Cercavo la Libertà

 

Piccole storie di migranti e di sogni persi per strada

 

Di Mourad, novembre 2000

 

Perché ad un certo punto della vita molti uomini e donne decidono di lasciare la terra in cui sono nati, le loro famiglie, ed accettano quella specie di salto nel buio che è l’emigrazione, e poi succede spesso che finiscono in carcere invece di riuscire a realizzare qualcuno dei sogni con cui sono partiti? Abbiamo cercato di capire questi "perché" così diversi ascoltando le storie dei ragazzi stranieri che fanno parte della Redazione di Ristretti Orizzonti, o che collaborano con essa.

 

Mi chiamo Mourad, da quando sono venuto in Italia ho dovuto usare parecchi nomi, ero clandestino e non ho avuto mai i documenti in regola, perché l’ambasciata tunisina non mi ha mai concesso il passaporto per i miei precedenti penali.

In Tunisia ero bruciato, con i miei precedenti nessuno poteva assumermi, avevo già da tempo il desiderio di lasciare il mio paese, volevo gettarmi alle spalle tutti i casini che avevo combinato. Io amo il mio paese, la terra in cui sono nato, e dove attualmente vivono ancora i miei genitori, che hanno fatto di tutto per darmi un’educazione ed una cultura sana!

Il fatto è che in famiglia eravamo in tanti ed era difficile per loro seguirci tutti come si deve, siamo in sette fratelli tutti maschi, immaginate che casino in casa: quindi i miei famigliari non potevano accorgersi che uno dei loro sette figli aveva già preso una brutta piega…

Me ne sono andato dal mio paese perché volevo aiutare la mia famiglia economicamente, e creare per me un futuro accettabile. In Italia ci sarei venuto anche a nuoto… Avevo sentito affermare che in Europa si guadagnava bene, anche senza rubare o commettere delitti. Era esattamente quello che volevo fare.

Sono partito dal porto di Mehdia su un vecchio peschereccio con altre cinque persone, alcuni erano diretti in Francia per raggiungere dei loro parenti, io non avevo nessuno da nessuna parte se non a casa mia, ma avevo un sacco pieno del materiale più prezioso che un uomo che lasci la sua terra deve avere con sé: la speranza e la voglia di riuscire. Per tutti la meta comune iniziale era l’Italia.

La realtà molto spesso è amara, e non corrisponde affatto ai tuoi sogni né tanto meno ai tuoi progetti.

 

Mi chiamo Hatem, questo è il mio vero nome, non ho mai usato uno pseudonimo o un nome falso, dico questo perché ci tengo ad affermare che sono tunisino. Faccio parte del gruppo della redazione di Ristretti Orizzonti e mi sento ben inserito qui in redazione in quanto sono libero di esprimermi senza paura.

Spiegare perché me ne sono andato dal mio paese per me è semplice, perché quello che cercavo, lasciando dietro di me le mie radici, la mia terra, è ciò che cercano da sempre uomini e donne che decidono di emigrare: prima di tutto volevo avere la possibilità di scegliere il mio futuro.

Dietro di me ho lasciato una situazione molto dura, fatta di obblighi e costrizioni anche da parte dei miei famigliari: in pratica non avevo la possibilità di scegliere, tutta la mia vita era pianificata da loro, ho sostenuto gli esami di maturità in lingua francese, ma anche questo non l’ho scelto io.

Una delle mie grandi passioni è il calcio, nel mio paese ho iniziato la carriera professionale, e dopo qualche anno di gavetta senza prendere una lira e lavorando seriamente con gli allenamenti sono stato inserito in una formazione che giocava nel campionato tunisino di serie B.

Ma anche qui intervenne la mia famiglia ed in particolare mio padre, che voleva impormi di andare a giocare in un’altra società, io ero minorenne e lui per legge era anche il mio tutore legale. Lui pensava di agire per il mio bene e per l’interesse della famiglia, ma di fatto mi ha distrutto sia da un punto di vista calcistico, e sia per le conseguenze ed i fatti che si sono succeduti dal momento che mi sono allontanato dal calcio.

Ci sono delle regole in Tunisia che rendono molto difficoltosi i passaggi da una società all’altra, io con questo trasferimento di società ho perso due anni di campionato. L’altro motivo per cui sono venuto in Europa è dovuto al fatto che l’otto novembre 1987 fu arrestato mio zio materno con l’accusa di essere un esponente della Jihad islamica, che è stata dichiarata fuorilegge nel 1985.

Mio zio fu arrestato in casa nostra e tutti noi messi sotto controllo dalla polizia.

In pratica distrussero la nostra famiglia, mio fratello primogenito si dovette dimettere dal gruppo speciale (militare) dove prestava servizio, anche perché il suo era un lavoro delicato, si occupava delle scorte dei personaggi politici in visita nel nostro paese.

Tra le altre cose obbligarono mia madre, praticante islamica, a togliersi il velo, se voleva continuare a lavorare nel nostro negozio di macelleria, altrimenti lo avrebbero fatto chiudere. Le mie sorelle furono rimandate a casa da scuola, perché portavano il velo sul volto. Io non sono un praticante musulmano, sono un semplice credente, ma sostengo che se una persona vuole manifestare la sua religiosità deve essere libera di poterlo fare.

I guai che la mia famiglia ha dovuto subire per questo furono molti, continue perquisizioni ed irruzioni in casa nostra, e questo è stato il motivo principale per cui ho lasciato la mia terra, quando mi hanno collegato, non si sa bene come, ai fatti di mio zio: lui fu condannato a 21 anni di carcere per terrorismo ed alto tradimento ed io a cinque anni per favoreggiamento nei suoi confronti.

In pratica in patria non posso più tornare.

