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Racconti di socialità - Quarta puntata
“Nel caso qualcosa andasse male e arrivassero gli sbirri, il minore attirava l’attenzione su di sé, dando così tempo al professionista di dileguarsi”. Mario narra a Tiziano di come da ragazzino è finito al carcere minorile, il Beccaria di Milano, e di come ne è “uscito”.
“E
così, dopo una settimana, sono riuscito a farmi spostare dall’osservazione
alla sezione F. Non è stato difficile dal momento che, normalmente, i
ragazzi di Cinisello e Sesto li mettevano tutti lì”, “Ne conoscevi
parecchi?”, chiedo; “Come no, cumpà, è stata una vera e propria
rimpatriata! Ho ritrovato amici e conoscenti che pensavo andati in collegio o
ritornati al paese dai parenti o addirittura in Germania per lavoro. Almeno
queste erano le giustificazioni che i genitori avevano dato alla loro improvvisa
assenza. Ed invece erano tutti lì! Ho pensato, chissà che racconteranno in
giro i miei genitori per giustificare la mia di assenza; chissà come si
vergogneranno di me....”, “Hai poi saputo che hanno detto?”, chiedo,
rendendomi conto che da un po’ di tempo sto facendo domande più per rompere
l’imbarazzante silenzio delle sue pause, che per necessità. Anche ora, in
silenzio, il racconto continua interiormente, lo vedo dal variare delle sue
espressioni: ha un suo corso sotterraneo, con le mie domande lo faccio riportare
in superficie. “Certo che l’ho saputo, cumpà, in ritardo, purtroppo per me.
Mentre io, una volta uscito, a chi me le chiedeva dicevo che ero andato a
Bergamo a frequentare un corso per meccanici, loro erano andati giù di piatto,
dicendo a tutti i loro conoscenti che ero finito al Beccaria per il furto di una
600. Quando un vicino, al quale avevo rifilato la storia del corso per
meccanici, mi ha chiesto, trattenendo le risa, se lì ci insegnavano pure a
rubare le 600, ho capito tutta la situazione; sai che risate si saranno fatti
alle mie spalle?? ..... Che figura da pirla....”. Si ferma un attimo scuotendo
la testa, ma rimane in superficie e continua a raccontare: “Ti dicevo della
sezione F; lì c’erano dei ragazzi dai 16 ai quasi 18 anni, i cosiddetti duri.
Erano quelli che fuori vedevamo girare con delle moto da sballo, vestiti sempre
all’ultima moda e con le tasche piene di soldi. Quelli che ai festini si
pomiciavano le ragazze più belle della scuola, e a noi, lasciavano....le cozze.
Degli ‘arrivati’ insomma, e agli occhi di noi ragazzini dei modelli da
imitare»: “Solo perché avevano soldi o c’era dell’altro?”, chiedo,
sentendomi tanto “indagatore del profondo”; “Cumpà, fratello mio caro, a
volte, parlando con te ho la sensazione di stare a discutere con un alieno! Non
è merito, né colpa tua se vieni da un altro mondo..”, e calca sulla parola
merito, “... il mondo della mia infanzia contemplava anche il ritrovarsi a
mangiare una fetta di pane, davanti alla vetrina del salumiere, guardando un
irraggiungibile prosciutto crudo esposto, cercando di immaginare che gusto
avrebbe avuto il pane con delle belle fette di prosciutto dentro; sai quante
volte l’ho fatto? Naturalmente, a volte, stanco del ‘crudo’, e per
variare, masticando pane fissavo il ‘Praga’ o altri salumi. Adesso, cumpà,
può anche dare soddisfazione mangiarsi due belle fette di pane con il pomodoro
fresco dentro, ma, a quei tempi, l’unica cosa che potevi permetterti sul pane
era sempre e solo il pomodoro, ed allora..... due palle cumpà! Non bastasse,
era anche imbarazzante farsi vedere con pane e pomodoro, soprattutto a scuola.
