"Il mio nome non scriverlo, mi raccomando. Ho troppa paura"

 

Storia di Vera, prima costretta a prostituirsi in Italia, poi ricacciata in Albania e ora in carcere in Italia

 

Storia raccolta da Laura Caputo, novembre 2003

 

Carcere di Forlì. Vera è arrivata alla Casa Circondariale Femminile di Forlì due mesi fa: indossava l’uniforme bianca e il copricapo necessari alla sua professione e, malgrado i suoi soli ventun anni, aveva lo sguardo duro di chi, della vita, ha già sperimentato troppi aspetti negativi. Con sfida ci aveva detto: "Ho preso un anno e mezzo, ma fra pochi giorni esco". Invece è ancora qui e, con mille timori e ripensamenti, ha accettato di raccontare la sua storia.

"Il mio nome non scriverlo, mi raccomando. Ho troppa paura. Sono albanese, nata e cresciuta a Durazzo. Avevo appena compiuto sedici anni e stavo andando a scuola, prendevo lezioni private di italiano perché l’Italia era il mio sogno. Speravo di venirci un giorno, quando sarei stata grande, e volevo essere pronta.

Una mattina presto, mentre camminavo con i miei libri sotto al braccio, si è fermata una macchina, ne sono scesi tre uomini, mi hanno afferrato in malo modo e mi hanno sbattuto dentro. Ho fatto appena in tempo a vedere la mia roba per terra, poi mi hanno narcotizzata.

Sì, forse ho gridato, ma in quel periodo l’Albania era come il Far West, la gente non ci faceva caso. Mi sono svegliata nella periferia di un’altra città, in una brutta casa diroccata un po’ distante dalle altre. C’erano già tre ragazze: erano state rapite come me e fecero presto a spiegarmi come funzionava. Se obbedivi ciecamente ti lasciavano stare, al minimo dissenso ti riempivano di botte. Ho pianto a lungo. Poi ho capito che non serviva a nulla. Così, quando mi hanno portata al gommone, ho camminato spedita e sono stata zitta.

Siamo sbarcati su una spiaggia vicino a Bari. C’erano alcune auto ad aspettarci. Auto italiane, guidate da italiani, scrivilo. Ci hanno accompagnati a Torino senza intoppi, in un appartamento dove già c’erano altre ragazze che lavoravano.

Sì, sulla strada: e dove sennò? Anche lì violenze, botte e minacce. Avevamo tanta paura che abbiamo preso il passaporto falso che ci hanno fornito, l’abbiamo messo nella borsetta e ci siano adeguate senza fiatare. Dopo qualche mese ci hanno fermate, come succede spesso. Ci hanno portate al Commissariato, identificate e segnalate. Sui miei documenti c’era scritto che avevo ventisei anni: non hanno avuto dubbi, non se ne sono accorti che avevo dieci anni di meno. Già, come mai? Forse erano stanchi.

Dopo questo episodio i nostri… come si chiamano… padroni ci hanno cambiato i passaporti, ci hanno caricate in macchina e ci hanno portate a Genova. Città diversa, stesso appartamento, stessa vita sulla strada, dieci-dodici ore al giorno. E paura, tanta paura.

Era già un anno che durava quando un giorno successe che un cliente mi vide piangere. Mi chiese, si interessò e io gli raccontati tutta la storia. Aveva cambiato faccia, era diventato tutto rosso dalla rabbia. Mi spiegò che era un poliziotto e che era sposato, ma che, se promettevo di dimenticarmi la sua faccia e il suo nome, mi avrebbe aiutata. Ho avuto fiducia. Tanto, che poteva accadermi di peggio? Mi ha portato dalle suore e mi ha lasciata lì. Mi hanno aiutata, certo. Ero incinta, ho abortito. Dopo un po’ di tempo, quando mi sono rimessa, mi hanno rimandata a casa mia.

I miei avevano denunciato il rapimento e mi avevano cercata dappertutto. È scoppiato uno scandalo enorme: altre quaranta ragazze sono andate in tribunale a raccontare una storia simile alla mia e ad accusare le stesse persone. Chissà quante altre non hanno trovato il coraggio di farlo.

I tre sono stati processati e condannati: avevano rubato, estorto, contrabbandato e ucciso. Hanno preso centinaia di anni di carcere.

I nomi? I nomi no, non te li dico, ho ancora paura. I loro amici sono ancora in giro, che ti credi?

Dopo tutto questo, io a casa non ci potevo rimanere: in Albania, se non sei vergine, non ti vuole più nessuno. Sono tornata in Italia appena ho compiuto i diciotto anni. Documenti regolari, lavoro regolare, una casa, un uomo. Stavo anche diventando brava nel mio mestiere: i miei datori di lavoro, gente onesta e gentile, erano come una seconda famiglia. Non desideravo niente altro.

Poi un giorno di due mesi fa è arrivata la polizia e mi ha arrestata: ero stata condannata in contumacia per il passaporto falso che mi avevano sequestrato a Torino cinque anni prima. Capisci? Ho cercato di spiegare cosa era accaduto, ma non mi ascolta nessuno".

Sembra infatti che nessuno sia in grado di "ascoltare" Vera. Per meglio dire, nessuno sembra in grado di mostrare il volto clemente della Giustizia a una giovane donna che ha già sofferto abbastanza. Forse la legge non lo permette, perché oggettivamente una condanna c’è, e chiedere una revisione del processo esige una lunga e burocraticamente complicata trasmissione di atti giuridici albanesi.

Intanto Vera aspetta che le sia concesso l’affidamento con la calma di chi ne ha viste di peggio.

"Se non me lo danno, chiedo l’espulsione. Cos’altro posso fare? Significa che per me, in Italia, una vita normale non è possibile".

Per raccontare questa storia ho usato nomi fittizi e inserito volontariamente alcune imprecisioni: la paura di Vera è reale. Non meglio precisati "mafiosi albanesi" hanno già attentato tre volte alla vita di suo padre, rimasto in Albania. La sua famiglia è stata minacciata e lei è ancora terrorizzata da ciò che le è successo cinque anni fa. Inoltre uno dei tre rapitori è ancora latitante. Si dice che non si trovi più in Europa, ma chissà?