Una strada tutta in salita: dalla carcerazione alla maternità

 

 Al convegno “Dal carcere al reinserimento sociale, alle vittime del reato, all’educazione alla legalità” è stata inviata questa testimonianza che la redazione ha tenuto di pubblicare come forte segno di riscatto dopo un’esperienza detentiva

 

di Patrizia, settembre 2004

 

Mi chiamo Patrizia e sono una delle ex ragazze del Pozzale, la Casa Circondariale femminile a custodia attenuata di Empoli. Ho conosciuto il carcere all’età di 22 anni, per reati connessi alla tossicodipendenza. Una carcerazione durata sei lunghi anni. Anni in cui sono cresciuta con rabbia e arroganza, lasciando tutto in mano all’istinto. Anni in cui non ho affrontato la mia tossicodipendenza, visti i pochi strumenti che le carceri ordinarie mettono a disposizione. Dopo questa triste parentesi, mi sono ritrovata a 27 anni senza un progetto di reinserimento. Sono uscita per fine pena, senza un’indicazione, un aiuto, un progetto. Sicuramente per debolezza, per poca volontà, per vigliaccheria, non sono riuscita a dare una svolta alla mia vita e dopo pochi mesi, sono rientrata in carcere per quasi altri quattro anni. Ho conosciuto carceri del nord, del centro, del sud dell’Italia e in tutta franchezza, posso affermare che non è facile lavorare su se stessi. La situazione all’interno delle carceri è sempre più critica. Sovraffollamento, suicidi, pochi spazi, poco personale, poche attività interdisciplinari, molti stranieri. Ambienti dove, a mio avviso, è difficile cominciare una vera “ristrutturazione” della persona. Un triste quadro, che purtroppo sembra non migliorare. Un quadro dove è necessario il sostegno del volontariato, delle associazioni, delle Istituzioni. Un sostegno che personalmente, laddove mi è stato possibile, è stato presente. E in questa lunga “parentesi” di detenzione, qualcosa di positivo è successo. È paradossale, ma è proprio dentro il carcere di Empoli che qualcosa di positivo è successo. Proprio lì, al Pozzale, ho imparato a conoscere la mia tossicodipendenza, i miei limiti, il saper ascoltare gli altri, la paura del cambiamento, l’accettazione delle osservazioni, la difesa senza l’attacco istintivo. Insieme all’equipe di osservazione trattamentale, ho percorso una strada dura, faticosa, “tutta in salita”. Una strada che, nel mio caso, si è conclusa in una comunità terapeutica in Liguria, a Varazze. Là, tutto ciò che avevo elaborato nella custodia attenuata mi è servito per continuare il cammino, liberandomi, finalmente, di quei muri che fanno parte della vita in carcere e che all’apparenza, ma solo in apparenza, sembra di non avere. Oggi “assaporo”i risultati ed è con infinito piacere e profonda consapevolezza, che intervengo a questo importante Convegno regionale “al carcere al reinserimento sociale, alle vittime del reato, all’educazione alla legalità”, dopo quattro anni di reinserimento nella società. Ho seguito con forza e fiducia il progetto che per me avevo pensato e strutturato, viste le mie capacità. Una scommessa che è diventata, nel tempo, il mio lavoro quotidiano. Brevemente, nella custodia attenuata di Empoli nel’98 nacque un giornale, Ragazze fuori. Pochi fogli. Poche le pretese. Un solo obiettivo: diventare un ponte di parole vere e sincere con l’esterno. Pochi fogli che volevano far conoscere il cuore di quelle ragazze al di là di quelle mura. E vista la passione che ognuna di noi metteva nel proprio pezzo, nel proprio racconto, nacque una proposta di lavoro esterno, nel Comune di Empoli, per due ragazze, tra cui io. Il nostro compito era occuparci della redazione esterna del giornale del carcere e scrivere il giornale della amministrazione comunale, Empoli, nato dalle nostre capacità. Con i dovuti timori e le dovute perplessità, quella redazione senza pretese è l’attuale Ufficio stampa del Comune di Empoli, dove mi reco ogni mattina a svolgere il mio lavoro, insieme a un giornalista professionista. Scrivo comunicati stampa, mi occupo della rassegna stampa degli amministratori, convoco le conferenze stampa, vivo la vita del palazzo comunale con diligenza. “Una scommessa”, appunto. Un salto che poteva anche essere un salto nel buio, in cui l’istituzione, però, ha creduto, ha messo alla prova, ha scelto di dare, davvero, una possibilità di riscatto, di vita. E così in questa strada, che all’inizio sembrava interminabile e che è stata ed è una crescita continua di valori, di saperi, è arrivato anche l’amore, quel sentimento dimenticato, svanito nel grigiore di quei luoghi e la nascita, pensate, di un bellissimo figlio, Emanuele, che oggi ha nove mesi. Sono diventata donna, moglie e mamma in pochissimo tempo. Tutte le persone che hanno seguito il mio cammino, sono le persone a me più care: dal personale del carcere, ai volontari, ai colleghi del Comune. Emanuele è la risposta più grande che ho dato alla mia famiglia, che non hai mai perso la speranza di ritrovare la propria figlia. E oggi che sono una mamma, posso capire il profondo dolore dei miei familiari che nulla hanno potuto contro la tossicodipendenza. Non avrei mai pensato di raggiungere degli obiettivi. E invece, dopo la carcerazione, dopo la maternità, sono anche diventata “pubblicista”: sono iscritta all’Albo dei giornalisti della Toscana e l’Ente presso il quale lavoro, mi ha dato la possibilità di frequentare un corso di formazione per personale negli Uffici stampa. Un cambiamento totale, quindi, che ho voluto, cercato, quando ho capito che cosa significava affidarsi agli altri. Mi sono salvata. Ho saputo scegliere e cogliere l’aiuto di chi ha saputo far bene il proprio lavoro, mettendomi alla prova, offrendomi gli strumenti adatti. Restando in silenzio, a guardare quella che ero, come mi comportavo. E se oggi ho ancora un contratto di lavoro, significa che ho delle capacità. Vivo la mia favola, con le preoccupazioni della quotidianità, ma con un sorriso in più che ogni mattina dedico al mio piccolo Emanuele e se dovessi tornare indietro, non tornerei nel buio delle sostanze, ma andrei a cercare quella luce che ho trovato nella città di Empoli, dove ho messo le mie radici. La mia testimonianza sarà una tra le tante che ce l’hanno fatta. Spero solo che il mio contributo possa essere un piccolo segno di successo per tutti voi che lavorate per “noi”. Un segno, che la tossicodipendenza si può sconfiggere. Un segno, per ricordare che senza le strutture adatte, le Istituzioni presenti, le associazioni, è più difficile riprendere a vivere dopo tanti anni di carcere. Un segno, per dire che un’altra vita è possibile.