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Immagini di repertorio, ovvero la telecamera può mentire?
Di Tiziano Fabbian, luglio 1998
Accendo la televisione… la Gruber con le sue labbra imbronciate (come a dire: questo non si fa!) mi sta raccontando più o meno così: "… il Rossi si trovava in carcere dall’ottobre scorso. La sua disavventura giudiziaria è legata alle indagini avviate dai C.C. di… nell’ambito dell’operazione… che ha portato il G.I.P. dott…, della Procura della Repubblica di…, ad emettere 423 mandati di cattura, tutti eseguiti. Il Rossi si è tolto la vita questa notte nella sua cella, impiccandosi alle sbarre della finestra del bagno, con una striscia di lenzuolo; a nulla è valso l’intervento degli agenti di custodia che, subito accorsi, hanno trasportato il Rossi all’infermeria del carcere, dove il medico di turno non ha potuto far altro che constatarne il decesso… silenzio del magistrato… rabbia dei parenti… sgomento nell’opinione pubblica… ed ora alcune immagini del carcere di…, dove il Rossi si è tolto la vita, in un servizio che il nostro collega… ha realizzato per noi, tempo fa". Scompare la Lilli, compare al suo posto l’ingresso del carcere, mura e ferro. Un paio di agenti di custodia, giubbetto antiproiettile, mitraglietta imbracciata, fissano sospettosi l’occhio della telecamera. Sotto l’inquadratura, la scritta "immagini di repertorio"; intanto, cancello di ferro, scale, cancello di ferro, corridoio, finestre, sbarre, cancello di ferro… In primo piano c’è proprio un massiccio cancello di ferro dipinto, di un indefinibile color pastello; attraverso le sbarre, un lungo ed ampio corridoio piastrellato che termina in una parete tipo vetro-cemento dalla quale si irradia una calibrata luce solare la quale, dopo essersi specchiata sul lucido pavimento, prende slancio e illumina di luce rassicurante l’ambiente, rendendo quasi gentile la vista delle porte blindate poste come un intercalare sulla lunga parete. Com’è tutto lindo, asettico! Scompare il senso d’inquietudine legato alla consapevolezza di trovarsi in un carcere. Il cancello si apre da solo, entriamo nella sezione in "punta d’occhio" nel timore che lo sguardo possa lasciare impronte profane, posandosi su tanto lindore. Un agente di custodia ci precede, ci guida, e la telecamera riprende la sua nuca, mentre la voce fuori campo del cronista chiede se sia possibile visitare una cella; "senz’altro", risponde la nuca e, così dicendo, devia a sinistra verso una porta blindata. Ci si fa incontro un vecchietto canuto, testa bassa, assorto nel compito di passare uno spazzolone sul già splendente pavimento. "Questo è lo scopino di sezione…" lo presenta la nuca arrestandosi e, volgendosi a noi, diventa un volto pacioccone, i folti baffi in un sorriso, e poi spiega: "… detenuto lavorante, retribuito". Lo "scopino", scorta una macchia inesistente proprio nel piano di ripresa, con movimento sincopato passa e ripassa lo spazzolone munito di straccio, asciutto, sul pavimento. Percependo poi l’attenzione su di sé, smette di spalmare splendore e, sollevato il capo, ci gratifica di un sorriso mite… L’agente, indicandolo, assume l’espressione di orgoglio propria della madre guardante la propria creatura. Lo scopino, dopo uno sguardo riconoscente all’agente-madre, e da "ospite indesiderato" a noi, ritorna con rinnovato zelo alla sua missione e scompare dal campo di ripresa andando a togliere le impronte lasciate un po’ dappertutto dai nostri sguardi. Siamo arrivati in prossimità della cella; davanti al "blindato" la telecamera riprende il movimento, tipo "western", che compie l’agente di custodia sfilando l’enorme chiave d’ottone che teneva infilata in vita, tra camicia e calzoni.
