In nome del popolo italiano...

 

Ovvero: a proposito di discrezionalità dei magistrati

 

Di Tiziano Fabbian, febbraio 1999

 

"In nome del popolo italiano", questa è la formula di rito con la quale i giudici, in sede processuale, a fine dibattimento iniziano il pronunciamento di sentenza. Fino a qui, ci siamo: i mass media, oltremodo sensibili alle vicende giudiziarie, ci hanno fatto conoscere a menadito tutte le varie fasi di un procedimento penale, dall’arresto al rinvio a giudizio, dal dibattimento in aula alla sentenza.

Ma quello che succede in seguito, alla persona condannata ad una pena detentiva da espiarsi in carcere, la maggior parte del popolo italiano, in nome del quale è stata pronunciata la sentenza, con certezza non lo sa.

"Si dice… ho sentito dire…". Anch’io, ancora incensurato, avevo sentito dire parecchie cose sul carcere e, forse presagendo la mia futura sorte, in più occasioni avevo affrontato questo argomento con conoscenti, al fine di approfondirlo. Avevo così avuto l’opportunità di constatare che coloro che non avevano fatto questa esperienza ne parlavano con troppa sospetta competenza, e quelli che il carcere l’avevano vissuto sulla loro pelle rispondevano invece con reticenza alle mie domande, ragione per la quale la mia ignoranza sull’argomento era rimasta immutata, ma non per molto tempo. Infatti, forti del detto "la legge non ammette l’ignoranza", verso la metà degli anni ottanta buona parte dei tribunali del nord Italia hanno deciso di concedermi il dubbio privilegio di colmare le lacune che ancora possedevo sull’argomento, pregandomi di trascorrere una decina di anni proprio in una di quelle strutture ex oggetto della mia curiosità. Quando riuscii a realizzare appieno quanto tempo era stato messo a disposizione per lo studio di questa "materia", mi venne spontaneo esclamare: "Troppa grazia S. Antonio" (come omaggio alla città che attualmente mi ospita).

Oggi, dopo una "ricerca sul campo" durata oltre dieci anni (mi sono state concesse ulteriori possibilità di approfondimento) ho potuto capire che chi parlava con sospetta competenza del carcere, altro non faceva che rifilarmi sue fantasie integrate da esperienze cinematografiche e televisive sull’argomento, e che invece la reticenza a sviluppare il tema, presente negli ex carcerati, non dipendeva, come credevo, da una sorta di pudore nel parlare del loro passato, ma dall’impossibilità di esprimere logicamente l’illogico.

Per quanto mi riguarda, sono giunto alla conclusione che il carcere è il luogo dell’aleatorio, dove regna sovrano il caso con la sua consorte discrezionalità.

 

La discrezionalità

Sempre grazie ai mass-media, oggigiorno la maggior parte delle persone sa, o ha intuito, che le pene detentive inflitte dal tribunale sono pene "virtuali", indicative rispetto alla quantità e alla qualità della detenzione effettivamente patita. Non sono più dei termini fissi come lo erano una volta, ma, grazie al nuovo Ordinamento penitenziario del 1975 e soprattutto alla famosa "legge Gozzini" del 1986, sono diventate, al momento dell’esecuzione, termini flessibili: questo, con l’introduzione dei cosiddetti benefici.

I benefici rappresentano delle "variabili" rispetto alla pena iniziale, la cui concessione è legata a precisi requisiti comportamentali, ai quali deve corrispondere la persona detenuta. Le condizioni per usufruirne sono riassumibili in due valutazioni principali: il buon comportamento tenuto e il grado di risocializzazione conseguito nel corso della carcerazione.

L’attribuzione di questi benefici può comportare una riduzione o una sospensione di parte della pena o la possibilità di scontare all’esterno parte della condanna. Per poter avere accesso a tali benefici, nella maggior parte dei casi la legge prevede si sia trascorso un certo periodo in carcere: ad esempio, nel caso del permesso premio, questo si può richiedere dopo aver scontato un quarto della pena inflitta, per la semilibertà bisogna aver scontato metà della pena.

Ovviamente questi termini si riferiscono ai "delinquenti comuni", per quelli "fuori dal comune" i termini sono aumentati se non addirittura soppressi.

Ciò non significa che la concessione dei benefici avvenga in modo automatico, non appena raggiunto uno dei termini richiesti, come una sorta di "indennità d’anzianità", ma l’interessato deve inoltrare una specifica richiesta la quale verrà valutata, di volta in volta, dal Magistrato o dal Tribunale di Sorveglianza.

Così la legge, ma le cose non risultano essere sempre così facili come sono presentate. In sede di valutazione iniziano i problemi, non tanto per quanto riguarda il comportamento tenuto in carcere dal richiedente, quanto perché ai magistrati viene chiesto di pronunciarsi sul grado "attuale" di pericolosità sociale del soggetto, le sue intenzioni oneste o meno.

Neanche potendo entrare nella coscienza di un individuo sarebbe possibile fare un pronostico di questo tipo, in quanto le intenzioni sono condizionate dalle circostanze. Chiedendo quindi, la legge, una valutazione di quanto non è possibile valutare, altro non ha fatto che introdurre il criterio di DISCREZIONALITA’, con la quale chi applica la norma in un certo senso si assume la responsabilità di determinate scelte. Sono andato a vedere la voce "discrezionalità" su un dizionario di termini giuridici e ho trovato: "E’ la facoltà di prendere provvedimenti insindacabili attribuita dalle leggi all’autorità giudiziaria (...) E’, insomma, la facoltà di decidere secondo il PRUDENTE ARBITRIO del magistrato…".

