Due anni e quattro mesi di “detenzione senza sbarre”

 

Il bilancio di due anni a casa, da detenuta

 

di Giuliana, gennaio 2004

 

La legge sulle detenute madri ha poco più di due anni di vita. La testimonianza che abbiamo ricevuto è di una donna, che è stata fra le prime (e poche) a tornare a casa dal carcere della Giudecca grazie a questa legge. Qualcuno crede che stare in detenzione domiciliare sia una vacanza, una non-pena, ma non è affatto così, e lo spiega bene Giuliana quando dice che la sua vita oggi “è come avere le chiavi dei cancelli ma non poterle usare”.  I cancelli sono ancora chiusi, per lei, anche se il luogo è migliore e ci sono i suoi figli con lei, e questo è importante, ma non può far dimenticare che sempre di pena si tratta, e quasi sempre vissuta in una grande solitudine interiore. Sono uscita dal carcere, penso tra le prime, beneficiando della detenzione domiciliare speciale per le detenute madri, grazie al fatto che rientravo in un nucleo familiare “socialmente normale”, ho un’abitazione e posso inoltre contare sul sostegno economico dei  vari enti provinciali preposti. Chi sono le donne con bambini che dovrebbero fruire di tale beneficio? E che prospettive hanno? Tornano a casa, e cosa trovano? Dei figli, dei genitori, alcune un marito, se non è successo che si siano fatte la galera per causa sua, e lì che fanno? Le serve come minimo, poi spesso diventano la valvola di sfogo dei vari membri del gruppo familiare… tanto per loro i fatti parlano da soli… devono solo pagare. Bene che gli vada si trovano un “lavoretto” tipo fare le pulizie da qualche parte, non vedo altre prospettive. Eppure dico ugualmente: per  fortuna che c’è questo beneficio, se così non fosse avrei dovuto rinunciare ai miei figli. Perché è vero che in teoria si possono ricucire tutti gli strappi, ma bisogna poi vedere i segni che restano… Troppo tempo avrei dovuto stare via, per sperare di ritornare poi senza traumi. Ora invece, anche se con grossi limiti perché la nostra vita si svolge prevalentemente in casa, io ci sono, sono presente. L’essere in detenzione domiciliare richiede una grande autodisciplina. Dovendo trascorrere un periodo relativamente lungo in questa condizione, e avendo inoltre responsabilità verso i miei figli, fin dall’inizio ho cominciato ad attivarmi per ritrovare la mia dimensione nel mondo esterno. Sembra semplice detto così, ma è un processo complesso… È proprio vero, espiare una pena è soffrire, anche dopo, anche quando la pena continua a casa. A me riesce difficile raccontare,  testimoniare un’esperienza che, anche se dolorosa, deve diventare un bagaglio nel percorso di consapevolezza che è la  vita, ma cercherò di farlo. Ora sono con i miei figli, sono felice di esserlo, però di fronte a loro con me stessa devo riconoscere la mia sconsideratezza, rimettere in discussione tutto il mio essere e cercare di superare i sensi di colpa e la vergogna, puntando a una visione di vita futura che vorrei diventasse una rielaborazione positiva delle mie esperienze. È così che spero di riuscire a liberarmi del tormento interiore che vivo. Ho seguito l’iter della legge sulle detenute madri dal suo nascere e ora eccomi qui. Sono mancata un anno e mezzo, e ora sono più di due anni che ci sono di nuovo, e da pochi mesi siamo nuovamente solo noi, io e i miei figli, senza altri famigliari. Per i due grandi è ritrovare una dimensione che avevamo, e per i due piccoli scoprirla, in quanto troppo piccoli per ricordare di quando eravamo insieme. Ci sono momenti in cui mi dico: sì sono presente, sono con loro, ma è sufficiente questo? Loro sono costretti a molte rinunce, molte esperienze gli sono negate. Non intendo grandi cose, ma penso all’andare in piscina, a fare una passeggiata in uno splendido pomeriggio autunnale, ma anche solo l’andare insieme in un supermercato, in un centro commerciale. Fortunatamente queste esperienze i miei figli le fanno, posso contare su una sorella che mi sostituisce nelle cose che io non posso fare, ma anche lei ha la sua vita. La detenzione domiciliare è impegnativa, richiede capacità organizzativa e una forte motivazione per sopportare un ménage alienante e nel mio caso una solitudine estrema. Io mi ritengo una madre responsabile, apprezzo la compagnia dei miei figli, ma non mi basta comunicare solo con loro.

