Nadia ci scrive a proposito della sessualità in carcere

 

Di Nadia, luglio 1998

 

Non è la prima volta che mi si chiede una riflessione sull’argomento ed anche questa volta, pur essendo degli amici a chiederla, provo le stesse difficoltà. Non è facile parlarne evitando i luoghi comuni e le banalità, ma anche le generalizzazioni e le semplificazioni.

 

Personalmente non credo che il carcere possa essere luogo adatto all’espressione della sessualità degli individui, nemmeno qualora ad essa si voglia dare la valenza più ampia dell’affettività. Ogni forma possibile di espressione su questo terreno diventa un ripiego, una sublimazione e pertanto è destinata a generare non soddisfazione o piacere, come dovrebbe, ma frustrazione e paure.

Credo invece debba essere ascoltato chiunque sente di poter raccontare la sua storia al riguardo: le generalizzazioni in questo caso non riescono a comprendere le esigenze individuali.

Se parto dalla mia esperienza devo riconoscere che il molto carcere si è tradotto in molte frustrazioni vissute a volte con consapevolezza a volte senza consapevolezza, con dei grovigli e dei problemi di cui solo il tempo mi ha restituito i riflessi, le conseguenze, la comprensione.

A distanza di anni sono convinta di portare ancora i segni di questa lunga deprivazione.

Eppure mi sono arrangiata in varie forme, costruendo relazioni affettive di ogni genere per "sostituire" quelle che si erano lacerate con l’arresto e la separazione, passando attraverso "le carceri con le tendine rosa", sviluppando una fantasia così ricca che in certi momenti ha potuto sostituire la realtà, ma con la quale ancora adesso, talvolta, devo fare i conti, per non sentirmi una adolescente di cinquanta anni!

Ecco io preferisco partire da questa consapevolezza, da questa durezza per arrivare a comprendere o a sollecitare tutte le diverse soluzioni possibili: stanze dell’amore, per chi ha pene lunghe, permessi per chi è nei termini, sostituzione del carcere con forme di pena che consentono di mantenere i rapporti affettivi e le relazioni che sono parte integrante di ciascuno di noi.

Dura consapevolezza in quanto tutte queste forme, anche le più ampie e le più permissive, limitando tempi e territori, invadendo con forza le sfere più intime della persona, finiscono per distruggere parti fondamentali di noi, per dare sensi diversi alle storie costruite, finiscono per generare insicurezza e paura. Il problema è allora "cos’è meno peggio", come ci si può arrangiare meglio in queste condizioni comunque lesive dell’individualità.

Va bene tutto basta sapere che di aggiustamenti sempre si tratta. Un’istituzione totale, quale è il carcere, non è mai a misura degli individui che la "popolano" (di tutti, anche di quelli che ci lavorano) è rigida e piega le esigenze degli individui ai suoi spazi, ai suoi tempi, alle sue regole, alle sue forme di esistenza.

Per scongiurarne le conseguenze bisognerebbe liberarsi della necessità del carcere.