La tossicodipendenza, il carcere, la maternità

 

Patrizia Tellini è stata, nel carcere di Empoli, una delle redattrici della rivista "Ragazze Fuori", e grazie a questa esperienza ha trovato lavoro, un lavoro interessante e "di qualità", al Comune di Empoli, all’Ufficio Stampa. Quando parliamo di "ricomincianti", di tutti quelli che dopo il carcere cercano di ricostruirsi una vita decente, spesso incontriamo persone che faticano a stare a galla in un mare di ostacoli. Patrizia, anche lei, ha faticato molto, ma ora può dire di avere costruito davvero qualcosa: la fine di anni di tossicodipendenza, un compagno, un figlio in arrivo, un rapporto recuperato con i genitori. E naturalmente quel lavoro, che è anche frutto della sua esperienza da "giornalista" in carcere.

 

Di Patrizia Tellini, settembre 2003

 

Quando si racconta la propria esperienza di vita, la propria storia, grazie a strumenti come i giornali del carcere, che permettono di farsi conoscere all’esterno, quell’esterno che non sempre crede nel recupero e nella riabilitazione dell’individuo, accade anche di raccontare il momento più importante al quale tanto hai pensato, ma del quale hai sempre avuto paura: l’attesa di un figlio.

 

Il carcere dopo tanti anni riduce tutte quelle sensazioni e stimoli, che normalmente si vivono all’interno di una coppia. È vero che dietro le mura la mancanza degli atti d’amore, delle coccole, delle attenzioni è immensa, ma poi finisce che ti abitui e con il passar del tempo non ti domandi più come sarà la prima notte d’amore quando uscirai. Quando i cancelli si aprono, vorresti trovare la persona della tua vita, però i dolori del passato, i ricordi degli amori perduti sono lì e non sempre ti consentono di fidarti subito. Così inizia la ricerca. I momenti di solitudine non si contano più.

Non conosci nessuno, nel nuovo paese che ti ha dato l’opportunità di riscatto, e vorresti qualcuno accanto. Ma sei felice lo stesso, ci vuole pazienza e al mattino è bello e gratificante alzarsi per andare a lavorare con consapevolezza e volontà, anche se non si è trovato l’uomo giusto. Giorno dopo giorno cresci insieme a persone che non sanno della vita in carcere, che imparano a conoscerti, che non sanno che cosa significa essere privati della propria libertà, che ti guardano magari pensando che forse ce la farai o che sarai invece più probabilmente l’ennesimo fallimento della società. Qualcuno, però, non la pensa così. Ti dà quella fiducia che ti manca da anni. Resta lì e ti osserva da lontano. All’inizio non avrai tutta quella professionalità delle persone che lavorano da più di trenta anni in quel luogo, ma pian piano qualcosa riesci a fare anche tu ed è lì che da una semplice scommessa nasce un grande progetto di vita. Da quell’inizio di solitudine sono trascorsi tre anni. Anni dove ho imparato a vivere insieme agli altri. Oggi sono moglie, donna e futura mamma. Sì, una mamma.

 

Mia madre, che ho fatto piangere per più di quindici anni

Mamma, colei che dà vita. Colei che morirebbe per riavere sana sua figlia. Colei che ho fatto piangere per più di quindici anni, che ha combattuto invano una battaglia umana per il mio recupero sentendosi sconfitta, annientata e che oggi piange, incredula, nel vedermi finalmente rivivere la normalità. Mia madre non ha mai avuto amici, né amiche. La mia famiglia ha vissuto il mio "reato", la mia storia in silenzio e con un po’ di vergogna. Hanno provato a chiedere aiuto in quei lunghi anni, ma non sempre con successo. Alla fine anche un genitore si ritrova da solo davanti allo sconosciuto mondo del carcere.

Con mia madre ho sempre avuto un rapporto di conflittualità. Gelosa fin da piccola, sentivo il bisogno di averla tutta per me, ma senza parlare con lei dei veri cambiamenti che stavano accadendo dentro di me. Per questo la mia famiglia si è trovata di fronte il fatto compiuto: la tossicodipendenza prima, il carcere dopo. Non avrebbero mai immaginato di vedermi dentro a un carcere. Non avrebbero mai immaginato di entrare in un carcere; di essere perquisiti, di conoscere il personale in divisa. Con mia madre ho vissuto momenti drammatici della tossicodipendenza, che ricordiamo, insieme, "in silenzio" guardandoci negli occhi, pensando che a partire da essi è doveroso continuare a costruire il futuro. Sono mancata troppi anni dalla mia famiglia. Quindici per l’esattezza. Un periodo veramente lungo, e oggi che sto creando la mia famiglia, vorremmo essere tutti più vicini e recuperare in qualche modo quel tempo "lontano". I miei genitori mi stanno aiutando molto in questo momento e vorrebbero fare molto di più.