 

Il mio nome è Alija, sono nato in Serbia (Kosovo) ma i miei genitori si sono trasferiti in seguito in Croazia. La prima volta che sono venuto in Italia risale al 1987.

Abitavamo a Pola, in Istria, ed il legame che in quella terra c’è verso l’Italia è molto forte. Sono un Rom, ricordo che in Kosovo, anche se sono nato in quella terra, venivo trattato da straniero, in Croazia invece eravamo più accettati, a Pola il 90% della popolazione è di origine italiana, e frequentando la scuola ero di conseguenza in classe con ragazzi d’origine italiana e mi rendevo conto che la mentalità italiana è molto più aperta verso gli altri. Avevo notato che, se dai ragazzi kosovari venivo rifiutato come amico, dai ragazzi italiani di Pola ero accettato, mi venivano a cercare, insomma eravamo amici.

Questo atteggiamento benevolo nei miei confronti da parte degli italiani mi fece desiderare di conoscere l’Italia e la sua cultura. Il popolo Rom è un popolo senza terra e per me l’Italia era la mia patria ideale. Spero alla fine della mia pena di poter legalizzare la mia situazione e restare qui lavorando onestamente.

 

Sono Imed Mejeri, provengo dalla Tunisia, da un quartiere di Tunisi vicino all’aeroporto di Cartagine. Da bambino uno dei nostri giochi preferiti era sdraiarci vicino alla recinzione dell’aeroporto e guardare gli aerei decollare: era un po’ come volare con loro e con la fantasia sono salito più volte su quegli aerei che per noi bambini andavano tutti in Francia; oppure quando decollava qualche aereo più grande degli altri la sua destinazione per i nostri giochi era "il paese più lontano del pianeta", cioè l’Australia.

Essere tunisino è qualcosa di cui vado fiero, anche se il mio paese non lo conosco bene come ora conosco l’Italia. I motivi che mi hanno spinto a lasciare la Tunisia fondamentalmente sono due: un forte desiderio di libertà ed avere la possibilità di realizzare il mio futuro.

Dopo la morte di mio padre molte cose sono cambiate in casa mia, al punto che sono arrivato a sentirmi un prigioniero. La gestione della casa era ora affidata a mia madre, che è molto più autoritaria di mio padre, che invece mi ha sempre viziato, e infatti io ero quello che in Italia definite un cocco di papà. Con mia madre litigavo spesso perché sosteneva, agendo di conseguenza, che io sapevo cavarmela da solo, mentre secondo lei i miei fratelli avevano bisogno d’aiuto, anche quelli più grandi di me. Io non ero geloso dei miei fratelli ma vivevo quella situazione come un’ingiustizia, perché in quel momento avevo bisogno del suo affetto, ma in casa eravamo in otto e mia madre aveva tutto sulle sue spalle, anche se io ero ancora troppo giovane per capirlo.

Da ragazzo ero piuttosto vivace e mia madre molto volentieri mi mandava a trascorrere l’estate da mia sorella già sposata in un’altra città.

Nel 1984 dopo lunghe lotte con lei riuscii a convincerla a lasciarmi partire per l’Italia in compagnia di mio cugino per un viaggio turistico. Fu un sì molto forzato ed il biglietto dell’aereo dovetti sudarmelo lavorando.

Le mie intenzioni non le confessai neppure a mio cugino e solo appena giunti in Italia gli comunicai la mia volontà di restare qui. Forse il motivo principale che mi ha spinto a lasciare il mio paese sono state proprio le difficoltà che con tutta la famiglia abbiamo dovuto affrontare dopo la morte di mio padre. Anche se allora non lo comprendevo oggi devo riconoscere a mia madre il grande merito di essere riuscita a prendere il suo posto e, a parte io che mi sono sottratto al suo controllo, il resto della famiglia è rimasto unito onesto e solido.

 

Il mio nome è Chinedy, sono nato in Nigeria a Enugwu, ma sono cresciuto a Lagos. Quando nel 1994 decisi di venire in Europa, il motivo principale fu il fatto che volevo continuare gli studi universitari in medicina, la mia meta era Londra perché una laurea conseguita in un’università europea è valida ed utilizzabile in tutto il mondo.

Prima di partire da Lagos chiamai un mio amico che era qui in Italia e decisi di fare tappa da lui prima di proseguire per l’Inghilterra. Venne ad attendermi all’aeroporto di Fiumicino. La mia idea era quella di fermarmi qualche giorno. Il mio amico era in Italia per motivi di studio e si manteneva lavorando.

Questo era quanto mi aveva raccontato, ma un paio di giorni dopo il mio arrivo mi disse la verità. Mantenersi in Europa costava molto, tutto costava caro, gli studi, la casa, il cibo, quindi mi confessò che quello che mi aveva raccontato non era vero e che per potersi mantenere si doveva "arrangiare".

Decisi di restare in Italia perché il mio amico faceva una bella vita e così ho dimenticato anch’io, come già aveva fatto lui, il motivo per cui ero venuto in Europa, gli studi. Sono partito per cercare di migliorare la mia vita, ma a causa delle mie scelte sbagliate ho trovato la galera.

Quando si parla di stranieri in carcere bisogna tenere conto che si sta parlando per la stragrande maggioranza di ragazzi. Nelle carceri minorili gli stranieri sono quasi l’ottanta per cento delle presenze, mentre nei grossi giudiziari (carceri dove sono detenute le persone in attesa di giudizio o con pene brevi) a volte superano il cinquanta per cento. Quello che accomuna tutti è il desiderio di poter avere un futuro decente, che spesso nel loro paese d’origine gli è negato, i giudizi morali sul perché siano finiti in carcere li lasciamo ad altri.