Mi chiamo Lory e sono nigeriana

 

Testimonianza tratta da Progetto – Sermig Torino, gennaio 2004

 

Siamo in 5 tra fratelli e sorelle e io sono la più grande. Facevo la parrucchiera e i soldi non bastavano mai: non bastavano per l’affitto, non bastavano per la retta della scuola, a volte non bastavano per mangiare tutti. Il sogno di quasi tutti i ragazzi e le ragazze è quello di partire per l’America o per l’Europa per essere felici, per guadagnare un po’ di soldi e aiutare la propria famiglia. Un giorno nel negozio in cui lavoravo è arrivata un signora che mi ha detto: “Sei giovane cosa fai qui? Perché non vai in Italia? Ti aiuto io, conosco un ristorante in cui potresti andare a fare la cameriera. Ti anticipo i soldi per il viaggio aereo e poi tu me li restituisci col primo stipendio”. Ne ho parlato a casa ed è sembrata a tutti una cosa buona. Ho viaggiato per 7 mesi col fratello della signora che avevo conosciuto, all’inizio in macchina, poi ho fatto tanti chilometri a piedi e poi in nave, poi ancora a piedi. Una volta arrivata in Italia, a Torino, mi ha portata a casa di una donna e mi ha lasciata lì, con altre ragazze che erano appena arrivate. In questo appartamento ho assistito ad un via vai di donne nigeriane: entravano, prendevano una o due ragazze e poi se ne andavano. Poi è arrivato il mio turno: si è avvicinata una donna poco più grande di me e mi ha portato a casa sua. Mi aveva comprato ma io ancora non lo capivo. Il giorno seguente mi ha dato dei vestiti da indossare per il lavoro: un costume da bagno, una gonna corta e, visto che era freddo, un cappotto. Abbiamo preso l’automobile e mi ha portato sulla strada dicendomi: “Ho pagato 100 milioni per farti arrivare fin qui e ora me li devi restituire tutti e in breve tempo e l’unico modo per fare tanti soldi in poco tempo è questo qui. Se provi a scappare o a parlare con la polizia faccio uccidere i tuoi fratelli”. Di giorno dormivo facendo i turni con le altre ragazze per potermi coricare su un materasso steso per terra. Nell’appartamento della “mamam” eravamo in 10: in una stanza 8 ragazze, nell’altra lei con il suo uomo. I soldi che guadagnavo dovevo consegnarli tutti, ma non tutti venivano conteggiati per estinguere il debito. Una parte veniva tolta per l’affitto dell’appartamento in cui stavo, una parte per il cibo, una parte per pagare il posto sulla strada, che a sua volta la mamam doveva pagare a chi stava “sopra” di lei. In mezzo allo schifo, con la voglia di uccidere e la voglia di morire ho lavorato su quella maledetta strada con il freddo nelle ossa e con la paura di chi incontravo. Ho preso anche botte e insulti. Ero lì insieme a ragazze nigeriane e rumene, albanesi e moldave, maggiorenni e non che, come me, erano venute in Italia perché sognavano di essere felici.