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È dura essere tossico, ma è più dura essere tossico e in carcere… e straniero
Per un tossico come me la convinzione è stata il miglior metadone. "Armato" di convinzione ho potuto infatti iniziare un percorso per uscirne, ma è stato davvero faticoso: finché la droga fa ancora parte di te, non riesci proprio ad adattarti a regole di vita per cui non sei ancora pronto
Di Omar Ben Alì, maggio 2001
Per un tossicodipendente ritrovarsi in carcere significa, prima di tutto, l’impatto con un mondo dove la droga non è consentita e questo gli rende ancor più difficile sopportare la detenzione: accetta, a malincuore, di sostituire la droga con ciò che è disponibile, quindi inizia la terapia a base di metadone. È il primo passo di un lungo percorso, che può portarti in una struttura alternativa al carcere: la detenzione potrebbe, quindi, rappresentare l’occasione per fare il resoconto della tua vita, smettendo di pensare con la logica del "o la va o la spacca", che non ti permette nemmeno di prendere in considerazione l’ipotesi di una vita senza droghe. Parlare sembra facile, ma vivere il disagio sulla propria pelle è difficile anche da immaginare e, per quanto la mia storia sia legata alle droghe, ammetto che tutto deriva da un modo sbagliato di interpretare la libertà. Ho avuto l’illusione di esprimere pienamente la mia personalità provando tutto ciò che c’era da provare e facendo di testa mia. Sono cresciuto in una famiglia della quale non posso lamentarmi, sono anche andato a scuola regolarmente ma, se potessi tornare indietro, forse vorrei che l’atteggiamento dei miei genitori nei miei confronti fosse stato più severo, anche se da ragazzo ero proprio "insospettabile".
La droga che si usa anche nel mio paese di origine è il fumo: quando sei in grado di procurare uno spinello ottieni l’ammirazione dei coetanei ma, per riuscirci, ci vuole una perfetta conoscenza del quartiere, perché la gente è molto diffidente e gli estranei non riescono a sapere nulla. Questa situazione cominciò a cambiare con il rientro dei nostri compaesani dalle loro disavventure in terra europea: portavano i racconti di nuove "esperienze" ed il fumo passò in secondo piano, sostituito da nuove sostanze, fra le quali anche gli psicofarmaci che iniziavano a circolare illegalmente tra i giovani. Io in quegli anni mi divertivo ogni tanto fumando uno spinello, ma nel complesso trascorrevo una vita tranquilla. Le droghe "pesanti" non esistevano nel mio paese, anche se spesso se ne parlava: dicevamo "fare un tiro sporco" intendendo una "striscia" di eroina, oppure "un tiro di neve", per indicare la cocaina. Sono termini strani, portati da coloro che erano rientrati dall’Europa, o imparati attraverso i film: la cultura delle droghe pesanti non è mai appartenuta ai paesi arabi, anche se ci sono delle eccezioni. In Libia, ad esempio, circola parecchia droga pesante e ci sono strutture costruite apposta per la cura dei tossicodipendenti: del resto i libici sono benestanti e vengono in Europa soltanto come turisti, o per comperare automobili, quindi c’è secondo me una evidente relazione tra il benessere economico di una società e la diffusione delle droghe pesanti tra la popolazione. Per altro verso, sono sempre i fattori economici che spingono gli immigrati a lasciare le loro terre, ma quando le cose non vanno per il verso giusto il pericolo di cadere nell’uso delle droghe diventa molto forte. Inizialmente può essere la voglia di provare delle sensazioni travolgenti, capaci di isolarti da un mondo ostile che ti fa sentire sempre in difetto, ma la droga non è cercata solo da chi attraversa momenti di crisi. Il desiderio di provarla può eccitare chiunque, parecchie persone stanno bene, in tutti i sensi, ma alla droga non dicono di no perché, boh!, sono cose inspiegabili.
Quando la droga è entrata nella mia vita, è diventato molto complicato riuscire a starne senza Negli ultimi due anni trascorsi in Germania mi facevo di cocaina, ma non mi ero mai accorto di essere un tossicodipendente, forse perché, se non ne avevo, non ne sentivo fortemente la mancanza. Conducevo una vita, tutto sommato, semplice: durante la settimana ero impegnato a lavorare e, nel giorno di riposo, spendevo duecento marchi per un grammo di roba bianca, giusto per divertirmi. Non ho mai avuto una crisi di astinenza, o altri disturbi, a differenza di quello che mi successe poi in Italia. Nei primi mesi di vita italiana non avevo intenzione di trafficare, né di farne uso, ma il fatto di non riuscire a realizzare qualcosa di importante mi mandò in crisi e da lì cominciai a provare una droga dopo l’altra: ero sempre in caduta libera verso il vuoto, ero consapevole che la droga mi stava isolando dal resto del mondo ma mi stava bene, tanto non dovevo niente a nessuno e non volevo niente dagli altri. Dopo un paio di mesi di questa vita finii in carcere. La cosa che mi preoccupava di più non era la detenzione, ma l’astinenza: mi bastò dichiararlo alla visita d’ingresso, e subito venni inserito nella lista dei tossici. La mattina venivamo chiamati a prendere il metadone ed è imbarazzante attraversare tutto il corridoio, per raggiungere l’infermeria, quando tutti i compagni sanno perfettamente dove stai andando. Durante la prima settimana di carcere feci anche un colloquio con gli operatori del Ser.T., che mi spiegarono di essere in difficoltà, di non potermi fornire un’assistenza adeguata perché ero clandestino. Comunque presi il metadone per circa due mesi, poi mi sembrò possibile sostituirlo con qualche calmante... giusto per dormire di notte. Dopo tre giorni tornai dal medico, chiedendogli di aumentarmi la terapia, che non mi faceva più nessun effetto: nel giro di un mese avevo già raggiunto il massimo della terapia prescrivibile dal medico, quindi mi rivolsi allo psichiatra e ottenni psicofarmaci di tipo diverso ma, contemporaneamente, cominciai a perdere il senno. Facevo fatica a controllarmi, reagivo con violenza anche per niente e, in quel modo, mi complicai ulteriormente la vita: ormai la mia testa era più di là che di qua, ma, forse, un po’ di cervello l’avevo ancora perché a un certo punto cominciai a prendermela con me stesso, finché l’autocritica si tradusse in atti di autolesionismo, di cui l’ultimo fu davvero brutto. Dopo quell’episodio rimasi scioccato, rendendomi conto che, se lo volevo, qualcosa nella mia vita poteva cambiare, ma dovevo rinunciare ad ogni sostanza, sonniferi o psicofarmaci che fossero. Con tanta fatica e altrettanta pazienza intrapresi un percorso solitario di riabilitazione: passavo le notti in bianco e, di conseguenza, durante il giorno non ero molto lucido; perplesso riguardo a ciò che stavo facendo, rimanevo spesso silenzioso. Il mese successivo cominciai a frequentare la scuola e il Progetto Nadir, un corso, specifico per noi stranieri, che aveva lo scopo di sensibilizzarci sui problemi delle dipendenze e consentirci di affrontare con maggiore consapevolezza la detenzione. Passando da questa mia esperienza, tra mille difficoltà, mi sono conquistato una vita senza droghe e senza sonniferi, ma prima di rendermi conto degli errori che facevo ho sbagliato abbastanza. Se dovessi sbagliare di nuovo sarebbe una vera beffa… non si sa mai, non c’è mai certezza su queste cose ma, di lezioni, credo di averne avute abbastanza.
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