Servono grandi capacità organizzative per gestire una vita quotidiana complicata

Posso uscire giornalmente un’ora e mezzo, in quel tempo devo sbrigare tutto ciò che concerne la mia famiglia numerosa. Come ho risolto questo? Programmo il tempo settimanalmente:

un giorno è dedicato alla spesa. In questo caso devo aver programmato già, almeno in linea di massima, tutto ciò che cucinerò quotidianamente per tutta la settimana, nessun errore o dimenticanza, ma questa capacità di programmazione ho imparato a esercitarla già in carcere con la spesa da fare una volta a settimana al sopravvitto;

un giorno a settimana l’uscita si accavalla con il lavoro ed è persa;

il fine settimana ci sono i bambini ed è l’unica possibilità di fare un giretto, o meglio io tento di proporre loro quelle cose così regolari tipo la passeggiata la domenica mattina… con il risultato che esco da sola con il cane, che così almeno lui abbia fatto il giretto…

L’andare per uffici poi è da curare nei dettagli, ora riesco ad andare in due uffici in un’unica uscita! Ci sono poi tutti gli extra che accadono nel vivere e che richiedono l’autorizzazione del magistrato di sorveglianza. In merito a questo devo affermare che il magistrato mi ha sempre concesso i permessi relativi a necessità legate all’accudire i figli, vi è però da parte mia l’impegno a non eccedere nelle richieste, anzi a limitarle al massimo. Il fatto è che i figli sono quattro, ci sono settimane che sono spesso fuori ed è come una vita normale, ma non devo non posso dimenticare che invece così non è… Se la gestione delle cose pratiche mi richiede una programmazione settimanale, quella dei bambini è stagionale. Questo perché devo richiedere le autorizzazioni per tutto. Di nuovo programmare corsi, orari, produrre documentazione, consegnare, aspettare la risposta e poi, forse, si fa. I miei figli devono vivere una realtà quotidiana normale come tutti e io faccio in modo che così sia, però sono costretta a circoscrivere e perciò limitare le possibilità.

Una vita “da documentare” giorno per giorno

Mi è capitato di dover andare dal dentista, stavo già soffrendo terribilmente, ho fissato l’appuntamento per telefono, nelle condizioni in cui ero mi avrebbe visitato in giornata, ma ho spiegato vagamente che mi serviva una attestazione dell’appuntamento, che il dentista mi ha fissato perciò dopo quattro giorni, e imbottita di antidolorifici mi sono recata all’ambulatorio per ritirare la dichiarazione da allegare all’istanza preparata e inviarla al magistrato di sorveglianza tramite questura. Ho avuto la prima autorizzazione e poi quelle seguenti per continuare ad andare a curarmi i denti, allegando sempre le dichiarazioni che il dentista mi ha scritto di suo pugno… come ha tenuto a farmi notare, rincuorandomi anche in qualche modo, perché ho percepito in lui una certa comprensione. Trascorso non molto tempo dopo il mio rientro a casa, ho notato che il mio terzo figlio manifestava dei comportamenti che era necessario prendere in considerazione con attenzione. Credo di avere sufficiente competenza per riuscire a riconoscere una situazione di disagio e la necessità di un intervento, che io stessa poi ho proposto, decidendo di far fare al bambino musicoterapia. Sono contenta della scelta fatta, quasi per caso, grazie al fatto che in quel momento stavo svolgendo un tirocinio presso una struttura che ospita ragazzi in situazione di disagio familiare e sociale. Lì c’è pure un centro terapeutico che offre servizi anche all’esterno, c’è lo psicologo, naturalmente io gli ho parlato e lui ha visto i bambini.  Però il far fare la musicoterapica ai miei due figli più piccoli, perché gli fa bene, perché ho già potuto vedere dei risultati, rimane una scelta mia, lo psicologo non si prenderà mai la responsabilità di scrivermi una dichiarazione, e il magistrato mi ha sì permesso di accompagnare i bambini al centro, però mi ha chiesto poi una motivazione scritta. Ora sono nei termini per l’affidamento ai servizi sociali: aspetto con ansia che venga fissata la camera di consiglio, comincia ad essere troppo stretto questo beneficio della detenzione domiciliare. Stando a casa non sono davvero “fuori”, sono come dietro ad un vetro, vedo ma sono separata. Deve esserci una  barriera e tocca a chi deve starci dietro sapere di doverci stare. Quando si gode di un beneficio si hanno le chiavi dei cancelli ma non si devono usare. Non è facile, sono stanca, il ménage quotidiano è dettagliato e scandito fino all’ossessione. Vorrei davvero reinserirmi nel mondo del lavoro, ho un progetto, mi sto preparando per questo, frequento una scuola serale, che è pure una boccata d’aria fresca, ma sono in dubbio: riuscirò ad inserirmi potendo esprimere le mie capacità e potenzialità o questa macchia del carcere mi pregiudicherà il futuro per sempre?