Nelle pause merenda, c’era chi tirava fuori dalla cartella la brioche, chi la
merendina e chi il panino - michetta la chiamavamo- con la Nutella; io tiravo
fuori il mio bel mezzo metro di pane pugliese imbottito di pomodoro fresco, e,
anche senza avermi mai conosciuto, subito mi individuavano e si levava il coro:
Terùn...Terùn. Pensa che dopo i primi giorni, stanco dello sfottio, mi
rifugiavo al bagno. Quando più tardi, ho imparato a ‘fare’ negozi, sai qual
era la prima cosa che si faceva una volta dentro? S’accendeva l’affettatrice
e via, zan-zan, ci si sparava un bel paninazzo imbottito; solo dopo aver
mangiato, si iniziava a rubare. Per lo meno, se gli sbirri ti pigliavano,
qualcosa in pancia te l’eri portato via, e poi: meglio prendere le botte a
pancia piena, che prenderle a digiuno cumpà!”; “Parli di botte, come per
loro fosse stata prassi normale il picchiarvi ad ogni arresto”, “Ed era così
infatti, fratello caro, ma, a parte qualche psicolabile, per menarti menavano,
ma più a scopo pedagogico che altro; ad ogni modo…”. Miseria,
penso, in collegio lo menavano, a scuola
lo menavano, gli sbirri anche e poi i suoi, non gliel’avranno risparmiate
certamente, poi c’erano gli scontri tra bande, e poi... chissà quante ne ha
prese in galera, dopo le rivolte..., lo guardo e mi domando se è così
robusto per costituzione o è ancora gonfio per le botte ricevute. Con
insegnamenti di questo genere, con tutta la violenza subita, che volevano ne
risultasse? Una ‘colomba’? Se questo era il loro fine ci sono riusciti, ma
come ‘colomba’, mi pare un po’ incazzata. “..Cumpà, sveglia! Sto
parlando e non mi ascolti, a che pensi?”, “Niente, pensavo che se fossi una
colomba, dovremmo girare tutti con l’ombrello”, “Io ...una colomba?!
Cumpà,
mi hai detto che da piccolo eri caduto dal ciuccio con il seggiolone in bocca,
ma non mi hai detto che risenti ancora dei postumi della caduta!” mi guarda
finto-preoccupato, lo invito a proseguire con il racconto, “Quelli che prima,
ti dicevo, consideravamo dei modelli da emulare, non erano figli di gente con i
‘dané’, erano dei nostri, provenienti da famiglie poveracce come le nostre,
e la dimostrazione che se hai un po’ di coraggio puoi cambiare le tue
condizioni di vita. Loro c’erano riusciti!”. E’ il vecchio discorso della
giuste aspirazioni attuate con mezzi sbagliati, ma vaglielo a dire a quelli che
pensano che, oltre all’handicap derivante dall’essere nato in una famiglia
povera, si erediti anche l’aspirazione all’indigenza, penso. “Quelli, non
scassinavano come noi i flipper o i juke-box per fregare le monetine, ma
‘facevano’ gli appartamenti dei ricchi, fabbriche e negozi del centro, tutti
i posti dove si trovavano tanti soldi; e sapevano come ‘farli’. Il fatto
era, che loro lavoravano con i professionisti!”. Mi sembra strano che questi
ultimi avessero bisogno dell’aiuto di ragazzini, e glielo dico, “Segui il
discorso, cumpà, e troverai logica questa scelta. A quei tempi, se eri
maggiorenne e ti pigliavano ‘sul lavoro’, per un furto ti davano gli anni di
galera; se eri pregiudicato, poi, ti rovinavano. Un minorenne, male che andasse,
si faceva un paio di mesi al Beccaria”, “D’accordo, però non vedo ancora
i vantaggi...”, “Lasciami finire, cumpà, logico tu non lo veda, per queste
cose non ci sei passato. Mo’ ti spiego. Nel caso qualcosa andasse male e
arrivassero gli sbirri, il minore attirava l’attenzione su di sé, dando così
tempo al professionista di dileguarsi. Se preso, poi, si accollava la colpa di
tutto. Capito, adesso? Un minorenne ci guadagnava in ogni caso; se andava bene,
si prendeva parte del bottino, e se andava male, si faceva un paio di mesi al
‘minorile’, ma con la riconoscenza (monetizzata) della persona che aveva
coperto. In più, non essendosela ‘cantata’ con gli sbirri, aggiungeva
prestigio al proprio nome nel giro, e, in quanto ‘affidabile’, poteva
aspirare a partecipare a ‘colpi’ sempre più ricchi. Così funzionavano le
cose, fratello mio, e così hanno funzionato anche per me. Credimi, cumpà, non
è nel carcere che impari ‘l’arte criminale’; qui c’è tutta gente che
la sua bella esperienza l’ha già fatta; tutt’al più qui, si prendono
contatti per un futuro di collaborazione, ma la vera ‘scuola del crimine’ la
si fa nei minorili. Lì incontri questi ragazzi già pieni di esperienza, i
quali, raccontandoti le loro storie, ti convincono che ‘il crimine paga’.