 

Prudente arbitrio

"Prudente", e chi non sarebbe prudente dovendo decidere su questioni così importanti quali la libertà di un altro essere umano, e dovendo poi, in un certo senso, rispondere del suo comportamento? Queste considerazioni portano inevitabilmente a lesinare la concessione dei sopracitati benefici, soprattutto a chi non può portare a sostegno della propria richiesta neppure un minimo di garanzia, quali una famiglia che lo possa seguire, una dimora dove possa abitare, un reddito per il suo sostentamento. Una ulteriore pena nella pena, riservata alle categorie sociali più indigenti, un criterio di disparità di trattamento che contraddice ciò che fonda il diritto penale moderno, un diritto penale uguale.

"Arbitrio": anche in questo caso ho cercato la definizione ed ho trovato: 1) Facoltà di giudicare e operare liberamente la propria scelta e la propria volontà. 2) Atto abusivo, illegale. Sinonimo: sopruso".

Considero questa diversa valenza interpretativa perlomeno singolare, perché qui in carcere proprio come un sopruso viene spesso percepita la decisione di negare determinati benefici ad una persona concedendoli ad un’altra, in presenza di analoghe situazioni di trascorsi giudiziari. Persone condannate per i medesimi capi d’imputazione, fine pena simile, comportamento corretto e… ad alcune vengono accolte le richieste di uscita in permesso premio, ad altre, rigettate. Se poi questo viene concesso a chi un comportamento proprio buono non l’ha tenuto, essendo stato fatto oggetto di rapporti disciplinari, e rigettato a chi, in tanti anni di carcerazione, si è fatto notare per la sua correttezza ed impegno nelle attività intramurarie, l’uso del termine "sopruso" è da considerare una parola "forte"?

Anche questi sono effetti del potere discrezionale ma d’altronde, quando il legislatore rifiuta di operare scelte precise, è costretto a delegare la responsabilità di queste. Il potere discrezionale attribuito alla Sorveglianza in pratica è illimitato per due principali motivi, il primo dei quali è da ricercarsi nella legge stessa, la quale non indica i confini entro i quali tale potere può essere applicato; il secondo nasce dagli innumerevoli processi di riforma e controriforma, maneggia menti e rimaneggiamenti che l’Ordinamento Penitenziario ha subito dalla sua entrata in funzione e che l’hanno reso irriconoscibile sia nella forma che nella sostanza, rispetto alla configurazione originaria. questo ha avuto come conseguenza il fatto che ogni Tribunale di Sorveglianza si è trovato nella necessità-diritto di interpretare quest’accozzaglia di leggi e contro-leggi secondo propri criteri, con il risultato che lo stesso beneficio da un Tribunale di Sorveglianza viene concesso con una certa facilità e da un altro viene lesinato.

Concludendo, questa è la situazione: una volta incarcerata, il destino della persona viene affidato al caso, quantità e qualità della pena da espiare dipendono dalla città nella quale viene arrestata, dall’istituto nel quale viene ristretta a scontare la pena, dai criteri interpretativi del Tribunale di Sorveglianza competente... dal cuore degli occhi!?

Questo no, ma dal colore della pelle, dal Paese di origine, forse sì. Non per intolleranza razziale, senz’altro, ma per il fatto che un cittadino straniero difficilmente sarà in grado di presentare quelle "garanzie" richieste per poter usufruire di un beneficio alternativo alla detenzione in carcere. Vivendo questa situazione viene da pensare che solo un miracolo potrebbe sanarla. Oggi come oggi, di fronte ai problemi considerati di difficile soluzione, c’è la tendenza generalizzata ad aspettare che la soluzione "piova" dal cielo; se ciò non succede subentra l’atteggiamento fatalistico di comodo: se anche il cielo non può fare niente, figurarsi noi!

Quel "popolo italiano" in nome del quale si pronunciano sentenze di condanna e si incarcerano persone (non è un’entità astratta, ne fate parte anche voi che leggete questo periodico) potrebbe invertire la tendenza rinunciataria e, riappropriandosi del problema delegato, rendersi disponibile alla collaborazione con gli operatori penitenziari nel processo, questa volta, di risocializzazione delle persone detenute. Ciò, tra l’altro, equivarrebbe ad acquisire coscienza del fatto che spostare il carcere dal centro città, sempre più lontano fino alle zone rurali, l’allontanare cioè il problema, non lo risolve ma lo acutizza, perché non vedendolo si rischia di travisarne le proporzioni. Il carcere, lo si voglia riconoscere o no, è una realtà che fa parte del territorio e come tale deve essere considerata. Il processo di risocializzazione prevede l’acquisizione da parte della persona detenuta di un certo grado di responsabilità morale, quale miglior modo d’insegnarla se non l’esempio? Questo, a Padova, ha già iniziato a verificarsi e, in tutta sincerità, devo dire che i risultati rispetto a due anni fa possiamo definirli "miracolosi". Per quel che mi riguarda, io ora desidererei indirizzare la mia "sete di sapere" verso argomenti meno pericolosi del carcere, quali la filatelia.