Quando l’ipotesi di essere scarcerati può "spaventare"

 

Facendo i conti e considerando di aver fatto tutti i colloqui (cosa impossibile) in 9 anni mia moglie e i miei figli li ho visti 27 giorni  

 

Di Marino Occhipinti, maggio 2002

 

Con R. ho condiviso quattro anni di carcere, due dei quali nella stessa cella. 24 mesi durante i quali, se c’è feeling, la conoscenza si trasforma in sincera amicizia; si condivide l’angoscia, quando le cose vanno male, e la felicità quando le notizie sono buone. L’amicizia porta a confidarsi ed inevitabilmente i sentimenti confluiscono all’interno di una specie di unico, grande contenitore, anche se quelli più profondi rimangono nell’intimo e nel cuore di ognuno.

Di R. "conosco" la famiglia, la voglia di uscire al più presto dal carcere, così da essere di aiuto alla moglie ed ai figli dopo i parecchi anni di assenza forzata.

Il trasferimento ha separato le nostre strade due anni fa, ma con R. non si è mai interrotta la corrispondenza epistolare. L’argomento principale delle nostre lettere sono sempre i figli e le mogli, le "solite" problematiche legate alla scuola dei bimbi, il calcio che magari viene preferito allo studio e così via.

Questo fino a un mese fa, quando R. mi scrive "preoccupato" per qualcosa che proprio non aveva previsto: il "rischio" di essere scarcerato!

R., in carcere dal giugno 1993, si era "illuso" che la Suprema Corte di Cassazione rendesse finalmente definitiva la sua sentenza, così da poter chiedere la liberazione anticipata e l’ammissione ad una pena alternativa. Ma queste erano previsioni che, nella migliore delle ipotesi, comportavano l’attesa di parecchi mesi, ossia i tempi di fissazione della relativa Camera di Consiglio.

In realtà R. aveva fatto i conti senza l’oste o, meglio, non aveva affatto preventivato che la Suprema Corte potesse dargli ragione.

"E adesso che il procedimento è stato annullato, che il processo dovrà essere rifatto, non è che tra due mesi mi buttano fuori? D’altronde sai, scadono i 9 (nove) anni di custodia cautelare, e non potranno più tenermi…! Proprio oggi parlavo con mia moglie ed ho espresso il mio timore nel tornare a casa, non timore nel senso proprio della parola, ma nel senso che dopo 9 anni "un estraneo? irrompe nella loro vita.

Mi spiego meglio: facendo i conti e considerando di aver fatto tutti i colloqui (cosa impossibile), in 9 anni li ho visti 27 giorni. Questo vuol dire che i ragazzi sono cresciuti con la madre, si sono fatti una loro vita, si sono guadagnati una certa libertà ed autonomia, anche se dosata, e con molta parsimonia, da mia moglie. Sono felicissimi che io ritorni a casa, ma sono consapevole che sarà un trauma per tutti e quattro. I rapporti con i figli sono difficili quando si cresce tutti assieme, figurati dopo una lontananza di 9 anni; dovremo riabituarci alle rispettive abitudini, a convivere tutti assieme nel più breve tempo possibile, dovrò essere io a rientrare pian piano nel loro modo di vivere… Non posso nascondermi dietro a un dito, questa è una delle prove più difficili della mia vita: riconquistare la famiglia, negli affetti e nella fiducia, nell’amore e nella quotidianità".

Potrà anche sembrare una reazione strana, quella del timore di rientrare in famiglia, ma tant’è. È di questi giorni l’ultima lettera di R. È stato scarcerato venti giorni prima della scadenza dei termini massimi, ma gli anni trascorsi in carcere rimangono, troppi, senza una sentenza definitiva che accertasse la sua eventuale colpevolezza. Non è di questo che però volevo parlare, ma solo di affetti, per far capire quanto il momento più atteso possa, a volte, addirittura spaventare.

"A casa tutto bene, pensavo peggio, non ho quasi sentito il trauma dell’inserimento in famiglia, anche se mi sento un po’ strano benché mia moglie e i miei figli non mi facciano pesare questa situazione. Si comportano come se io non fossi mai mancato. La gioia di essere a casa dopo 8 anni, 11 mesi e dieci giorni? Non lo so, non riesco a descrivertela, sono cose che vanno provate…".