Poi ti insegnano un mucchio di cose utili per la ‘professione’: le porte non
si aprono a spallate, ma con certe chiavi, o il grimaldello; ti insegnano ad
aprire un lucchetto con una siringa e a rompere i vetri di una macchina, senza
fare rumore, con le ‘candelette’. Ti insegnano ad usare il cric dell’auto
per allargare le sbarre alle finestre e come procurarti una pistola, ma,
soprattutto, ti insegnano l’omertà e il codice della malavita. Pensaci!”.
Ed io ci penso, arrivando alla conclusione che ha ragione lui. Nel minorile sta
la vera scuola del crimine; lì i ragazzi trovano insegnanti qualificati, i
duri, quelli che se vogliono qualcosa se la prendono, e sanno come fare. Lì,
imparano il ‘Tanti, Maledetti e..subito’, nell’età per loro più
delicata, perché più influenzabili e alla ricerca di modelli di
riferimento...., “Cumpà, che m’hai abbandonato?”, lo sento chiamarmi,
“M’hai detto di pensarci e...senti, ma il fatto che anche loro fossero lì
dentro con voi, nonostante la loro furbizia ed esperienza, non vi faceva pensare
che in fondo il crimine lo paghi?”, “Fratello mio...” inizia a dire, con
quel tono di pazienza con il quale ci si rivolge agli sprovveduti in materia,
“...più che una punizione per quanto avevamo fatto, il soggiorno al Beccaria,
visto anche la brevità di questo, lo si considerava come una momentanea rottura
di palle; d’altronde era come ritornare in collegio, un’esperienza già
conosciuta. Quindi, come deterrente, non valeva un granché. Vedevi solo i
vantaggi, che la scelta di mala-vita produceva: i soldi, tanti soldi. E i duri
soldi ne avevano, e con i ‘dané’ anche lì dentro riuscivano a procurarsi
sigarette, qualche bottiglia di Martini e altri generi, chiamiamoli, di
conforto. Tieni poi conto che, al momento del processo, più avanti, ci sarebbe
stato da pagare anche l’avvocato. Con i soldi avresti potuto permetterti un
buon avvocato e non il solito ‘galoppino’ e una buona difesa avrebbe reso
minimo il rischio di tornare dentro. Pensa che io, al primo processo, sono
andato con un avvocato da pochi soldi; i miei non potevano permettersi altro.
Non ti dico come è andata, dico solo che nell’ambiente questo tipo lo
chiamavano ‘Pietà!’, infatti, l’unico genere di difesa che conoscesse era
quello di affidarsi ‘alla clemenza della Corte’. Cumpà, erano (e sono)
nella mentalità comune, solo i soldi che distinguono il furbo dallo scemo,
indipendentemente dal fatto che l’uno e l’altro si trovino assieme al
Beccaria; noi, volevamo appartenere alla prima categoria”. “Quindi, è lì
che hai imparato il mestiere?”, “Certo cumpà, non in quell’unica
occasione, naturalmente, ma, come per la galera anche il minorile, dentro una
volta, poi periodicamente torni a fargli visita; un volta lì impari la teoria,
quando esci cerchi di metterla in pratica e non sempre fila tutto liscio. Io,
non diverso dagli altri, ci sono ritornato parecchie volte, fino a quando hanno
stabilito fossi maturo per il carcere.”, “Cioè fino a quando hai compiuto i
18 anni....Quante volte sei stato arrestato da minorenne?” ci pensa un po’
su: “Proprio non lo ricordo cumpà, un vagone di volte; pensa che quando
qualche ragazza mi chiedeva dove abitassi, più di una volta ed istintivamente
le davo l’indirizzo del Beccaria; gli sbirri quando mi acchiappavano dicevano
- Adesso ti portiamo a casa - e mi
ritrovavo al minorile.”, “Senti un po’, dovevi raccontarmi di quando sei
scappato, tanto per non perdere ‘il filo del racconto’ .....no?”. Mi
guarda, sorride e risponde: “Cumpà sei un buongustaio! Nell’ambiente mi
chiamavano ‘Papillon’ per le mie avventurose fughe. Al mio confronto il
Conte di Montecristo era un dilettante, a mio confron.....”, “Meno ciance;
