S.S.A., la cui presenza qui manca del tutto. Questo percorso per me è necessario, perché devono far pervenire tutta la documentazione al Centro Affidi per darmi l’o.k.. Mi hanno illusa per mesi con il miraggio di un programma in una comunità, che renderebbe poi meno drammatico il problema del reinserimento finita la carcerazione. Se una persona uscisse infatti con un lavoro e una meta da seguire, non si troverebbe, come accade spesso, in mezzo a una strada e forse non tornerebbe a delinquere.

 

Viviana e il rifiuto della comunità

Mi chiamo Viviana, sono arrivata qui il 3 novembre del ’99, e dopo poco mi hanno concesso gli arresti domiciliari. Passati tre giorni, visto che i miei non se la sentivano di tenermi a casa, è stato deciso per la comunità. Ed ecco che al 21 novembre ero già in comunità. Ho resistito la bellezza di 4 mesi, dopo di che sono andata dai carabinieri e ho preferito tornare in carcere, dato che all’interno di quella struttura adottavano delle regole assai dure, faccio dei piccoli esempi: se ti dimentichi di chiudere un balcone o altre cose te le fanno riaprire e chiudere per una cinquantina di volte, gridando "DEVO ESSERE PRESENTE".

Un giorno mi sono dimenticata di dare da mangiare ai canarini e pesci, la punizione è stata questa: ho dovuto camminare per un giorno intero con un cartello appeso al collo con su scritto "DEVO DARE DA MANGIARE AGLI ANIMALI". A fine serata ci si riunisce e chi ha commesso qualche sbaglio o dimenticanza nel corso della giornata viene richiamato davanti a tutti durante la cena, poi c’è chi fa le classiche spiate perché qualcuno non rispetta le limitazioni come quella di un caffè e 15 sigarette al giorno, e ci sono pure umiliazioni pesanti, ti può anche capitare che operatori ex tossicodipendenti ti feriscano moralmente, con frasi tipo "tossica di merda ", o "disonesta". Così ho deciso che è molto meglio il carcere, almeno qui ti rispettano.