Una donna spezzata

 

Come può una persona semilibera costruire relazioni del tutto nuove se non le è data l’opportunità di vivere una vita “normale”?

 

di Giulia, maggio 2004

 

Uno dei problemi che nascono quando una persona diventa semilibera è quello di come far fronte alle difficoltà che la vita “reale” esterna pone all’uscita dal carcere. Vivendo in reclusione completa per alcuni anni, ci si fa un’idea del fuori che non è quasi mai corrispondente al vero. Nel senso che, quando si entra in carcere (non parlo di quando si entra per due – tre – sei mesi, ma comunque anche lì quando si esce le cose non sono certamente uguali a quando le hai lasciate) si lascia fuori una realtà, e se ne ritrova un’altra sconosciuta, e questo accade a livello dei rapporti, familiari e non, a livello lavorativo, a livello di rapporto-confronto su ogni cosa, persino sulla moneta e sui prezzi – se parliamo per esempio di persone che sono state tratte in arresto e condannate prima che entrasse in vigore l’euro. Partiamo allora dal presupposto che il soggetto “semilibero” vive una condizione di equilibrio, o non equilibrio sarebbe meglio dire, schizofrenico, per motivi che ben conosciamo: non si è né carne né pesce, né ristretto totale né libero totale. E dunque l’innato bisogno di identificazione, che fa parte di ogni essere umano, non essendo ben definito con chi identificarsi, finisce per scatenare questa specie di schizofrenia. Il fatto di trovarsi a confrontarsi con una realtà sconosciuta produce infatti un vero caos interiore. Ma andiamo per passi: inizialmente l’euforia dell’essere fuori, seppur con condizionamenti, è una bella sensazione: non importa se devi per forza percorrere quel tratto di strada anziché sceglierla tu per raggiungere il posto di lavoro - non importa se non puoi andare a mangiare in quel dato posto piuttosto che in quello più vicino a dove svolgi la tua attività - non importa se hai i minuti contati al rientro e non puoi fare una passeggiata - importa che sei fuori… ma… ma… ma…  tutto questo a mano a mano che prosegui la semilibertà e la tua pena scivola come è normale verso il termine, non può più essere quel “non importa”. Perché? perché una persona ha anche bisogno di relazioni interpersonali che esulano dall’attività lavorativa. Tutte le persone hanno la loro vita, composta anche da questo tipo di relazioni. Molti di noi non vivevano nella città in cui scontano la pena o in cui beneficiano della semilibertà. La famiglia poi per chi ce l’ha vive da un’altra parte, per chi non ce l’ha si tratta di costruire relazioni del tutto nuove, e qui sta il casino - e il problema. Un’emotività che per anni non è cresciuta, se non a ritroso. Come può una persona costruire relazioni del tutto nuove se non le è data l’opportunità di vivere una vita “normale”? Forse dopo un periodo trascorso in semilibertà la misura alternativa dovrebbe diventare automaticamente l’affidamento, e questo avvicinerebbe la persona alla vita normale,  in maniera che il giorno che terminerà la pena detentiva non si troverà così sprovveduta, persa di fronte alla realtà. Una realtà che, vorrei ricordarlo ancora una volta, non sarà certamente quella lasciata  all’ingresso in carcere, né quella che si è ricordata per anni, né quella che si immaginava nel ricordo. Abbiamo parlato di equilibrio schizofrenico, ma si deve anche parlare di inadeguatezza. La persona semilibera vive un sentimento di inadeguatezza, e questo reca insicurezza, e l’insicurezza non è mai stata alleata della costruzione di una vita: spesso poi non porta all’azione, ma al rimandare sempre qualunque scelta, perché ci si sente non all’altezza – inadeguati appunto. E questo vale per tutti i campi, dall’emotivo al razionale, ma proprio l’affidarsi a una eccessiva razionalità è la conseguenza dell’insicurezza emotiva, o ancora peggio, può essere quello che si ostenta per non apparire deboli. Chi ha un equilibrio emotivo è abbastanza forte psichicamente, riesce a realizzare cose concrete, perché è quasi scontato che una serenità interiore sia alleata di una “fluidità di vita”. Fluidità e serenità che non hanno in molti anche fuori, qualcuno dirà. Vero. Il fatto è che per le persone che per anni vivono in cattività come noi detenuti nel caso specifico questo equilibrio emotivo, che per alcuni anche prima potrà essere stato precario, di fatto in carcere e a causa del carcere si è sfilacciato, deteriorato, frammentato, e per rimetterlo in sesto certamente non basta solo volerlo. Di fronte a una emotività che, a causa della negazione di qualsiasi possibilità di esprimerla, perché compressa, controllata e autocontrollata per anni, non è cresciuta se non a ritroso, e cioè relegata a una fase infantile – l’individuo si trova nella realtà della vita indifeso e dunque nel caos e nell’insicurezza. Questo non è certamente il fine di una detenzione, anzi pare il contrario: il carcere interviene sulle, se vogliamo minime, sicurezze, sugli equilibri che già c’erano, li distrugge e pretende di sfornare uomini migliori – che non siano più attori attivi dell’insicurezza sociale. Non è in questo modo che dal carcere possono uscire persone mature e “cresciute”: bisogna allora pensare a delle alternative vere, a una gradualità di un percorso che non freni la crescita interiore delle persone, ma che anzi permetta loro di misurarsi con una vita non artificiale: un percorso che preveda tutte le possibilità date dalle misure alternative, a partire da quella un po’ anomala che è la concessione dell’articolo 21 per il lavoro esterno, alla semilibertà, all’affidamento, che dovrebbe però intervenire presto, quando una persona ha dimostrato di sapersi gestire e ha bisogno solo di un po’ di “normalità”.