passa ai fatti, scoppiato”. lo interrompo, frenando la sua liricità, “Va
bé,
ecco qua. Per la verità la prima volta s’è risolto tutto in un tentativo di
fuga; i compari m’hanno rimediato un paio di jeans e una maglietta, poi
abbiamo calato un paio di lenzuola annodate dalla finestra del secondo piano, e
mentre loro trattenevano questa corda improvvisata, ho scavalcato il davanzale
della finestra e iniziato a calarmi verso la libertà. Arrivato all’altezza
della finestra del primo piano, che ti vedo? Il mio educatore, che affacciandosi
tranquillo e sorridente, mi fa - Ciao M. , che stai facendo? Ginnastica
notturna? - Beh cumpà, ero talmente sorpreso che sono solo riuscito a dirgli -
Non riuscivo a prendere sonno! - dopo di che mi sono arrampicato a razzo
rientrando nella mia camera, tra lo stupore, prima, e la fuga precipitosa, poi,
dei miei reggi-corda, i quali avevano capito che qualcosa era andato storto”,
“Effetti di questo tentativo?”, chiedo ridendo, “Niente, cumpà! A parte i
jeans e la maglietta sequestrati, come nulla fosse successo. Ed io che faccio,
non ci riprovo forse? Ma certo che ci riprovo due o tre sere dopo. Stessa
finestra, calo le lenzuola annodate, legandole ad un termosifone, scavalco ed
inizio a scendere, arrivo alla finestra del primo piano e l’educatore non c’è.
Finisce il secondo lenzuolo. Supero il secondo nodo e.... il nodo si snoda ed
io, sempre aggrappato al lenzuolo che cade con me, per poco non finisco in testa
all’educatore che mi aspettava lì sotto e
per fortuna, trattenendomi in qualche modo, lui attutisce gli effetti
della caduta. E mi ritrovo nuovamente mezzo stordito, seduto a terra, che,
aggrappato strettamente al lenzuolo, recito la solita tabellina del nove.
L’educatore, più preoccupato per quanto sto dicendo (la tavola pitagorica non
è mai stato il mio forte), che per eventuali danni fisici, mi tira su da terra
e mi dice - Ne valeva la pena? Potevi farti male -, io, naturalmente continuavo
a dare i numeri”; mentre mi sto rotolando dalle risa, chiedo a ‘Willy il
Coyote’ se anche questo tentativo non ha avuto esiti disciplinari, “no
cumpà,
solo il sequestro dei vestiti. Mannaggia, ho pensato, qui mi tocca andare a
rubare solo per risarcire i vestiti che mi sono stati sequestrati. Così il
terzo tentativo l’ho preparato con cura. A mezzanotte niente lenzuola questa
volta, ma delle tovaglie che avevo fregato in mensa, più leggere, quindi
maggiori garanzie che il nodo reggesse. Peccato che fossero un po’ corte, e,
calate, terminassero ad un paio di metri da terra; così, lasciandomi cadere, mi
sono storto una caviglia, ma ciò non mi ha impedito di raggiungere la rete
metallica di recinzione, d’arrampicarmi, scavalcare e perdere una scarpa
durante questa operazione....”, “Dimmi solo che al di là della recinzione
ti aspettava una zucca con le ruote e tirata da quattro topi... altro che ‘Papillon’.
Tu sei la Cenerentola delle evasioni!”. lo apostrofo ancora scosso dalle risa,
“Cumpà...”, dice con finta mestizia, “...ero solo ai ‘primordi’ della
mia carriera”, “Ma sei riuscito ad evadere, infine, o Biancaneve e i
Sette-nani t’hanno catturato e riportato al Beccaria?”. “Quanto sei
spiritoso, fratello mio; sono scappato, sono scappato e mi son dato alla
latitanza..”, “E di grazia, dove hai fatto la latitanza, in Brasile?”. lo
sfotto; “No, da mia sorella a Cinisello”, dice con aria di compatimento, “E quanto c’ha messo l’Interpol a trovarti?” continuo. “Qualche giorno dopo, cumpà, e dopo la consueta scarica di sganascioni terapeutici, m’hanno riportato al Beccaria e ...”, “Senti, lasciami riprendere da tutte queste emozioni, poi mi racconterai il resto. Bevi qualcosa?”, gli chiedo. “Sì cumpà, un grappolo d’uva!”.
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