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I dannati del I° A
Una sezione del carcere con soli stranieri: scoppia un conflitto e a pagare sono tutti, con l’isolamento, o "consolandosi" con dosi massicce di "terapia". Eppure, questa è una storia dove si capisce che basterebbe poco a rendere il carcere un po’ meno disumano
Di Saber e Omar, novembre 2000
Mi chiamo Saber, sono un ragazzo tunisino proveniente dal sud del paese, precisamente da un piccolo borgo di nome Gafsa, situato ai confini tra la Libia e l’Algeria. A Gafsa, l’attività principale è l’agricoltura, si coltivano i datteri, i pistacchi, le mandorle e le olive, oltre ad oggetti di artigianato. La regione gode di un bel sole per tre stagioni all’anno ed è ricca di testimonianze archeologiche, come la piscina romana e l’arena teatrale romana; inoltre ci sono miniere dove si estraggono i fosfati. Ho l’orgoglio di essere tunisino e, specialmente di essere nativo di Gafsa, che è un paese di gente ospitale e onesta. Lì vivono i miei genitori. E’ tra le località più antiche della regione, ed ha un ruolo fondamentale nell’economia della Tunisia. Prima di parlare di me dovrei però parlare del mio carattere, che ho dovuto imparare a modificare a seconda dell’ambiente in cui mi trovo a vivere.
Da dieci mesi a questa parte ho avuto molto tempo per riflettere sul mio carattere: sono buono con chi è buono con me, come sono cattivo con chi è cattivo con me; generoso perché non ho nulla, però sono altruista nei confronti dei miei compagni di sventura. Il mio problema è che sono introverso e quindi non riesco a buttare fuori del tutto i sentimenti che ho dentro, anche se con le donne non sono timido, anzi con loro sono estroverso. Penso di essere chiuso in me stesso e purtroppo sono capace anche di farmi del male da solo. Nel 1990, fui invitato da un mio amico, che viveva in Italia, regolarmente assunto in una fabbrica di Pesaro. Decisi di accettare e di venire a conoscere l’Italia: avevo 18 anni e la mia idea era quella di restare solo un mese, invece sono oramai 10 anni che mi trovo in Europa. Alla casa di Reclusione di Padova, nella sezione I° A, sono arrivato nella primavera del 1998. Allora il mio nome non era Saber… ma Salim: il nome falso lo usavo per non compromettere la mia vera identità. A quei tempi, la sezione era abbastanza simile alle altre, benché fosse una specie di "distaccamento" del Circondariale (il carcere che si trova a pochi passi dal Due Palazzi e che "ospita" persone appena arrestate o condannate a pene brevi) e ci fossero esclusivamente detenuti stranieri (come ora). Nonostante tutte le ristrettezze, riuscivamo ad avere quegli spazi minimi per fare attività sportive, come la palestra ed il campo di calcio una volta la settimana, la saletta per la socialità e, in più, la sera potevamo riunirci in quattro per cella assieme, per parlare o giocare a carte, insomma, le serate passavano perfino in armonia.
Sono uscito nel settembre 1998, avendo terminato la pena, ma sono stato nuovamente arrestato nel luglio del 1999, finendo al Circondariale. Dopo 12 giorni che vi ero rinchiuso mi hanno chiesto se accettavo di venire trasferito alla Casa di reclusione, nella sezione Giudiziaria. Non ci pensai nemmeno un attimo, perché sapevo che lì c’erano tutti i miei amici e che non si stava poi tanto male. Purtroppo, le cose nel frattempo erano cambiate: ora tutti gli spazi erano chiusi, non c’era più la socialità serale, né la palestra, né il campo sportivo. Insomma, fu una fregatura. Quando, la domenica, scesi in chiesa, incontrai Omar, un mio vecchio amico che, invece di accogliermi con "nostalgia", si arrabbiò con me. Mi chiese perché avevo accettato il trasferimento, visto che al Circondariale sapevano tutti come erano messi gli stranieri al I° A, cioè che stavano male. Dovetti riconoscere che avevo commesso un errore, ma rivedere Omar e altri amici, tra cui anche qualche italiano, mi fece un immenso piacere.