Un figlio che torna alla vita dopo un lungo periodo di ombre, è una gioia infinita. Quando leggo di genitori disperati, che non sanno più a chi rivolgersi per essere aiutati, ricordo quello che hanno tentato di fare i miei senza ottenere nulla, sperando solo che un arresto potesse essere l’unica soluzione. Adesso il nostro è un rapporto di scambio, maturo, sincero, e se ogni tanto mia madre piange ancora per me, lo fa per la gioia di riavermi figlia, e futura mamma.

Accanto a lei, mio padre. Un padre davvero. Forse non sempre presente a casa per ragioni di lavoro, ma che ci ha dato tutto quello che ha potuto, con la convinzione che non fosse mai abbastanza. Un padre che con profonda commozione mi ha accompagnato all’altare il 2 agosto scorso. In quel piccolo tratto di strada all’interno della chiesa, camminavamo piano, ognuno pensando ai suoi ruoli, a quello che il presente ci stava dando: quel nipotino che anche lui non pensava arrivasse mai. Quando mi ha lasciata al mio futuro marito, ho capito che la mia vita stava davvero cambiando per sempre e le lacrime hanno attraversato il mio viso.

 

Ti additano come persona che resterà sempre ai margini della società

La tossicodipendenza non si sconfigge con le parole, con le repressioni, con le chiusure. È un male difficile da debellare, soprattutto se non si ha più fiducia in noi stessi e soprattutto se gli altri continuano a non averne, nonostante il grande lavoro fatto per recuperare la nostra esistenza, e ad additarti come persona che resterà sempre ai margini della società. Il tossicodipendente fa paura. È un delinquente, non può essere capace di fare delle cose, di lavorare in posti di stima e affidabilità, e quando ci riesce da "pochi" viene riconosciuto e gratificato. Ma lui deve solo andare avanti. Si è salvato la vita con fatica ed è questo quello che conta. Adesso non vuole più sbagliare ed è lì che il resto del mondo deve considerarlo come una persona "uguale" agli altri.

Un figlio cade nel baratro della droga per tanti motivi. A monte c’è sempre quel dialogo che non dovremmo perdere con i nostri genitori, ma talvolta ci sono anche esperienze, come quelle cantate dai Gemelli Diversi nella canzone "Mary", che possono spingerti a odiare la vita, l’essere umano in generale, fino a cadere in queste storie che sono solo tragedie per tutti.

Ogni sostanza ha la sua "bellezza". Non è ridicolo, è vero. Ti uccide, ma quando la usi non lo senti, non ti vedi, non ci pensi. In quel momento… tu stai bene. Per questo i giovani di oggi non si sentono "tossicodipendenti" perché usano pasticche, acidi, e quanti altri miscugli sintetici, che a loro avviso non danno assuefazione, né astinenza fisica, sentendosi in dovere di giudicare l’eroinomane che nonostante anche i 40 anni è sempre lì, fuori dalla porta del Ser.T. ad attendere l’orario della somministrazione del metadone.

Credo che questo modo di agire sia una pericolosa leggerezza. Gli effetti delle droghe sintetiche durano negli anni, e rimanere "assente" di fronte alla realtà è una conseguenza quasi normale.

Il carcere, la tossicodipendenza, la criminalità, essere omosessuale, sembrano temi che a lungo andare stancano, si ripetono, perché si pensa di sapere tutto e ci regaliamo la libertà di occuparci di altre cose. Ho visto persone che quando escono articoli sulla droga, sulla situazione della carceri, passano alla pagina successiva. Non guardano, non si interessano, passano oltre. Sottovalutano, non percepiscono la sofferenza di un essere umano. Ma quelle persone, che hanno sbagliato, sono cittadini del mondo. Sono uomini, donne, padri, madri e hanno bisogno di strumenti per cambiare la loro vita.

Il bambino che nascerà alla fine di dicembre, Emanuele, è per me la risposta più grande alla volontà di condurre una vita normale, senza troppe emozioni che non ti lasciano nulla, che non hanno sostanza, che non ti aiutano a essere vicina agli altri. Diventare mamma è donare tutta te stessa alla famiglia che stai creando e io più che mai credo in tutto quello che ho fatto per arrivare a questo momento, senza mai poter dimenticare quello che gli "empolesi" mi hanno dato per arrivare a questo punto. Come ho già scritto in altri miei articoli, i percorsi, le scelte di cambiamento, non vanno criticati, derisi né giudicati, ma capiti e, se possibile, sostenuti. Le difficoltà si affrontano davvero con la lucidità. Personalmente non mi nasconderò più dietro alle sostanze, o come tanti fanno con il bere, che è volutamente sempre più sottovalutato come problema. Riuscirci dipende solo da noi, da quanto siamo in grado di raccogliere dagli altri e di ascoltare dagli altri. Se non ci riusciamo è perché, in fondo, non lo vogliamo. Io ho scelto la mia strada a cuore aperto e su di essa continuerò a camminare.