"Sono una ragazza che di entrate e uscite

dal carcere ne ha vissute molte"

 

La solitudine che può attanagliare alla gola durante il primo giorno di libertà

 

Dalla redazione femminile di Microcosmo, il giornale della Casa Circondariale di Verona, ci arriva "un resoconto crudo di una situazione ai margini". La situazione di una donna la cui vita è scandita dal carcere, dentro e fuori, dentro e fuori. La sensazione che trasmette questa testimonianza è l’angoscia: non c’è gioia nel finire la pena, ma solo paura di trovarsi soli.

In giorni di tristi silenzi sull’indulto, con giochi continui al ribasso, ecco l’unico tema serio che meriterebbe davvero più attenzione: quello di un investimento per dare un’opportunità di vita diversa a chi ha finito la pena.

 

Di A. P., luglio 2003

 

Sono una ragazza che di entrate e uscite dal carcere ne ha vissute molte, e ogni volta in maniera diversa. Ricordo il primo ingresso, un incubo. Si parla ancora del vecchio Campone (precedente sede del carcere inserito in una struttura austriaca) ed è stato proprio lì che sono andata; mi hanno accolta due suore che allora vivevano dentro l’Istituto.

Ho seguito la prassi di routine con la "perquisa", ma la vera accoglienza l’ho avuta da amiche che prima di allora avevo visto solo in stato di libertà: mi sembrava come se fossi andata a trovarle. La permanenza è durata tre anni, visitando anche altri istituti: dal "lager" di Belluno al Grand Hotel della Giudecca.

Sono uscita con l’ultimo indulto alle 18 di una vigilia di Natale. Andando a casa mi è preso un attacco di panico. Era buio come nelle sere d’inverno e ricordo i fari delle macchine che sembrava mi venissero addosso. Fino ad allora avevo vissuto in un posto "protetto" ed ora dovevo attraversare una strada: quello che viene fatto automaticamente in una situazione ordinaria per me rappresentava una difficoltà.

Anche dentro casa tutto mi sembrava strano, in particolare i piatti di ceramica pesanti ed i bicchieri in vetro; per tutto quel tempo trascorso in carcere avevo avuto contatto solo con oggetti in plastica o carta, senza pericolo di romperli o danneggiarli, con un peso diverso da quelli in uso nelle case, e con sensazioni al tatto tali per cui mi sorprendevo nell’usare materiali di spessore, temperature e consistenze non più consueti. Anche il territorio era cambiato, dei campi avevano ceduto il posto a centri commerciali: questo è l’aspetto visivo della libertà.

L’ultima volta che sono stata in carcere è durata due anni. Quando sono uscita mi ero ormai abituata e non facevo più attenzione a nuove case costruite o altri cambiamenti tecnologici.

La solitudine, come una morsa, mi attanagliava alla gola per l’intero primo giorno di libertà. Tutte le amicizie che avevano riempito la mia vita in quegli anni erano rimaste in carcere.

Ero sola. Mi mancava da morire lo scambio di una parola, anche la confusione e gli strilli. Il silenzio mi faceva sempre più pensare alla mia solitudine. Ho cercato lavoro ma avevo la sorveglianza e un brutto timbro dietro la carta d’identità: "polizia anticrimine"; ma chi mi poteva assumere?! Sono ritornata di nuovo in carcere e mi dico: "Altro giro, altro regalo", e avanti così… fino a quando?