Omar viene dal Marocco, per la precisione da Casablanca, e ci racconta come si stava nella sezione Giudiziaria fino a qualche tempo fa Stavamo male, ma male di brutto, ci sentivamo ghettizzati, rinchiusi in quella sezione che era diventata una gabbia, tutta formata da stranieri. Continuavo a chiedermi: perché solo stranieri al I° A? Non c’era e non c’è mai stato un italiano, noi vivevamo tutti in Tacris, che in arabo significa ansia, agitazione, attesa… per tutto, ed in special modo non vedevamo l’ora che ci arrivasse la condanna definitiva. Era l’unica speranza per lasciare quella sezione. Ma anche il definitivo a volte non bastava per accedere ad un’altra sezione, dovevi avere un residuo pena superiore a quattro anni e non sempre, anche avendo questi requisiti, si riusciva ad essere trasferiti. Non avevamo contatti con nessuno: eravamo 50 detenuti e due agenti, solo noi! Potevamo solo fare tre ore d’aria al giorno e niente altro. Un uomo, in queste condizioni di estrema chiusura e rigore, non può che correre a grandi passi verso il totale abbrutimento. L’unica soluzione a quella realtà che rifiutavamo era la "terapia". In pratica, ci imbottivamo di sonniferi e di tranquillanti; gli atti di autolesionismo erano all’ordine del giorno. In diversi momenti di sconforto ho sbattuto pure la testa contro il muro, e ancora oggi ne porto i segni! Avevamo perso perfino il senso della realtà, ma cercavamo lo stesso di mantenerci dignitosi, inseguendo la speranza che, in un paese civile e democratico come l’Italia, qualcuno si accorgesse della situazione nella quale eravamo costretti a vivere. Finché qualcuno lo ha fatto davvero! E’ stata contattata un’associazione, Razzismo Stop, e con loro si è iniziato un percorso per riottenere i nostri diritti; ora si sta un po’ meglio, anche se ci sono ancora molte cose da fare. Per esempio, lasciare la saletta della socialità accessibile tutti i giorni, come avviene nelle altre sezioni, mentre ora è possibile solo due volte la settimana, a condizione che ci siano gli operatori di Razzismo Stop. Anche se i ragazzi per orgoglio non chiedono niente, c’è da dire che hanno bisogno di tutto: dai capi di biancheria al necessario per l’igiene personale; qualcosa passa l’amministrazione, ma proprio qualcosa… Il cambiamento in positivo si è già sentito e gli atti di autolesionismo sono molto diminuiti, e anche la terapia, che serviva per intontirci e farci sopportare quella situazione invivibile, è stata, con un accordo comune, molto ridotta. Ora non guardiamo più gli operatori come nemici, ma come persone che se vogliono possono aiutarti: la condizione è che dobbiamo essere noi con il nostro comportamento a cercare che si creino le condizioni per realizzare questi miglioramenti. Come è cambiata la sezione Giudiziaria I° A, da quando è arrivato qualcuno dal mondo esterno? Il I° A è una sezione particolare perché, pur essendo all’interno di un carcere penale, è una sezione giudiziaria, quindi con delle regole diverse dal resto e con un’altra particolarità, il fatto che è composta solo da stranieri, la cui maggioranza viene dall’area del Magreb. Se potessi fare qualche domanda a chi ha deciso questa situazione, la prima che gli farei è la seguente: "Perché siamo tutti stranieri in questa sezione, quando potremmo essere distribuiti nelle altre sezioni, almeno i definitivi?". Una spiegazione potrebbe essere che vogliono tenerci isolati dal resto della popolazione detenuta, impedendoci così ogni tipo di integrazione, un po’ come avviene in maniera "quasi" naturale anche fuori… viste le campagne di criminalizzazione che periodicamente si abbattono sugli stranieri. In questo modo non si riesce a far valere i nostri diritti, che sono in primo luogo quelli umani! Qualcosa però sta cambiando. Ora anche noi possiamo scendere a scuola con tutti gli altri, e anche questo è un modo per superare i cancelli reali e psicologici che ci dividevano dagli altri. E per imparare la lingua del paese in cui viviamo, e quindi saper comunicare, capire durante i processi di cosa si parla, senza bisogno di un interprete, capire finalmente che esiste un’alternativa alla strada e che la vita vissuta fino ad ora non è la sola possibile. Ora siamo anche più informati, veniamo a conoscenza dell’esistenza di associazioni e cooperative che danno lavoro a detenuti, insomma opportunità per una vita normale ed onesta, lo scopo che molti di noi ci eravamo posti prima di giungere in Italia; ma la vita segue le sue strade… e molte delle nostre strade hanno incrociato la droga e il carcere. Non era questo che cercavamo! Non che ora siamo in paradiso, la situazione è sempre difficile, ma si vive, anche se certi atteggiamenti nei nostri confronti sono inequivocabili… atteggiamenti di tipo razzista, anche se forse è un’affermazione pesante, ma purtroppo è così, non si possono eliminare del tutto in carcere quando nella società sono ben presenti. Quello che non abbiamo ancora spiegato, però, è perché abbiamo vissuto per tanti mesi in una specie di "isolamento" insopportabile: un episodio di violenza, fatto da singoli detenuti, poi processati e condannati, è stato il motivo che ha spinto a punire tutta la sezione per oltre un anno, facendo soffrire persone che non erano neanche presenti in Italia al momento dei fatti.
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