Divagazione mentale La mano, impugnando la chiave, con movimento rapido, impietoso, penetra la porta nella serratura impudicamente esposta con due mosse secche, fatte per vincerne la resistenza, la apre, artigliandole il fianco esposto e facendola gemere; senza nemmeno un "grazie", sadicamente, con uno stridio di metallo contro metallo, estrae poi la chiave dalla serratura spossata. Dopo questa esperienza la porta probabilmente non sarà più la stessa, rifiuterà di aprirsi agli sconosciuti e si metterà in analisi presso uno psico-fabbro del luogo. Fine divagazione mentale
L’agente, aperta la porta blindata e poi il cancello, cortesemente spostandosi, con un cenno della mano ci invita ad entrare. Un’ampia finestra è posta di fronte all’ingresso della stanza, ne entra un fascio di luce solare, lattiginosa che, illuminando l’ambiente, toglie profondità alla stanza ed agli oggetti in essa contenuti. Il riverbero ci impedisce all’inizio il rilievo prospettico dell’insieme appiattendo tutto alla stessa distanza.
Entriamo Riacquistato rapidamente il senso di profondità e di prospettiva, osserviamo la stanza, pulita e in ordine. Sui letti, le coperte ben tese; alle pareti, gli stipi ben spolverati, il lavello smaltato, ben lucido; sulla mensola sovrastante, un bicchiere di plastica, ben bianca, dal quale sporgono fiori di plastica, un paio di spazzolini da denti e un mezzo tubetto di pasta dentifricia; sul pavimento, due... (qualcosa in questa scena stona…) ritorno con lo sguardo agli spazzolini nel bicchiere… le setole consunte… sono stati usati… ma da chi sono stati usati? Qui non c’è anima viva!
Ecco cosa non va! Se questo è un carcere, dove sono coloro che lo dovrebbero abitare, i detenuti? "Immagini di repertorio" ci ha portato a visitare un edificio, inquietante solo nel nome, carcere, ma l’ha fatto apparire, in un certo senso, innocuo nella sua staticità. Abbiamo visitato una sezione vuota (lo "scopino" sembrava più un suo accessorio animato che un reale detenuto), siamo entrati in una cella, vuota anch’essa, ma dei detenuti? Solo un paio di spazzolini da denti ad uso di ectoplasmi camaleontici? Perché non li avete fatti vedere, i detenuti? Ci avete presentato, ben confezionato, solo un corpo privo di anima, di sentimenti, di passioni; ma non abbiamo percepito tensione alcuna nelle sue mura spesse, nei suoi innumerevoli cancelli di ferro, nelle sue finestre sbarrate. Tensione che avremmo trovato in ciò che non ci avete fatto vedere, in quelli che lì ci vivono: ristretti tra queste mura che li fanno sentire naufraghi, circoscrivendone l’isola; limitati da tutti questi cancelli che li obbligano a determinati percorsi come il topo di Pavlov; arginati dalle finestre sbarrate che li inducono ad indirizzare suppliche e bestemmie all’unico scorcio di mondo che permettono di vedere, il cielo. Solo nei ragazzi, nelle donne, negli uomini detenuti che non ci avete mostrato, a volte sta quel tipo di disperazione che può portare a considerare la propria cancellazione fisica meno dolorosa del progressivo processo di spersonalizzazione, fino nell’anima, che la detenzione può comportare, solo in loro, non certo nelle mura di cemento e nelle sbarre di ferro. Se volete capire, fate vedere, fate parlare i detenuti. Ma lo volete veramente?
Con questo pensiero spengo la TV
Tu mi guardi e dici: "Non mi pare stiano poi così male in un ambiente del genere… non pensavo fosse così… normale, un carcere. Hai visto? Hanno anche la televisione in cella. Come si può… in un ambiente così… impiccarsi… mah!" Guardo te, guardo la TV, e nello schermo spento ho la visione di un occhio che ammicca.
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